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«Più» è sempre meglio di «meno»?

di Francesco Lamendola - 05/07/2012


 

 

Se dovessimo riassumere in una formula estremamente sintetica la filosofia specifica della modernità, tanto nella sua versione marxista che in quella capitalista, potremmo dire, semplicemente, che, per essa, la proposizione secondo cui «più» è meglio di «meno», appare auto-evidente e sorregge ogni manifestazione della vita materiale e spirituale.

L’economia moderna si distacca dalle economie pre-moderne - tanto che Serge Latouche ha parlato di una recente “invenzione” dell’economia - perché basata sulla crescita continua della produzione, della concorrenza, del consumo e dell’accumulo del capitale; e, in questo, è stata giustamente assimilata alle teorie dei giochi, in modo particolare al gioco del poker (è chiaro, infatti, che ogni società “inventa” i giochi corrispondenti alla filosofia generale in essa dominante).

Orbene, sia l’economia moderna, sia il poker sono fondati su un particolare tipo di ragionamento, ossia sul calcolo razionale dei vantaggi e degli svantaggi, a sua volta fondato su un sistema di valori che possieda una propria coerenza interna. Si badi: la coerenza dei valori è interna al sistema, e non esterna: per cui può accadere benissimo, e di fatto accade, che vengano attuate delle strategie che, considerate dal di fuori, appaiono non solo assurde, ma anche immorali; ma ciò è indifferente al sistema: per esso, quel che conta è la coerenza interna.

Sia per il gioco del poker, sia per l’economia moderna, il principio fondamentale, su cui si basano ogni altro fattore e ogni altra considerazione, è, appunto, il fatto che «più» è meglio che «meno», sempre e comunque: ossia, che possedere di più, è preferibile al possedere di meno; se, poi, questo rapporto fra il «più» e il «meno» costituisce davvero un bene in se stesso, oppure no, ciò risulta irrilevante: l’importante è che il «più» venga realizzato ed il «meno» venga evitato.

È una logica rudimentale e grossolana, non di rado perfino controproducente, qualora venga trasposta fuori del proprio ambito specifico; eppure è proprio quel che è avvenuto, quel che sta avvenendo, ogni giorno, ogni ora, e sotto gli occhi di noi tutti.

Avere due televisori è meglio che averne uno: non importa se servono davvero; se il secondo (e magari anche il primo) è veramente necessario. Costruire quaranta centrali nucleari è meglio che costruirne venti: in proporzione, è perfino conveniente. Viaggiare in automobile a 100 km. l’ora è meglio che viaggiare a 70 km.: al punto che, in certe strade (per non parlare delle autostrade), chi viaggia a velocità moderata, chi rispetta il limite ufficiale indicato dalla segnaletica, è continuamente messo in pericolo dall’impazienza degli altri automobilisti, per non parlare dei camionisti, smaniosi di superarlo; o diviene oggetto della loro aggressività, delle strombazzate con il claxon, delle loro manovre inconsulte.

In fondo, è precisamente la logica che ci sta portando al collasso, spirituale e materiale. La logica del “più” ha travolto ogni senso del limite, ogni scrupolo morale, ogni autentica ragionevolezza. Il piccolo contadino che possiede qualche po’ di vigneto non può evitare di adoperare i dannosi fitofarmaci che utilizzano le grandi aziende vinicole: se lo facesse, le sue piante si ammalerebbero e morirebbero, perché i prodotti chimici impiegati in agricoltura hanno avuto l’effetto di rendere gli agenti patogeni sempre più forti e aggressivi.

Per questo, quando quel contadino va a lavorare in mezzo ai filari, egli deve indossare la maschera e una apposita tuta, come un astronauta che si avventurasse su un pianeta proibito, ove stessero in agguato virus sconosciuti e, forse, mortali. Ciò nonostante, ha contratto una forma virulenta di allergia, da cui non potrà più liberarsi, perché egli è condannato a convivere con quelle sostanze tossiche; così come il consumatore è condannato ad ingerire dei prodotti alimentari che quelle sostanze rendono dannosi per la salute.

Siamo presi in una spirale, in un circolo vizioso: scegliere il “più” implica un prezzo da pagare, talvolta visibile, talvolta no, almeno sul breve periodo; ma, prima o dopo, i nodi verrannno al pettine. Non tutte le società ragionano o ragionavano in questo modo; gli antropologi ci spiegano che alcune tribù africane, asiatiche o sudamericane, hanno scientemente rifiutato l’introduzione di metodi di coltura europei, o di macchine di provenienza occidentale, perché, pur rendendosi conto che avrebbero avuto un vantaggio nell’immediato, a lungo termine si sarebbe determinata una spirale dannosa tanto per l’equilibrio sociale, quanto per quello ecologico; che il “di più” avrebbe fatalmente incrinato l’uno e l’altro, in maniera probabilmente irreversibile.

La nostra società, invece, non si è fermata a riflettere sui costi e benefici del progresso, inteso come continuo aumento di tecnologia, di merci, di consumi e di profitti (questi ultimi, però, solo per pochi); non ha mai considerato “più” e “meno” come i due termini di una partita doppia, ciascuno dei quali presenta dei pro e dei contro; ha sempre dato per scontato che l’avere è meglio del non avere, e che l’avere molto è meglio dell’avere poco.

È il tipico risultato di una concezione di vita materialista e quantitativa, che estende a ogni aspetto della realtà i parametri di giudizio propri dell’attività economica; e così come un Prodotto Interno Lordo pro capite di 2.000 dollari è meglio di uno di 1.000 dollari, allo stesso modo disporre di molte cose è meglio che disporre di poche: anche se in realtà non servono, perché non ve n’è un reale bisogno; anche se sono addirittura dannose.

Del resto, nel calcolo del P. I. L. rientra anche il fatturato delle carrozzerie o delle industrie farmaceutiche: eppure chi oserebbe negare che si vivrebbe meglio in una società in cui vi fossero meno incidenti automobilistici e meno persone che si ammalano? Invece, paradossalmente, per una società ridotta alla sola dimensione economica, è “meglio” che vi siano tanti incidenti stradali e tante persone ammalate: perché, in questo modo, i carrozzieri, le industrie chimiche e i farmacisti lavorano di più, e si verifica un aumento dell’occupazione in quei settori.

Quando si considerano il possesso e la quantità come gli obiettivi fondamentali della vita, non stupisce che si finisca per quantificare la vita stessa e per assumere nei confronti di essa un atteggiamento assurdamente possessivo, quasi che ci appartenesse in proprietà e non ci fosse semplicemente data in usufrutto, per un tempo che non conosciamo. Pertanto, diamo per scontato che vivere 70 anni è meglio che viverne 60, e che viverne 80 è meglio che viverne 70; come siano, poi, questi anni che ci sono dati da vivere, questo è un problema secondario. Di qui alla totale sottovalutazione della qualità della vita non v’è che un passo; così come non v’è che un passo nella direzione dell’accanimento terapeutico. Se l’importante è vivere, vivere comunque, perché non cercare di prolungare la durata al massimo, e sia pure affidandosi a delle macchine che si limitano a pompare il sangue in un corpo che ha esaurito il suo ciclo vitale?

Per la stessa ragione, siamo portati a indignarci davanti alla morte di una persona giovane, o anche semplicemente di una persona non ancora anziana. Un tempo, la morte di una persona giovane - di una mamma che moriva di parto, per esempio, o di un uomo che moriva d’infarto - non faceva scandalo: Dio dà, Dio prende; sia fatta la Sua volontà. Oggi la morte fa scandalo, specialmente se colpisce un trentenne o un quarantenne, per non parlare di un ragazzo. Si vorrebbe reclamare presso qualcuno: ma, avendo gettato via l’idea di Dio, non si sa esattamente con chi prendersela; resta, comunque, la sensazione di essere stati frodati, derubati.

Significativamente, l’unico caso in cui la logica quantitativa si ferma e retrocede è quello della natalità. Se vi fosse un minimo di coerenza nella società  moderna, visto che “più” è meglio di “meno”, allora avere due figli dovrebbe essere meglio che averne uno solo, e averne tre, dovrebbe essere meglio che averne due. Se non si possono avere figli, poi, adottarli dovrebbe essere meglio che farne a meno: perché l’importante, se si desidera avere dei bambini, non è come essi vengono al mondo, ma il fatto di crescerli, con amore, nella propria famiglia.

Invece, in piena contraddizione con le premesse culturali dell’avere, e dell’avere sempre di più, molte coppie non vedono i bambini come una benedizione, ma valutano con estrema cautela la possibilità di averne; e, se si verifica una gravidanza indesiderata, ricorrono con frequenza all’aborto. Anche molte ragazze e molte donne non sposate né fidanzate, ricorrono all’aborto per liberarsi di una gravidanza indesiderata, perfino nei casi in cui hanno alle spalle una famiglia disposta ad aiutarle nel loro ruolo di mamme e anzi, talvolta, desiderosa di farlo.

Naturalmente, in simili casi, guai a parlare di “leggerezza” o di “egoismo”: l’aborto, si sa, è un dramma umano; nessuna donna lo affronterebbe a cuor leggero, se non vi fosse costretta da ragioni assolutamente imperiose. Quanta ipocrisia, quanta demagogia vi sono in simili discorsi: eppure, nessuno osa contraddirli: né le donne, che la cultura femminista ha abituato a considerare solo i loro “diritti”, negando che esistano i diritti del nascituro; né gli uomini, vili e paurosi di fronte a tale cultura, e più che mai desiderosi di apparire progressisti e “democratici”.

Il rifiuto della maternità, il crollo delle nascite, sono la spia più evidente del fatto che qualcosa non funziona, nella filosofia del possesso e della quantità, su cui è cresciuta a dismisura, come una metastasi, la cultura sempre più materialista, edonista, utilitarista della tarda modernità; sono i segni di contraddizione che indicano una lacerazione irrisolta, un malessere che cova sotto le apparenze rassicuranti e spensierate di un consumismo festaiolo, ma senz’anima.

Se possedere le cose è meglio che non possederle, e se possederne molte è meglio che possederne poche, perché mai questo modo di ragionare non dovrebbe valere anche nell’ambito delle nascite: quello, cioè, in cui più si manifestano la vitalità e la fiducia nel domani di una persona, di una coppia, di una società, di una nazione?

Perché mai in questo caso, e solo in questo caso, le persone diventano dubbiose circa la bontà intrinseca del “più” rispetto al “meno”; perché mai in questo caso, e solo in questo caso, preferiscono battere in ritirata, come fanno quelle coppie - e sono sempre più numerose - le quali dicono, fin dal momento in cui si mettono a vivere insieme: «Figli? No, grazie: davvero, non ci pensiamo proprio. Non abbiamo abbastanza soldi, abbastanza sicurezze da offrire loro; e poi, in che razza di mondo li faremmo vivere? Con quali prospettive per il loro futuro?». Così esse mascherano, dietro una apparente sollecitudine nei loro confronti, il rifiuto di avere figli; e, invero, è raro trovarne di abbastanza sincere da riconoscere, puramente e semplicemente, che i figli appaiono loro come un fastidio, come una limitazione, come un peso.

Eppure, avere o avere avuto numerosi amanti, per uomo o una donna moderni, è considerato cosa migliore che averne avuti pochi, o nessuno; avere molti rapporti sessuali è considerato meglio che averne pochi o nessuno; e, in molti ambienti, specialmente culturalmente medio-alti, avere alle spalle un paio di matrimoni falliti è considerato più “chic”, più interessante che essere felicemente sposati per la prima e unica volta. Dunque, il problema non è l’affettività e nemmeno la sessualità: il problema è proprio la procreazione.

Veramente, ci sarebbe un altro ambito in cui la mentalità del “più” entra in cortocircuito, ed è quello della morte. La morte, intesa come processo naturale, è associata all’età; e, anche se non è detto che una persona vivrà 75 anni, in una società ove la vita media è di 75 anni, sta di fatto che il crescere dell’età indica che la meta finale si sta avvicinando e ciò provoca un rifiuto viscerale: per cui, non potendo eliminare la morte, si eliminano almeno, per quanto possibile, le sue immagini e tutto ciò che la ricorda.

Così, coprendo le rughe e gli altri segni dell’invecchiamento, come la perdita dei capelli o la caduta dei denti, ci si illude di coprire anche la marcia della vita verso la destinazione finale; si esorcizza la paura della morte nascondendo i segni della vecchiaia. I vecchi vogliono fare i giovani; e, fino a un certo punto, specialmente da lontano, riescono perfino a ingannare l’occhio. Ma la realtà è quella che è; e, del resto, visti da vicino, questi vecchi e queste vecchie che giocano a fare i ragazzini sono terribilmente patetici.

Che cosa bisogna concludere, pertanto, a proposito di una società, come la nostra, che ha divinizzato l’avere e la quantità, ma che non vuole più accettare i due eventi fondamentali della condizione umana: la nascita e la morte? Di una società che ha paura di mettere al mondo dei bambini e che ha paura, una paura irrazionale, della vecchiaia e della morte, al punto da non volerci mai pensare, da non volerle neanche vedere?

Questo è il vicolo cieco in cui ci siamo spinti, inseguendo il Vitello d’oro di un progresso divinizzato, di un progresso che si autocelebra e del quale abbiamo finito per diventare non già i beneficiari, ma degli strumenti e delle appendici. Non lui sta servendo noi, ma noi stiamo servendo lui. Eppure, qualche dubbio si sta facendo strada, nella mente di questi servi sfruttati e alienati…