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Se il cancro al seno diventa un business…

di Susanna Curci - 02/07/2012

Fonte: glialtrionline

 

SI SCRIVE ESTEE LAUDER SI LEGGE PINKWASHING


È brutto vivere nella paura. Nella paura di morire. Nella paura di ammalarsi. Nella paura di vivere. Eppure siamo quotidianamente circondati da veri e propri generatori di paura, in un mercato senza scrupoli il cui unico scopo è quello di realizzare profitti sulle sventure umane. In particolare, oggigiorno, nel mondo del terrorismo istituzionalizzato, commercializzato e venduto in confezioni dall’aspetto invitante, si distingue il business della ricerca sul cancro al seno. Un mercato che si sostiene sulla pelle di donne ignare, pronte a comprare prodotti colorati di rosa (spesso e volentieri tossici e contenenti sostanze potenzialmente cancerogene) perché sinceramente convinte di fare qualcosa di utile per la salute propria e di tutte le altre.

Ma com’è stato possibile arrivare a tanto? Siamo stati abituati, nel tempo, a considerare il cancro come un tabù. Non una malattia come tutte le altre – con una causa, una evoluzione e una possibile fine – ma una metafora della morte stessa. Una malattia che arriva senza alcuna ragione, imprevedibilmente, e ti porta via in poco tempo. Abbiamo imparato a non parlarne, e se proprio costretti, a usare ridicole circonlocuzioni: come se quella parola malvagia, “tumore”, avesse in qualche modo il potere di richiamare la sventura addosso al povero malcapitato (o, nel caso del cancro al seno, alla povera malcapitata) tanto incauto da essersi azzardato a pronunciarla.

Non è certo un caso se il concetto stesso di “prevenzione” sia ormai stato sostituito universalmente da quello di “diagnosi precoce”. Infatti, sembra non esista un modo reale di prevenire il cancro al seno, e che l’unica e sola possibilità di salvezza per una donna sia quella di prenderlo in tempo una volta individuato. E non è certo un caso, a fronte di ciò, che non esista una reale ricerca delle cause della malattia: la ricerca, infatti, viene condotta su topi cui il cancro viene indotto artificialmente, vanificando qualunque possibilità di studiarne le cause naturali. In tutto questo, come ben fa notare Elisabeth Dale – autrice del sito thebreastlife.com, che dal suo twitter ha fatto partire l’hashtag #occupythecure – quando si parla delle industrie che lucrano sponsorizzando la ricerca sul cancro al seno, si parla di «gente che non ha nessun incentivo a trovare una cura e a trovarsi quindi fuori dal business», perché è proprio in questo modo che il business si sostiene: «vendendo prodotti rosa, inventando apparecchiature per la diagnosi della malattia e mettendo a punto farmaci per curarmi solo dopo che mi sia stata data la brutta notizia».

A raccontare la genesi del fenomeno del cosiddetto “pinkwashing” (dall’inglese “to whitewash”: coprire, mascherare) – un fenomeno che ormai non investe solo l’industria del cancro al seno, ma che si è esteso alla politica e alle relazioni tra gli Stati, e con il quale si fa principalmente riferimento all’utilizzo retorico dell’immagine della donna (o di una politica a favore delle donne) per giustificare scopi differenti da quelli propagandati – pensa un documentario uscito da poco in Canada e negli Stati Uniti, “Pink Ribbons Inc.”, che attualmente cerca un distributore in Italia. Il documentario, promosso da “Breast Cancer Action” (http://bcaction.org/), un’organizzazione che da anni si occupa della diffusione di un approccio più umano all’epidemia del cancro al seno (e il cui colore simbolo, in segno di ribellione nei confronti dell’abuso del rosa, è il rosso), narra, attraverso la voce delle donne, cosa abbia determinato l’attuale stato delle cose.

Un racconto che è stato prontamente ripreso da Grazia, che dal suo blog (http://amazzonefuriosa.blogspot.it) ha deciso di dichiarare guerra a stereotipi e preconcetti, cercando di diffondere anche in Italia una cultura diversa nei confronti dell’approccio alla malattia, alla cura e alla ricerca delle cause che la determinano. «Torniamo allora al 1992», scrive Grazia, nel ripercorrere il trailer del documentario. «Quell’anno la casa produttrice di cosmetici Estée Lauder distribuì per la prima volta decine di migliaia di pink ribbons a chi acquistava i suoi cosmetici. L’idea, rivelatasi eccezionale sul piano del marketing, era stata letteralmente rubata a una donna Charlotte Haley che, avendo avuto il cancro al seno, aveva dato vita a una sua campagna per fare sì che il National Cancer Institute devolvesse più fondi per la ricerca sulla prevenzione della malattia: il simbolo della campagna di Charlotte era un nastrino color pesca che lei stessa produceva in serie a mano a casa sua e distribuiva davanti ai supermercati e nei luoghi pubblici ricavandoci nulla. La trovata del pink ribbon fruttò invece a Estée Lauder una vagonata di quattrini e così ebbe inizio il business del cancro al seno. Lo chiamano marketing sociale».

La questione assume risvolti inquietanti nel momento in cui ci si rende conto che, a fronte del propagandato impegno nella ricerca, l’industria di cosmetici cui fa capo il marchio Estée Lauder (ma non si tratta di un problema esclusivo del marchio, purtroppo) non si preoccupa minimamente di offrire alle clienti prodotti salutari e che non comportino alcun rischio. Al contrario, mette in commercio prodotti contenenti in varia misura parabeni, petrolati e siliconi, certamente non un toccasana per il benessere delle consumatrici. Ma come è possibile promuovere la salute delle donne e la cura con prodotti che molto probabilmente contribuiscono ad aumentare le occorrenze della malattia che affermano di combattere?

Potere del rosa, e di tutti i suoi derivati. Forse è arrivato il momento di dire basta.