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Siamo europeisti? Allora via la retorica sull'unità nazionale

di Massimo Fini - 22/09/2012




Povero Bossi, quando, agli inizi degli anni Novanta reclamava l’indipendenza della mitica Padania le reazioni dei partiti nazionali e dei governi dell’epoca erano isteriche, o irridenti: la Lega era fuori della Storia, voleva tornare al Medioevo. Nel frattempo la Cecoslovacchia si è divisa in due, in Cechia e Slovacchia, senza che la cosa abbia provocato particolari turbamenti, al contrario, perché sono due regioni d’Europa che hanno vocazioni diverse: industriale la prima, agricola la seconda. E tre giorni fa a Barcellona una folla di un milione e mezzo di persone è scesa in piazza, del tutto pacificamente, chiedendo l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna, al grido di "Catalunya, nou estat d’Europa" (Catalogna, nuovo Stato d’Europa). La cosa interessante è che accanto a quelle indipendentiste, sventolavano bandiere europee. I vari secessionismi che serpeggiano nel Vecchio Continente (corso, basco, irlandese, scozzese, tirolese) non vanno infatti contro una futura unità politica dell’Europa ma ne sono il complemento. L’unità europea, si sa, è nata male. Doveva essere innanzitutto politica e poi monetaria; questo lo sapevano benissimo anche Adenauer, De Gasperi, Spaak che, nel dopoguerra, ne furono i promotori. Ma sapevano altrettanto bene che gli americani non gliela avrebbero permessa. Gli Stati Uniti sono sempre stati contrari a qualsiasi forma di unità europea. Perché avrebbe sottratto l’Europa alla loro egemonia. E quando, a metà degli anni Ottanta, Francia e Germania tentarono di costituire un primo nucleo di esercito europeo per sottrarsi alla soffocante tutela militare americana, Washington si oppose. E anche l’unione monetaria ed economica di parte dell’Europa, realizzatasi agli inizi del Duemila, nonostante i sorrisi di facciata, non è stata vista, e non è vista, di buon occhio dagli Stati Uniti. Le entrate a gamba tesa delle agenzie di rating americane sono, insieme ad altre manovre più sotterranee un tentativo di distruggerla. Ma agli Stati Uniti, politicamente, militarmente ed economicamente, d’Europa bisognerà arrivarci, necessariamente. Perché in Europa nessuno Stato ha la forza di garantirsi, da solo, la difesa, e di competere dal punto di vista produttivo con i grandi colossi (Cina, India e persino Brasile) che stanno avanzando e rischiano di sommergerci. Ma quando l’Europa sarà politicamente unita i suoi punti di riferimento periferici non saranno più gli Stati nazionali, ormai diventati inutili, ma aree geografiche più coese dal punto di vista identitario, sociale, economico, climatico. In un’Europa politicamente unita non ci sarebbe alcune ragione perché l’Aosta non si unisse alla Savoia, l’Alto Adige al Tirolo, la Liguria di Ponente alla Provenza e così via. Naturalmente le classi dirigenti nazionali farebbero una feroce opposizione, perché vedrebbero pressoché azzerato il loro potere. Prendiamo l’Italia. Con un governo unico europeo che fine farebbero i Bersani, i Franceschini, i Finocchiaro, gli Alfano, i La Russa, i Gasparri, i Vendola? La visione politica che guarda il futuro è quella del primo Bossi, del separatismo o, più moderatamente, delle tre "macroregioni", non quella dell’ottantacinquenne Giorgio Napolitano che crede di di vivere ancora nel Risorgimento e si bea del mito della Resistenza, un evento, peraltro marginale, di più di mezzo secolo fa quando il mondo era molto diverso da quello di oggi. Se si pretende di essere europeisti, come Napolitano non perde occasione di dichiararsi, è necessario disfarsi anche delle retorica dell’unità nazionale.