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Nella «Allegoria sacra» di Giovanni Bellini l’enigma di un messaggio nascosto

di Francesco Lamendola - 19/11/2012




 

C’è una tela di Giovanni Bellini, l’«Allegoria sacra», conservata agli Uffizi di Firenze, che spira un’atmosfera magica e strana, arcanamente misteriosa, come se vi palpitasse una vita occulta, invisibile all’occhio dell’uomo comune, ma capace di rivelarsi solamente a chi sia in possesso di una chiave di lettura adeguata; un’opera, in questo senso, idealmente simile a «I tre filosofi» di Giorgione o «I pastori d’Arcadia» di Poussin.

Eppure si tratta di una pittura assolutamente perfetta, un meraviglioso esempio del pieno Rinascimento veneziano, con le sue morbidezze lineari, con i suoi delicati cromatismi, con le sue sapienti costruzioni prospettiche, con la grazia impareggiabile che avvolge figure e paesaggi; una pittura che non ha niente di incompleto, niente di irrisolto e che può essere fruita anche dall’osservatore sprovvisto di un bagaglio culturale specifico, non diremo di genere filosofico, ma anche soltanto artistico.

Eppure, più la si contempla, più ci si sente risucchiati in una atmosfera di mistero, di visione, quasi di sogno; ma di un sogno estremamente lucido, di una visione composta e raffinatissima, dove nulla è lasciato al caso, dove tutto risponde a segrete armonie e corrispondenze, di forma e - tale, almeno, è la netta sensazione, pur senza addentrarsi troppo in là - di contenuto. Che si tratti di una allegoria, in particolare, e di una allegoria eccezionalmente densa di significati, è chiaro ed evidente anche al profano e all’osservatore più distratto e frettoloso, qualcosa di più complesso e di più articolato di una tradizionale «Sacra conversazione».

Eppure l’allegoria non “uccide” la creatività dell’artista, ma, anzi, si piega docilmente al suo genio, alla sua potenza espressiva, alla sua sapienza compositiva: siamo in presenza di una perfetta fusione di pensiero e forma, di cultura e natura, di studio e naturalezza; le geometrie, i rimandi, i contrappesi, sono, al tempo stesso, ben presenti e ben mimetizzati, quasi nascosti: come nei versi della «Divina Commedia», come nelle partiture di una fuga o di una fantasia di Bach, è cosa ardua, per non dire impossibile, cogliere la sottilissima, quasi evanescente linea di confine tra la dimensione formale e quella sostanziale, tra le sapienti architetture e i voli della fantasia poetica,  tra la dimensione terrena e quella divina.

Si tratta di una vasta scena (cm. 73 x 119) ambientata all’aria aperta, presso le rive di un lago, ai piedi di una catena di colline e di montagne, con un cielo azzurro che suggerisce la primavera; ma i cui protagonisti, in primo piano, si muovono su un’ampia terrazza dal pavimento di marmo, circondata da una bianca balaustra, affacciata appunto sulle acque tranquille (potrebbe trattarsi anche di un fiume, dato che uno sperone roccioso divide in due bracci lo specchio d’acqua; ovvero di un fiume che sfocia in un lago o, magari, nel mare).

Quasi tutte le figure umane sono situate all’interno della terrazza; alcune sono all’esterno di essa, ma vi si appoggiano; a parte alcuni viandanti e alcuni animali sullo sfondo, un asinello e delle pecore al pascolo, nonché un vecchio seduto all’ingresso di una caverna ed un Centauro, una sola figura, tra quelle situate in primo piano, è posta fuori della terrazza, all’estrema sinistra della tela: quella di un “orientale” col turbante, che si allontana dalla scena principale, voltando le spalle alla terrazza.

Le figure principali, oltre all’”orientale”, sono undici: due uomini sulla destra, un vecchio e un giovane; quattro bambini al centro della terrazza; due uomini maturi che si appoggiano sulla balaustra dal di fuori; tre giovani donne sulla sinistra. L’identificazione di questi personaggi spirituali, solenni, quasi ieratici, e tuttavia elegantissimi e pieni di vita nella loro snella corporeità, è oggetto di fitte controversie, così come, del resto, lo è stata, e a lungo, la paternità del quadro, un tempo attribuito a Giorgione o ad altro artista quattrocentesco.

Le due figure maschili sulla destra, il giovane e il vecchio, entrambi semi-ignudi, rappresentano senza alcun dubbio, rispettivamente, San Sebastiano e San Giobbe, sia per le caratteristiche iconografiche pressoché inconfondibili, sia perché appaiono praticamente identiche a quelle raffigurate nella cosiddetta «Pala di San Giobbe», alle Gallerie dell’Accademia di Venezia: il primo con le mani legate dietro la schiena, il secondo con le mani giunte in preghiera. Entrambi avanzano lentamente verso il centro della terrazza, ove è piantato un misterioso alberello, al cui tronco si afferra un bambino; altri tre bambini, un poco più piccoli, gli sono intorno. Il primo sembra potersi identificare con Gesù Bambino, se è vero, come pare, che l’albero sia l’Albero della Vita, piantato da Dio nel Giardino del Paradiso Terrestre: sicché il divino Bambino si afferra al simbolo della Grazia che gli uomini hanno perduto e che lui riporterà presso di loro, offrendosi su un altro albero, quello della croce, su cui si consumerà la sua Passione redentrice. Gli altri tre bambini stanno giocando con delle mele: probabile allusione alla mela del peccato originale e, per estensione, alla pericolosa inconsapevolezza con cui gli uomini maneggiano il più grande mistero della creazione, la libertà di scegliere fra il Bene e il Male e, pertanto, anche quella, drammatica, di fare la scelta sbagliata e di allontanarsi così da Dio, rompendo il Suo disegno di cosmica armonia, come già fecero i nostri progenitori Adamo ed Eva.

I due anziani personaggi barbuti che si affacciano, dall’esterno, al bordo della terrazza, sono perlopiù identificati con San Pietro e San Paolo; sul secondo non vi sono dubbi, dato che brandisce la spada, il suo attributo tradizionale; mentre il primo non reca in mano le chiavi e, inoltre, sembra guardare proprio verso il bambino che scuote l’albero, cioè Gesù Bambino; dunque potrebbe anche trattarsi del suo padre putativo, San Giuseppe.

Restano, infine, le tre donne e l’”orientale”, ossia i personaggi più scopertamente allegorici e, quindi, più suggestivi e misteriosi dell’opera. L’”orientale” pare debba intendersi come l’infedele o l’eretico, insomma come colui che deliberatamente volge le spalle alla divina Verità (e forse non è casuale il fatto che la spada di San Paolo sia brandita nella sua direzione); delle tre donne, quella seduta in trono, sotto un baldacchino, è, molto probabilmente, la Madonna; peraltro non è del tutto escluso che possa trattarsi della Beatitudine mistica o di altra figura simbolica  Più difficile, per non dire problematica, l’identificazione delle altre due: sante o personaggi puramente allegorici, come, ad esempio, la Misericordia e la Giustizia? Confessiamo di non saper dirimere la questione; così come tralasciamo i personaggi minori che si scorgono sulla sponda opposta del lago: un Centauro, un vecchio eremita, che potrebbe essere Sant’Antonio Abate, un pastore addormentato fra le sue pecore - lasciamo volentieri questa ulteriore indagine agli specialisti.

Oltre che nel Centauro, la mitologia classica appare nei fregi sotto il trono di Maria, che rappresentano la vicenda di Marsia, scorticato vivo dal dio Apollo, di solito interpretata come una prefigurazione della Passione di Cristo. Ma su tutta la scena domina il paesaggio: ampio, armonioso e tuttavia mosso e vario, soffuso di una luce particolarissima, la luce che questo grande pittore del Rinascimento sapeva creare con somma bravura. I monti e le rocce che incorniciano la scena sono aspri e per lo più nudi e scabri; la vegetazione si fa abbondante solo suo colle al centro dello sfondo, dominato da un castello sul quale vagano, nel cielo limpido,  fiocchi di nuvole bianchissime; tuttavia, l’impressione complessiva non è affatto cupa o sinistra, piuttosto sospesa, nel senso che pare aleggi ovunque un senso di attesa e che la natura stessa, pur descritta amorevolmente nel suo fresco respiro, partecipi a questo senso di attesa per qualcosa che deve accadere, per una rivelazione che si deve manifestare.

Ha scritto Anchise Tempestini nella sua monografia «Giovanni Bellini» (Milano, Banco Ambrosiano Veneto, 1999, p. 128-29):

 

«[Il dipinto della “Allegoria sacra”] è giunto a Firenze nel 1793, per iniziativa di Luigi Lanzi, come cambio tra la Galleria Imperiale di Vienna e quella degli Uffizi. Il dipinto affascinò Edgar Deegas che ne eseguì una copia nel 1858-59. L’attribuzione a Giovanni Bellini risale a Crowe e Cavalcaselle (1871), che abbandonarono quella tradizionale a Giorgione, e non è mai più stata discussa, se non da Bode (1884), che, forse per motivi non solo attinenti allo stile, l’assegnava a Marco Basaiti. Il problema che fino ad oggi è stato dibattuto e non risolto è invece quello dell’interpretazione di questa composizione religiosa, mentre a proposito della sua datazione si sono registrate oscillazioni tra la fine dell’ottavo decennio - momento a cui pensavano Fry (1899), Gronau (1930) e Bottari (1963), che vi riscontravano notevoli affinità con la pala di San Giobbe - il 1487-90 - un periodo cioè vicino a quello della pala votiva Barbarigo e del trittico dei Frari verso il quale sono orientati Berenson (1916), Dussler (1949), Pallucchini (1949 e 1959), Braunfels (1956), Paolucci (1979), Goffen (1989), Lucco (1990) - e gli inizi del nuovo secolo, epoca alla quale hanno pensato Rasmo (1946), Heinemann (1962), Huse (1972) e Tempestini (1992 e 1997). Robertson (1968) proponeva la metà dell’ultimo decennio, e Pignatti (1969) indicava più genericamente 1490-1500. Anche se taluni motivi iconografici, come il trono di Maria con il baldacchino e i due santi sulla destra, possono indurci a ricordare la pala di San Giobbe, la tecnica pittorica più matura, il colore estremamente fuso, la capacità di armonizzare figure e paesaggio secondo moduli stilistici che appaiono ormai “giorgioneschi” e presuppongono la conoscenza di Leonardo, inducono a collocare il prezioso dipinto all’inizio del nuovo secolo.

Per quanto concerne il significato, mi limito a riferire le più significative tra le proposte di lettura, senza poterne accettare nessuna come risolutiva. Ludwig (1902) vedeva nel dipinto la trasposizione figurativa del poemetto trecentesco francese di G,. de Deguilleville, “Pélerinage de l’áme”: il quadro raffigurerebbe il Purgatorio sotto forma di Paradiso terrestre, nel quale i putti innocenti rappresentano le anime che, già purificate, attendono di presentarsi davanti a Dio. Questa interpretazione è stata ripresa da Heinemann, che ha cercato di spiegare molti elementi simbolici presenti nel dipinto: il fiume sarebbe il Lete; tra gli animali, l’asino indicherebbe la pazienza, la pecora l’umiltà, la capra la temperanza, il centauro la tentazione; l’orientale a sinistra significherebbe la mentalità commerciale.  A tale lettura si era già opposto Rasmo, che, in modo piuttosto convincente, vedeva il dipinto come una “Sacra Conversazione” impaginata in modo inconsueto, nella quale il santo vecchio appoggiato ala balaustra non sarebbe Pietro, come di solito si pensa, bensì Giuseppe Verdier (1952-53) proponeva di interpretare il quadro come una “Allegoria della Misericordia e della Giustizia”, mentre secondo Braunfels esso raffigurerebbe il Paradiso. Robertson ha fornito l’analisi più completa del dipinto, discutendo soprattutto queste due ultime proposte di lettura.  La sua ipotesi che si tratti di una “Meditazione sull’Incarnazione” rimane una delle più accettabili: il putto seduto sul cuscino sarebbe Gesù Bambino, cui gli angeli porgono i frutti dell’albero della conoscenza; lo studioso britannico fonde punti della lettura proposta da Ludwig, per il quale la donna incoronata sarebbe la Giustizia, con altri che derivano da Verdier, che tuttavia riconosceva la Verità-Gistizia nella donna a sinistra, che sarebbe senza piedi, come nel salmo 84: Robertson pensa che i piedi siano semplicemente spariti in occasione di un restauro, perché erano stati dipinti  con velature sopra la superficie pittorica  del pavimento, come è pure avvenuto per la figura di San Sebastiano; in realtà, poi, il piede sinistro è ancora visibile, come hanno riscontrato Coltellacci e Lattanzi (1981). Robertson individua un motivo di notevole interesse nell’asimmetria causata dal difficile equilibrio tra la preponderanza della piattaforma centrale e il fatto che il punto d fuga è collocato in alto a destra, in cima alla croce che contrassegna l’eremo di sant’Antonio abate: l’impressione di silenzio e di calma che pervade il quadro è accentuata dalla distesa di acqua e insieme trae la sua origine da essa; l’orientale che si allontana a sinistra rappresenta il rifiuto della Grazia. Si può vedere un precedente dell’”Allegoria sacra” nel “Sangue del Redentore” di Londra; anche nel dipinto degli Uffizi, nella base del trono di Maria, che può sembrare di un nero omogeneo, si intravedono figure mitologiche a finto rilievo su fondo molto scuro: secondo Robertson, esse potrebbero riferirsi al mito di Marsia, interpretabile come un parallelo della Passione di Cristo. Questo capolavoro di Giovanni è sicuramente nato nel cima dotto, imbevuto di teologia, di filosofia averroistica e di cultura umanistica, che contraddistingue la civiltà veneziana e quella padovana a cavallo dei due secoli, come giustamente ritiene Pignatti. Secondo un parere condivisibile di Huse, il dipinto potrebbe essere quello fatto annunciare da Giovanni Bellini nel 1501 a Isabella d’Este in alternativa a quello di tema profano da lei richiesto per il suo camerino a Mantova fin dal 1496. Le figure aggiunte in un secondo tempo sarebbero San Sebastiano, che risulta fuori asse rispetto a quello che di solito è riconosciuto come San Giobbe, e l’orientale. Molti elementi ci inducono a ritenere che la proposta di Huse sia da sottoscrivere: Isabella gradiva l’idea che Giovanni eseguisse per lei un “Presepio”, come era stato preannunciato, però esigeva che nel dipinto fosse presente il Battista; dalle lettere scritte per conto del pittore risulta un’insistenza sul fatto che l’artista  avrebbe fatto “una fantasia a suo modo”. Il cosiddetto Giobbe potrebbe essere San Girolamo, pure indicato da Isabella, mentre il putto che coglie i frutti sarebbe San Giovannino: con questa identità lo ritroviamo in controparte in una tavoletta di Luca Antonio Busati, esposta alla Mostra dell’Antiquariato di Firenze nel 1971. Se il dipinto degli Uffizi è quello eseguito per Isabella d’Este, esso deve essere stato terminato prima del 6 luglio 1504, secondo quanto viene annunciato in una lettera di Lorenzo da Pavia, il secondo corrispondente della marchesa di Mantova da Venezia. I già citati Cortellacci e Lattanzi hanno dedicato a questo quadro un saggio imbevuto di dottrina iconologica in cui, oltre ad altre proposte interpretative, discutono pure quella di Delaney (1977). Secondo la loro lettura, nell’”hortus conclusus” in cui viene ammesso lo spettatore è raffigurata un’allegoria della Redenzione; il motivo della croce è formato nella parte ristretta del pavimento, al cui centro si trova l’albero da intendere come “fons vitae”, presso cui è Cristo, mediatore tra il trono di Maria “Sedes Sapientiae” e Giobbe, che simboleggia la speranza di resurrezione del corpo. Nei rilievi alla base del trono non troviamo Mercurio, come pensava Delaney, bensì il satiro che concupisce la donna dormiente e addita un albero ormai secco che rinverdisce in parte, adombrando la redenzione, allusa pure dalla cornucopia e dai grappoli del baldacchino che sovrasta Maria: ancora una volta, simboli dionisiaci, che si debbono vedere però anche come allusioni rispettivamente all’utero della Madre e a Cristo. L’orientale che la spada di San Paolo induce ad allontanarsi è un eretico, con probabile riferimento agli studi averroistici di Padova. Sant’Antonio abate, raffigurato nel momento in cui, muovendosi alla ricerca di Paolo l’Eremita. Gli appare il centauro, rappresenta il superbo pentito, che può redimersi con l’umiltà. Il pastore è l’uomo obnubilato dal torpore del peccato, che non riesce a vedere la mistica reincarnazione che si svolge nell’”hortus conclusus”. “Sacra Allegoria” e insieme “Sacra Famiglia”: il santo vecchio, come già pensava Rasmo, è Giuseppe. Coltellacci e Lattanzi sono rimasti incerti se accettare o no l’interpretazione delle due figure femminili presso il trono come Fede e Speranza, proposta da Delaney: potrebbero invece essere due sante, tra cui quella con il diadema forse Caterina d’Alessandria, o ancora la vita attiva e quella contemplativa; questo è un problema che i due studiosi hanno lasciato aperto, come pure quello della levitazione o meno della figura femminile di sinistra. San Sebastiano sarebbe stato aggiunto come patrono contro la peste. Del Bravo (1983) interpreta questo dipinto basandosi sul libro di Ezechiele attraverso Lorenzo Valla: la figura in trono sarebbe la Felicità infinita affiancata dall’Onestà cristiana e dalla Virtù all’interno dell’”hortus conclusus”.

Trovo elementi piuttosto convincenti nelle proposte di lettura fornite da Robertson, Huse, Coltellacci e Lattanzi e Del Bravo.»

 

Come si vede, quanto ad interpretazioni della «Sacra allegoria» ce n’è quante se ne vuole, fino all’imbarazzo; alcune si intersecano, si rettificano a vicenda, si sovrappongono, si completano; altre si elidono; raramente, però, giungono a conclusioni diametralmente opposte. Nel complesso, le linee interpretative maggiori tendono a convergere; e l’esposizione del Tempestini ci sembra ne renda ragione con una buona capacità di sintesi e con ammirevole chiarezza.

Ma forse, dopo tutto - e qui sappiamo bene che qualcuno potrebbe scandalizzarsi -, non è poi così importante districarsi nella selva lussureggiante dell’esegesi, per essere in grado di apprezzare un’opera come questa di Giovanni Bellini - se di Giovanni Bellini essa realmente è, come pare; forse quest’opera, come ogni altra grande opera d’arte e di poesia, felicemente risolta sul piano figurativo e coloristico, pienamente permeata dalla spiritualità che l’autore voleva trasmettere, vive di vita propria, a prescindere dai sottili messaggi allegorici, filosofici e teologici, che vi sono eventualmente adombrati.

Se così non fosse, non ci troveremmo davanti a un’opera d’arte pienamente riuscita, perché l’arte deve sempre essere capace di camminare sulle proprie gambe, allegoria o non allegoria; guai a quell’opera che dall’allegoria traesse la sua esclusiva ragion d’essere, la sua unica possibilità di comprensione e di fruizione: perché, in tal caso, vorrebbe dire che l’allegoria ha sovrastato e ucciso la poesia; che è divenuta il fine e non già un semplice mezzo, un semplice strumento, per quanto nobile, sofisticato e ricco di spessore culturale.

Non crediamo alla verità di un’arte fatta per soli iniziati; o meglio, crediamo alla verità di un’arte che parla solo a chi sia in grado d’intenderla e apprezzarla: ma, per intenderla e apprezzarla, devono bastare le leggi stesse dell’arte: la linea, la forma, il colore, la luce, il ritmo, la musicalità; se diventassero necessari, o addirittura indispensabili, degli strumenti di tipo extra artistico, indipendenti dal gusto, dal senso estetico, dal gioco della libera creatività, allora non si tratterebbe più di arte, ma di qualcos’altro, magari anche di qualcosa di assai nobile e meritevole del massimo rispetto: ma non di arte.

Ci piace, perciò, concludere queste riflessioni riportando lo schietto parere di Giulio Carlo Argan, a proposito del mistero che si cela dietro la «Sacra allegoria» del Bellini (da: G. C. Argan, «Storia dell’arte italiana», Firenze, Sansoni, 191968, vol. 2, p. 344):

 

«Quasi dello stesso periodo [della “Pala di San Giobbe” delle Gallerie dell’ Accademia di Venezia, datata al 1487 circa] è un quadro misterioso, forse anch’esso una “Sacra conversazione”, ma espressa attraverso una serie di allusioni allegoriche.  Benché il soggetto ci sfugga, il quadro conserva tutto il suo fascino. Infatti, se è oscuro il soggetto, è chiaro il significato della visione: l’identità, anche sul piano metafisico, di umanità e natura; il risolversi della mitologia naturale, classica, in una mitologia spirituale o cristiana.  Alcune figure sono riconoscibili (la Madonna, San Sebastiano, San Giobbe, San Pietro, San Paolo), altre no: ma tutte coesistono in quel luogo magico, in quella luce che dà ai colori uno splendore inconsueto ed in cui le forme della natura e quelle della civiltà hanno lo stesso, identico significato.»