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Decostruire i miti illusori della modernità per uscire dalla crisi

di Cristiano Viglietti - Luca Aterini - 13/04/2012

«In effetti, il progetto di società della decrescita, al di là dello slogan blasfemo, è una sfida provocatoria». Così il filosofo ed economista francese Serge Latouche - nelle pagine del suo ultimo volume "Per un'abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita", edito da Bollati Boringhieri - si esprime a proposito del pensiero decrescista. Un pensiero ed un movimento difficili da catalogare, definire e metabolizzare da parte di una società il cui orizzonte ancora ruota attorno al totem della crescita.

Avversata in partenza per uno slogan tacciato come fazioso - più che di decrescita si dovrebbe parlare di a-crescita (intesa come un'uscita dalla religione della crescita), è stato successivamente e giustamente osservato - all'idea di decrescita si accomunano posizioni radicali portavoci di improbabili idee decliniste con altre più moderate, nelle quali trova spazio la cruciale domanda: data l'insostenibilità dell'attuale paradigma della crescita economica esponenziale, cosa nelle nostre organizzazioni sociali deve e può ancora crescere, e cosa non deve e non può più crescere?

Del resto, questa varietà di posizioni è riconosciuta dallo stesso Latouche, guru moderno della decrescita, quando afferma che «gli obiettori di crescita non hanno la vocazione ad avere una risposta a tutto e a chiudere il dibattito: ci sono controversie anche all'interno del movimento della decrescita». Partendo da questo presupposto, cerchiamo insieme all'antropologo Cristiano Viglietti (autore de“Il limite del bisogno. Antropologia economica di Roma arcaica” per le edizioni “Il Mulino”), di far luce su alcuni dei punti meno chiari del pensiero decrescista, facendo leva proprio sulle pagine dell'ultimo volume di Latouche.

«Dobbiamo rivedere i valori nei quali crediamo. La povertà materiale e una certa sobrietà sono state per secoli valori positivi. È stata l'economicizzazione del mondo a creare la miseria che oggi conosciamo in numerose regioni del pianeta», scrive Latouche all'interno del suo libro "Per un'abbondanza frugale". Individua nel pensiero che anima la decrescita un riflesso di principi di parsimonia e moderatio che erano fondamentali già nella Roma arcaica?

«Nel pensiero che anima l'idea contemporanea di decrescita, di cui Serge Latouche è l'esponente più noto, confluiscono i riflessi di molte correnti di pensiero: la bio-economia di Nicholas Georgescu-Roegen, il pensiero conviviale di Ivan Illich, l'ecologismo libertario di Jacques Ellul e Bernard Charbonneau, il socialismo critico di Cornelius Castoriadis e quello utopico di Pierre-Joseph Proudhon e William Morris, l'antropologia-economica come forma di critica culturale che si ispira a Marcel Mauss, Karl Polanyi e Marshall Sahlins, fino all'etica civile e religiosa di Mohandas Gandhi. Il filo rosso che tiene insieme tutte queste visioni dell'economia e della società è il riconoscimento della omologia tra il pianeta Terra e gli esseri umani che su di esso vivono: come le risorse presenti sulla terra sono finite, così l'uomo deve sviluppare delle pratiche di vita che devono contenere i suoi bisogni e desideri. È proprio Latouche a sostenere in "Per un'abbondanza frugale": «la nostra vita può diventare tanto più ricca quanto più sappiamo limitare i nostri bisogni» (p. 116). Tra le culture che praticarono questa filosofia di vita ci furono, almeno per un certo periodo, anche i Romani che, da un certo momento in poi iniziarono a usare il termine frugalitas - da cui ‘frugalità' deriva - come sinonimo di parsimonia, che indica esattamente quell'attitudine a porre un limite, un modus, ai desideri e bisogni materiali. Sotto questo aspetto si può dire che anche la cultura romana, a cui talora Latouche fa riferimento (ad es. in La scommessa della decrescita, trad. it Milano, Feltrinelli, 2007, p. 18) può essere annoverata tra le ispiratrici della moderna idea di decrescita».

 

Circa la decrescita, Latouche ne parla come di «uno slogan al livello delle parole e un ritorno dentro gli argini al livello delle cose», per poi aggiungere che, «inoltre, per decrescere bisogna "de-credere"», riferendosi evidentemente alla cosiddetta "religione della crescita". Come crede si giunga, da questa posizione, a quelle ben più estreme che definiscono come ambizione della decrescita quella di rinunciare a qualsiasi tipo di sviluppo?

«Che quelli di ‘crescita' e, ancor più, di ‘sviluppo' siano fedi, o miti, propri della società occidentale lo evidenzia bene l'antropologo Marco Aime nell'introduzione a un altro libello che Latouche ha scritto recentemente insieme a Didier Harpagès (Il tempo della decrescita, trad. it. Milano, Elèuthera, 2011): "se un politico fa affermazioni che vengono regolarmente smentite, alla lunga perde credibilità. Nel campo dello sviluppo, invece, le promesse sono instancabilmente ripetute e gli esperimenti costantemente riprodotti. [...] Appare quindi evidente che la problematica dello sviluppo è inscritta nell'immaginario occidentale e ne costituisce il mito fondante" (p. 9). E ancora: "la maggior parte delle definizioni dello sviluppo sono basate sul modo in cui una o più persone immaginano una condizione ideale di vita" (p. 7). L'idea di sviluppo ha, in qualche misura, sostituito il mito dell'età dell'oro, e come un mito ha molte varianti (sviluppo durevole, sostenibile, compatibile, umano etc.) e sempre ragione, pur non basandosi su logiche razionali.

A conferma di quanto Aime, e con lui Latouche, sostiene le faccio un paio di esempi. Si ritiene che la crescita economica faccia crescere i posti di lavoro, ma non è necessariamente vero: "dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire [...], la popolazione è cresciuta [...] con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998)" (M. Pallante, La decrescita felice, Roma, Editori Riuniti, 2005, p. 44). In Francia i posti di lavoro nell'industria sono diminuiti di un milione e mezzo dal 1978 al 2002, mentre gli agricoltori sono quasi spariti; in Spagna negli ultimi 20 anni il PIL è cresciuto del 74% e la disoccupazione non è certo diminuita, come nota ancora Latouche in Per un'abbondanza frugale (pp. 96 e 94).

Un altro mito, e dunque una fede, da sfatare è quello secondo cui quella sviluppata rappresenti l'economia più razionale, e dunque più in grado di ottimizzare le risorse a disposizione, ma non è affatto così. Dice ancora Latouche "il cespo di lattuga della valle di Salinas (California) [...] arriva sui mercati di Washington dopo un viaggio di 5000 chilometri, e per il suo trasporto si consuma 36 volte più energia (petrolio) di quella rappresentata dal suo contenuto calorico. Quando finalmente la lattuga arriva a Londra in aereo, ha consumato 127 volte più energia (petrolio) di quella che contiene" (p. 58). O ancora: "i gamberi scozzesi espatriano in Thailandia per farsi sgusciare a mano in uno stabilimento [...] e riguadagnano la Scozia per farsi cuocere prima di essere venduti" (pp. 58-59). All'obiezione che questi meccanismi apparentemente aberranti sono in realtà determinati dalla cosiddetta "legge della domanda e dell'offerta", si può facilmente replicare che quei meccanismi stessi non tengono conto, e colpevolmente, dei costi ambientali che contengono: tutti quegli spostamenti delle merci da una parte all'altra del mondo, infatti, inquinano, e molto (senza contare che fanno perdere il lavoro a chi potrebbe coltivare, a km zero, la lattuga in una serra a Londra, o a chi potrebbe sgusciare i gamberetti appena pescati direttamente in Scozia). Ma, appunto, quella della crescita-sviluppo è una fede, non una visione economica organica e scientifica. Non è forse un caso se i Camerunesi di lingua eton traducono la nostra idea di sviluppo come "il sogno del bianco".

È vero anche che, al fanatismo della crescita, corrispondono talora dei fanatismi della decrescita, specialmente di tipo anti-tecnologico e luddista, o autarchico, che però riguardano un numero minimo di persone e non mi pare appartengano a Latouche. E che in ogni caso non producono particolari danni».

 

Nel volume di Latouche si legge come auspicio della decrescita una rottura del «circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e di prodotti, come pure dalla frustrazione crescente che questa genera, e contemporaneamente che si compensi attraverso la convivialità l'egoismo derivante da un individualismo ridotto a una massificazione uniformizzante». La corrente della decrescita si fa così portavoce anche di un cambiamento di stampo morale?

«La mia impressione è che, in questo momento, esistano due atteggiamenti rispetto alla questione della crisi economica. Uno secondo cui la crisi c'è, è grave, e per uscirne l'Occidente è chiamato a un radicale cambio di rotta. L'altro atteggiamento è quello che Latouche indica criticamente con l'espressione "tutto piuttosto che mettere in discussione il nostro modo di vita" (p. 42).

Almeno in Occidente, attualmente ci troviamo in una condizione di dominanza, almeno a livello politico, del secondo paradigma. Se invece i popoli occidentali decideranno di ri-orientare i propri stili di vita è evidente che anche i modelli di riferimento morali, i paradigmi comportamentali e, nondimeno, le forme economiche e istituzionali dovranno cambiare.

Se si arrivasse a ritenere, ad esempio, che i bisogni, i desideri, e dunque i possessi, devono essere limitati si potrebbero introdurre, come Latouche propone, imposte dirette progressive: "per i redditi superiori al massimo legale (la fissazione di un reddito massimo fa parte del programma della decrescita) la progressività potrebbe arrivare addirittura al 100%. Dovrebbe poi essere [...] introdotta una fiscalità indiretta sui beni di lusso, che potrebbe colpire [...] il cattivo uso delle risorse naturali, dei beni e dei servizi" (p. 17). Si istituirebbero, insomma, nuove leggi di tipo suntuario, animate anche da esigenze ecologiche, che ad oggi paiono impensabili perché nella nostra società l'accumulazione illimitata della ricchezza è considerata un bene. Tali leggi hanno rappresentato, tuttavia, la norma in molte società antiche, in gran parte dei comuni medievali italiani, e negli Stati europei (Inghilterra e Francia compresi) fino al 1700, cioè prima che si affermassero le filosofie della crescita progressiva.

E ancora, se si affermasse l'idea che la natura va sfruttata nella misura più bassa possibile, e dunque secondo una diversa forma di "razionalità", si potrebbero produrre merci destinate a durare a lungo nel tempo, e aggiustabili, esattamente al contrario di quanto avviene oggi con la cosiddetta "obsolescenza programmata" che ben conosciamo. Ancora ne Il tempo della decrescita (pp. 41-42) Latouche e Harpagès raccontano che in una caserma dei pompieri di New York, nel 2008 si è scoperto che era in funzione una lampada acquistata nel 1896. Oggi le lampadine vengono costruite per durare 2000 ore, a tutto vantaggio della crescita del PIL, ma certo non dell'ambiente, del tornaconto dei consumatori e, direi, dello stesso progresso tecnologico».

 

Lo stesso Latouche, all'interno del suo libro, osserva come «parlare dunque di una buona crescita o di una buona accumulazione del capitale, di un buono sviluppo - per esempio di una mitica «crescita al servizio di un migliore soddisfacimento dei bisogni sociali» - equivale a dire che può esistere un buon capitalismo (che si presenta come verde o sostenibile/durevole), con tanto di buono sfruttamento. Per uscire dalla crisi che è al tempo stesso, e inestricabilmente, ecologica e sociale, bisogna uscire da questa logica di accumulazione senza fine del capitale e di subordinazione di tutte le decisioni alla legge del profitto». Qual è il suo giudizio in merito a tale passaggio?

«Questa questione riporta ai miti di fondazione della modernità. Tra questi, uno potentissimo e che non appartiene agli economisti delle prime generazioni, ma a quelli della fine del XIX e soprattutto degli inizi del XX secolo, è il cosiddetto "postulato di scarsità", cioè l'idea (che viene data per scontata, ma scontata non è affatto) che i desideri umani siano naturalmente illimitati e che, dunque, i mezzi del loro soddisfacimento presenti in natura siano scarsi. Questo postulato spinge, da un lato, molti individui ad accumulare quanti più beni e ricchezze possono, sottraendone ai loro simili, dall'altro a consumare in modo crescente la natura. Il postulato di scarsità appare come la formalizzazione apparentemente scientifica dello hobbesiano bellum omnium contra omnes, in cui gli uomini, al contempo avidi di ricchezze e frustrati per non averne mai abbastanza, lottano l'uno contro l'altro per avere sempre di più, destabilizzando i rapporti sociali e distruggendo le risorse naturali per il proprio tornaconto. La messa in discussione, e lo svelamento dell'illusorietà di miti di questo genere, che fondano molti dei comportamenti degli Occidentali - in special modo dei ricchi e di chi ricco vuol diventare (la decrescita, d'altronde, "non è roba da ricchi!", ammoniscono Latouche e Harpagès, Il tempo della decrescita, p.

78) - potrebbe indicare dei percorsi per uscire dalla crisi profonda della nostra società».

 

«L'esempio della Grecia è eloquente per illustrare il fallimento della pseudoalternativa di sinistra: un popolo vota in massa per un partito socialista con un programma socialdemocratico classico; sotto la pressione dei mercati finanziari il governo socialista attua una politica di austerità neoliberale, obbedendo alle ingiunzioni congiunte della Commissione europea di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale (FMI)». In questo passaggio Latouche sembra denunciare - in modo del tutto condivisibile - la debolezza delle democrazie di fronte al chomskyiano "Senato virtuale", termine col quale il linguista e filosofo americano intende riferirsi alla determinante influenza sulla politica della finanza internazionale. Pensa che quella della decrescita sia una corrente che ambisca e possa inglobare in sé una risposta a tale debolezza?

«Credo che non ci siano due visioni più lontane tra loro di quella di austerità, esemplificata da molti governi occidentali attualmente in carica, e quella di decrescita o di frugalità. L'austerità è la risposta automatica della cultura economicista e sviluppista alle crisi: si contengono le spese al massimo e ci si inventa qualche tassa finché non passa la bufera per poi, se le cose migliorano, tornare a comportarsi esattamente come si faceva prima. È evidente che queste politiche di piccolo cabotaggio non costruiscono alternative per il futuro.

Va tuttavia detto che se gli Stati occidentali, e in particolare la Grecia, l'Italia, la Spagna e l'Irlanda, si trovano schiacciati dalle politiche di austerità, è perché si sono indebitati pesantemente, anche a causa di politiche sociali mal programmate e sprecone.

A risanare gli Stati indebitati non credo che possa bastare una "inflazione controllata al 5%" (Per un'abbondanza frugale, p. 20). Va semmai concepita un'etica "frugale" dello Stato in cui chi è chiamato a gestire la cosa pubblica non agisca sulla base dell'avidità e dell'interesse personale. Per raggiungere questo obiettivo è indispensabile introdurre criteri meritocratici che, per realizzarsi, hanno bisogno al contempo di modelli autorevoli e di un ripensamento dell'educazione dei cittadini. Sono temi, questi, su cui alcuni padri della decrescita, come Ivan Illich, hanno scritto pagine importanti e su cui Latouche si sofferma, nel complesso, poco. Non vi è dubbio che i modelli di comportamento e le politiche di stampo capitalistico abbiano prodotto ineguaglianze incredibili in Occidente, e ha senso riflettere su modi per raggiungere una maggiore equità e una migliore redistribuzione della ricchezza prodotta, come i sostenitori della decrescita fanno. Ma è anche vero, come ha recentemente sostenuto il Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali Andrea Carandini ne Il nuovo dell'Italia è nel passato (Roma-Bari, Laterza, 2012), che "l'orizzontalità democratica dell'uguaglianza deve tornare a combinarsi alla verticalità liberale delle competenze" (p. 37), e dunque al merito. In questo senso credo che la decrescita, accanto alle idiosincrasie della destra "egoista", dovrebbe sviluppare idee per superare anche gli eccessi di certo "egualitarismo" di sinistra - a cui a volte Latouche (pp. 85-86), invece, fa l'occhiolino».

 

La dialettica tra crescita, sviluppo e decrescita spesso si gioca essenzialmente sul filo di lana della semiologia, del significato delle parole. Frequentemente tale dialettica innalza barricate ideologiche e piccate contrapposizioni, ma un nuovo paradigma sociale, ecologico ed economico ha essenzialmente il compito di definire cosa di questi aspetti della vita umana può (e deve) ancora crescere e svilupparsi - e cosa no - tenendo conto del contesto globale e molteplice nel quale tutti ci troviamo a muoverci, non crede?

«Certamente. Credo che, seguendo e insieme sviluppando il pensiero del padre dell'antropologia economica, primo lucido e non ideologico critico dell'economia occidentale, cioè Karl Polanyi, il paradigma auspicabile per il futuro dell'Occidente dovrebbe cercare di "re-incorporare"

l'economico nel sociale. L'idea che tutti i problemi e le questioni vitali delle nostre società passino per l'economico (inteso in senso capitalistico) è un'altra di quelle credenze che ci fa vivere male e che non ci consente di comprendere la natura della crisi dell'Occidente, che è una crisi socio-culturale e, di conseguenza, anche economica. Per quanto i negazionisti non manchino - e in queste settimane sui quotidiani se ne sono messi in mostra diversi, vecchi e, ahimè anche giovani -, credo che tutti i contributi che possono portare a sviluppare consapevolezza rispetto allo stato attuale, mostrando le cause della crisi nella loro complessità, e non nascondendo dei dati, siano i benvenuti. L'idea di un'abbondanza frugale che si realizza tramite la volontaria riduzione dei desideri può essere un punto di partenza importante, che dovrà tuttavia trovare delle formulazioni più ampie nel campo politico-istituzionale e in quello educativo-formativo».