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L'uomo moderno prigioniero del cemento

di Claudio Risé - 19/09/2012



Non è che il cemento faccia male, come vorrebbe una vulgata “verde” un po’ sommaria. Serve a fare case, e altre cose indispensabili. Però distruggere in 40 anni aree verdi grandi come tre regioni per coprirle di cemento, come è accaduto in Italia, fa di certo molto male. Non solo all’economia o al paesaggio, ma al corpo: lo fa ammalare. Nei paesi più sviluppati di noi (anche culturalmente), è nota da tempo la sindrome da “deficit di natura”, oggi all’origine dei malesseri psicofisici.
L’eccessiva cementificazione è innanzitutto causa di molteplici forme di disagio e di comportamenti a rischio che giocano una parte importante nell’attuale crisi. L’uso e il commercio di droghe ad esempio, che è la seconda causa di ricoveri ospedalieri con i connessi costi (in testa alle motivazioni di omicidi, furti e attentati alla sicurezza delle persone), è direttamente correlato alla diminuzione di aree verdi ed alla perdita di qualsiasi rapporto con la vita dei campi e delle zone boschive.
Non a caso le Comunità di recupero terapeutico più efficienti, come quella di San Patrignano, si trovano in località agricole, ed il lavoro coi prodotti della natura e con gli animali è uno dei più potenti strumenti di ricostruzione di personalità prima devastate dall’uso di droghe.
Come mai la natura guarisce, e la sua assenza ci fa ammalare? Perché la natura rappresenta ed esprime direttamente la vita. Nei campi, nei boschi ci troviamo in contatto con le situazioni elementari, a cominciare dall’ambiente vegetativo, delle piante, e quello degli animali. Due “mondi”, presenti anche nel corpo e nella psiche umana, in grado di vivere e reagire agli shock anche direttamente, senza continui interventi terapeutici, protettivi, che per alcuni versi ci mettono al riparo da una serie di rischi, indebolendo però le nostre difese immunitarie (anche psichiche) e la nostra capacità di reagire velocemente ai pericoli, sulla base dell’istinto vitale.
La scomparsa degli ambienti naturali dall’esperienza quotidiana indebolisce il nostro rapporto con la vita e la nostra capacità di difenderla, esponendoci invece a tutte quelle abitudini che la mettono a rischio: dall’assunzione di droghe, ai comportamenti alimentari sbagliati, alla sessualità disordinata, alle dipendenze di ogni tipo.
Questi comportamenti vengono adottati anche per il bisogno di riempire il vuoto lasciato dalla mancanza di esperienze “elementari” naturali.
Il bosco viene sostituito con lo spinello o la pista di coca, il campo col sesso estremo, l’aria pura con le speranze purificanti delle sette religiose. Ma non funziona.
La distruzione dell’ambiente naturale mette a rischio il sistema nervoso vegetativo (SNV), il principale sistema di controllo e regolazione del corpo umano, da cui dipende il nostro benessere.
Lontani dalla natura, dai suoi processi ritmici, non riusciamo più a ritrovare il pieno ritmo del sistema vegetativo, restando in perpetua allerta, tensione, ansia. L’uomo moderno tiene sempre sveglio il nervo della tensione (simpatico), e non riesce ad attivare quello del rilassamento e del sogno (il parasimpatico). Non può farlo, perché è lontano dai ritmi della natura, è prigioniero del cemento, che non ha ritmo, né vita: è un manufatto industriale. Una nostra creatura che, assieme ad altre, ci sta catturando, e facendo ammalare. Come uscirne?
Non è poi così difficile. Gli USA hanno approvato già nel 1964 il Wilderness Act, vincolando una parte del territorio nazionale addirittura a “natura incontaminata”. Ma anche la Svizzera e il nord Europa sanno che morirebbero senza i boschi e campi. E li curano.