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Nevica sull’Europa

di Francesco Lamendola - 18/04/2012

 


 

Esiste ancora l’Europa?

Dopo il doppio suicidio del 1914-18 e del 1939-45 (o, se si vuole, dopo il suicidio in due atti del 1914-45), è rimasto ancora qualcosa della sua anima?

Non le case, non le città, ridotte a cumuli di macerie dalle bombe al fosforo dei “liberatori”, e poi ricostruite: ma si possono ricostruire i quartieri, le chiese, i palazzi; si possono ricostruire Lipsia, Dresda, Berlino? Si possono ricostruire Danzica, Breslavia, Königsberg, dopo che gi abitanti sono stati cacciati lontano, e le vecchie architetture germaniche sono state sostituite dal grigiore dei casermoni-alveare del realismo socialista?

Non la cultura, l’arte, il pensiero, ridotti anch’essi in rovina, non tanto dalla guerra, che ne fu anzi l’effetto, quanto da un male oscuro ed interno, da un cancro misterioso andato in metastasi, le cui prime avvisaglie risalgono molto indietro nel tempo, almeno quattro o cinque secoli fa, quando il tempo di Dio fu sostituito dal tempo del mercante e del banchiere.

Non la spiritualità, la fede, la speranza nell’avvenire: queste cose erano già al tramonto, quando la tragedia della guerra civile del 1914-45 diede loro il colpo di grazia.

Già da tempo l’Europa era minata dal cancro: il cancro dell’usura, come direbbe Pound; e ora l’usura la sta uccidendo, giorno per giorno, settimana dopo settimana, per mezzo delle speculazioni di borsa e delle agenzie di rating.

Chi abbia una certa età e viaggi per l’Europa, oggi, e specialmente per la Mitteleuropa, il suo cuore antico che, per secoli, ha pulsato e distribuito il sangue per le sue vene, dandole vita, calore, movimento, stenta ormai a riconoscerla.

È diventata una brutta copia degli Stati Uniti: non ha più anima, non ha più una sua individualità, una sua identità; i suoi giovani, per come vestono, per come parlano, per come impiegano il loro tempo libero, sembrano giovani americani; i suoi negozi, i suoi supermercati, i suoi centri commerciali, sembrano americani; i suoi drogati, i suoi alcolizzati, i suoi agenti di borsa, i suoi cinici finanzieri, sembrano americani; le slot-machines vengono direttamente dall’America; le sue università, il suo modo di fare la spesa o praticare lo sport, la sua stampa, il suo cinema, la sua letteratura, sembrano americani; e ovunque svettano i McDonald’s e si beve Coca-Cola.

Una ondata migratoria senza precedenti l’ha investita e continua ad investirla quotidianamente, facendo assomigliare molti quartieri di Milano, di Lione di Amsterdam e di Liverpool ad altrettanti quartieri di Marrakech, di Calcutta, di Abidjan o di Shanghai.

L’Europa orientale si sta svuotando dei suoi giovani, che emigrano tutti ad Ovest; l’Europa occidentale non fa più figli, in compenso importa milioni di giovani da ogni parte del mondo: ciascuno dei quali insegue un miraggio di benessere economico, ma quasi nessuno di essi la ama o la rispetta: cercano frigoriferi pieni e non altro.

È legittimo, ma non è un bene: né per loro, che soffrono di restare eternamente sul gradino più basso della scala sociale e che non sanno né vogliono integrarsi, né per noi, che vediamo sempre più in difficoltà il nostro piccolo commercio, sempre più degradate e insicure le nostre periferie e perfino i centri storici, sempre più problematica la convivenza con persone di cento razze diverse che vengono, legalmente e illegalmente, chiedono, pretendono, quando non ci sono più lavoro e sicurezza sociale nemmeno per gli Europei.

Ora si vuol far entrare in Europa, dopo la Romania e la Bulgaria, che non erano assolutamente pronte, anche la Turchia, coi suoi ottanta milioni di musulmani; e perfino Israele, con il suo conflitto irrisolto coi Palestinesi e, di conseguenza, con tutto il mondo islamico: oltre un miliardo di persone e alcune decine di Stati, alcuni dei quali sono i proprietari delle maggiori riserve petrolifere del mondo, senza le quali l’Europa si fermerebbe dalla sera alla mattina.

Nevica sull’Europa: a falde larghe e piene, giorno dopo giorno, coprendo le strade, i palazzi, i campi, le banchine dei porti, gli argini dei fiumi.

È una stagione di gelo e non si vede alcun indizio che possa mai tornare la primavera; che nei giardini possa spuntare di nuovo un po’ di verde o si possa mai veder tornare le rondini e udire in cielo i loro richiami festosi.

La sera, nelle città, pare che sia stato proclamato il coprifuoco: interi quartieri piombano nel buio e nel silenzio. La gente non si ferma più nei cortili, non si vedono più gruppi di amici: solo automobili che sfrecciano silenziose e, dietro i vetri delle finestre, la luce spettrale del tubo catodico della televisione.

Qualcuno, in poltrona, segue con religiosa attenzione qualche programma di giochi a quiz, qualche reality tipo Grande Fratello, qualche brutto film d’azione inframmezzato da innumerevoli spot pubblicitari: e guarda tutto, ascolta tutto, digerisce tutto, come un ruminante.

Solamente i locali e le strade del centro sono pieni di gente, ma solo fino ad una certa ora; poi, anche lì, quando chiudono i cinema e le birrerie, scende il coprifuoco: non restano che gli ubriachi stramazzati a terra o sulle panchine, mentre le volanti della polizia vanno su e giù, in un paesaggio stranito e quasi surreale, da film di fantascienza.

I giovani vanno a stordirsi nelle discoteche; la droga si spaccia come fosse roba da niente; i viali di periferia sono una interminabile esposizione di corpi in vendita, osceni, provocanti, squallidi, troppo vecchi o troppo giovani, di tutte le razze, di donne e di travestiti.

Folle di nuovi poveri fanno la coda davanti alle mense popolari e, la sera, davanti ai dormitori pubblici; e ogni giorno ci sono un piccolo imprenditore o un pensionato che si tolgono la vita, mentre gli usurai imperversano e le banche rifiutano di prestare denaro a chiunque, per quanto onorato cittadino e serio lavoratore, non possa esibire garanzie ineccepibili.

Eppure, nonostante tutto, i centri commerciali sono pieni e adesso rimangono aperti anche la domenica, anche a Pasqua; le commesse non possono dedicarsi ai figli e ai mariti, devono star lì a servire i clienti; e le famiglie, invece di prendersi un giorno di svago e di riposo, invece di fare una piccola gita sul fiume o in collina, si rinchiudono dalla mattina alla sera in mezzo ai carrelli e agli scaffali pieni di merci, pranzano perfino nei fast-food all’interno dei centri commerciali, sognano davanti all’ultimo modello di telefonino o di computer.

Si fanno sempre meno figli, si crede sempre meno nel futuro.

I matrimoni sono in caduta libera, gli aborti non diminuiscono affatto, anche se i loro paladini ci avevano assicurato che, una volta riconosciuti per legge e affidati alla pubblica sanità, sarebbero andati gradualmente scomparendo.

Le chiese sono sempre più vuote, gli stadi sono sempre più pieni, anche se molte partite sono truccate, anche se la violenza dei tifosi è sempre pronta ad esplodere, in cerca di pretesti per sfasciare tutto, per far emergere il barbaro che si annida in fondo a ciascuno.

Le scuole sono ridotte a fabbriche d’ignoranti o di mezzi ignoranti, la razza più pericolosa: abbastanza presuntuosi da non rendersi conto neppure di ciò che manca loro; i presidi, ridotti a burocrati; i professori di qualità, una merce sempre più rara e quasi introvabile; in compenso, anche lì, volgarità e maleducazione imperanti, ragazze e ragazzi discinti, cartacce e mozziconi di sigaretta ovunque, tranne che negli appositi cestini; parolacce e gesti osceni si sprecano addirittura. Quando gli alunni escono dall’aula, dopo l’ultima ora di lezione, lasciano un campo di battaglia: disordine e sporcizia dappertutto; gli infissi, le persiane, i tavoli e le sedie non durano più di pochi anni, poi bisogna sostituirli, perché semidistrutti. Il bullismo imperversa, i più deboli sono derisi, ricattati, perseguitati; vige la legge di Hobbes: «homo homini lupus». Gli atti più gravi vengono sanzionati con un paio di giorni di sospensione, poi il discolo torna all’ovile e tutto ricomincia come prima.

Alla fine ci si diploma, magari con un alto punteggio, senza saper trovare la Cina sulla carta geografica, senza saper applicare il teorema di Pitagora in un semplice problema di geometria, senza saper tradurre in italiano quattro righe di Cesare o di Cicerone. I pochi che vengono respinti fanno ricorso e, quasi sempre, la spuntano, magari per un vizio procedurale della commissione d’esame.

Però si viaggia molto, questo è innegabile.

Forse i nostri giovani non conoscono la città i  cui abitano, forse non sono mai stati nella propria capitale, però il loro bravo «Erasmus», la loro brava vacanza-studio in Inghilterra li hanno fatti; e forse sono stati anche negli Stati Uniti, tornandone entusiasti.

L’Europeo non si sente più Europeo, ma cosmopolita; non ama la sua terra, la sua civiltà, la sua storia, perché la conosce poco o niente: basti dire che è proibito parlare, in sede di Unione europea, delle radici cristiane del nostro continente; però, in compenso, si sente cosmopolita, si sente cittadino del mondo: come chi non possieda nemmeno una camicia, né un paio di pantaloni decenti, ma pretenda di pavoneggiarsi in un soprabito di lusso che qualcuno gli ha imprestato, forse per carità, o forse per ridere alle sue spalle, rendendolo simile a un pagliaccio.

L’Europa non ha più una cucina; non ha più una musica; non ha più una architettura; le va bene tutto, prende qua e là, mescola e rimescola gli ingredienti più disparati: paga somme favolose a degli architetti megalomani, perché facciano e disfino il volto delle sue città; si prostra davanti alle star dei megaconcerti rock, ieri Madonna, oggi Lady Gaga; si rovina la salute mangiando qualunque porcheria, possibilmente carne e patatine fritte immerse nell’olio, così, perché lo ha visto fare nei cento e cento telefilm importati dall’America.

L’Europeo, in fondo, si vergogna di essere Europeo: gli hanno insegnato, fin dai banchi di scuola, che l’Europa è cattiva; che, fin dagli albori della sua storia, non ha fatto altro che rapinare e schiavizzare gli altri continenti; che ha scatenato due guerre mondiali, che ha consumato il peggiore genocidio della storia; mentre gli Stati Uniti sono buoni, non hanno mai fatto una guerra se non per difendersi o per tenere alta la bandiera della libertà e della democrazia: anche per gli altri, anche per quelli che non la volevano e non la vogliono, anche per quelli che la detestano.

L’Europeo dell’Est vorrebbe diventare un Europeo dell’Ovest; e l’Europeo dell’Ovest vorrebbe essere uno Statunitense.

L’Europeo non si piace, non si vuol bene, non si accetta: vorrebbe far sparire le tracce del suo Dna, vorrebbe reinventarsi una nuova identità, pura e senza macchia: una identità moderna, libera e disinvolta. Secoli di civiltà gli pesano sulle spalle; in fondo si vergogna dei suoi musei, delle sue pinacoteche, dei suoi archi romani, delle sue cattedrali gotiche: troppa storia, troppo passato, troppe guerre, troppe colpe da dimenticare e da far dimenticare.

L’Europeo non è felice.

Va dallo psicanalista, si imbottisce di psicofarmaci, non riesce a dormir la notte; i suoi sogni sono popolati da incubi, le sue veglie sono protese costantemente verso un bene futuro che gli sfugge sempre, verso una impossibile felicità, che lo beffa e lo lascia esausto e scoraggiato.

Si guarda allo specchio e non si piace: troppo grasso, troppo magro, troppo vecchio, troppo goffo, troppo lento, troppo tutto. Allora va dall’estetista, si fa le lampade a ritmo febbrile, spende una fortuna in cosmetici, si massacra di fatica nelle palestre, ricorre sempre più spesso alle magie del chirurgo plastico: deve raddrizzarsi il naso, ingrossare le labbra, eliminare le pieghe del collo e le rughe delle occhiaie, ridisegnarsi le chiappe, il seno ed i polpacci.

Ma non trova pace, c’è sempre qualcosa che non va, nonostante ogni più strenuo sforzo.

Allora si persuade che da solo non ne verrà mai fuori, ed entra in qualche setta, in qualche gruppo, in qualche clan; si entusiasma e si esalta per un messia religioso, per un leader politico, anzi mescola insieme le due cose e si mette ad adorare qualche eroe di cartapesta, qualche salvatore della patria a un tanto il chilo; e lo fa con una dedizione assoluta, con una fedeltà canina, con un fanatismo a prova di bomba. Non  si arrende neppure davanti all’evidenza.

Non è una moda italiana: chi non ricorda le folle oceaniche al funerale di Lady Diana, stravolte dal dolore, insensibili alla stanchezza? Eppure sono bastate poche settimane e anche quel feticcio era già dimenticato; e le folle andavano in cerca di un altro.

Nevica sull’Europa, sempre più fitto: e non sappiamo se tornerà mai la primavera; non sappiamo se, sui rami del ciliegio, torneranno a spuntare i fiori bianchi; non sappiamo se a marzo torneranno le rondini ai loro nidi, rimasti vuoti e silenziosi.

Perché la primavera torna quando ci sono amore per la vita, stima di sé e rispetto del passato…