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Dalla tecnocrazia alla scienza comunitaria

di Michele Corti - 05/01/2013

Fonte: ruralpini

Una scienza civica e comunitaria rappresenta un presupposto per costruire nuovi sistemi di conoscenza in grado di far fronte all'incertezza e ai gravi problemi ambientali che l'uomo è chiamato ad affrontare

 

La tecnocrazia ha imposto un modello di scientificizzazione della politica che nasconde la concentrazione dei poteri decisionali in poche mani, al riparo dal controllo pubblico e dalla responsabilità politica. Insieme alla ormai irrimediabile incertezza e provvisorietà che caratterizza il sapere scientico ciò rappresenta un fattore di grave rischio.

È quindi necessaria una inversione di tendenza, con la democratizzazione della scienza, con il dialogo tra saperi scientifici formali e conoscenze locali, popolari con l'obiettivo di ampliare le capacità di interpretazione e di valutazione dei problemi ambientali e di predisporre numerose soluzioni alternative in grado di rappresentare i vari interessi e punti di vista 

 

Introduzione

 

Nella seconda parte di questo contributo abbiamo esaminato le premesse che hanno determinato la scissione moderna tra società e natura e l'inserimento del ruolo dlla scienza in questo dualismo. Qui affrontiamo la crisi della scienza e l'apparentemente contradditoria affermazione di un modello tecnocratico che si basa sulla "scientificizzazione della politica". Indicando come necessario esito la democratizzazione della scienza stessa e la sua trasformazione in scienza comunitaria quale premessa ad una gestione trasparente e condivisa di rischi e decisioni in grado di fronteggiare la crisi ecologica in modo efficace e sulla base di presupposti di equità sociale.

Tecnocrazia

 

Nel modello tecnocratico “puro” la politica è sostituita direttamente dal ruolo amministrativo degli esperti, degli scienziati. Chi ha stabilito per esempio che la politica italiana (Piano di azione nazionale) sul lupo debba contemplare la ricolonizzazione di tutto il territorio alpino (non attraverso il ripopolamento artificiale ma favorendo attivamente quello "spontaneo")? Un gruppo di esperti internazionali. È stato coinvolto qualche ente territoriale, qualche organizzazione di categoria? No. Eppure il problema riguarda allevatori, pastori, chi vive e lavora in montagna. Stabilito, in modo autoreferenziale, che il ritorno del lupo è una “necessità biologica”, che l'habitat alpino è “vocato” alla specie (sulla base di parametri puramente “naturali”: vegetazione, presenza di potenziali prede selvatiche) ne consegue che da questa razionalità scientifica derivi automaticamente una linea politica. In un caso analogo: la reintroduzione in Trentino con importazione di orsi bruni dalla Slovenia, in base alla Direttiva Habitat era necessario dimostrare il consenso della popolazione. Nel 1997 venne affidata alla Doxa una inchiesta demoscopica a campione dalla quale emerse (vi erano dubbi in proposito?) un ampio consenso della popolazione, città di Trento compresa si badi. Di fatto, però, la decisione di importare gli orsi era già stata presa da tempo e i fondi europei del progetto (Life Ursus) eano già disponibili dal 1996. Il significato di questi strumenti - in alternativa al convolgimento degli stakeholders e alle comunità realmente interessate - è ovviamente lo stesso della foglia di fico. In ogni caso le successive indagini demoscopiche hanno registrato prima l'indebolimento del consenso all'operazione e poi lo svanire dello stesso. Intanto, però, gli esperti avevano raggiunto il loro scopo: gli orsi si stavano riproducendo sin troppo bene (Corti, 2012). Dovunque è possibile si cerca di sottrarre visibilità al processo decisionale, lo spostamento in ambito amministrativo della decisione politica quasi che le scelte potessero essere sostituite da "soluzioni tecniche" consente di spttrarsi a imputazioni di responsabilità e al controllo pubblico e cela il carattere delle scelte quali espressione di conflitti, strategie e rapporti di potere (Vaccaro, 2008).

Non sempre, però, il modello decisionale può restare nell'ombra. Vi sono scelte che - in nome di un vero o presunto "bene comune" incidono in modo tangibile su una parte della popolazione la cui penalizzazione è indiscutibile (grandi opere, Tav, centrali energetiche, stoccaggi di gas ecc.).

la leggittimazione di tali scelte si basa per lo più su un modello deliberativo basato sulle argomentazioni degli esperti attraverso un procedimento di pianificazione che ha caratteristiche di bassa trasparenza ed è sostanzialmente esclusivo (Bobbio, 2001).

La scelta rimane formalmente incapo alla politica che prende in esame l'esito di meccanismi formali elaborati da esperti e applicati da esperti. Decisioni molto importati per la vita delle persone e delle comunità vengono assunte sulla base di strumenti come per esempio la VAS (valutazione di impatto strategico) senza alcun coinvolgimento delle popolazione e senza che la politica si impegni nell'applicazione di criteri di razionalità sostanziale e non formale. La complessità dei procedimenti in questione, la necessità di disporre di numerosi dati, di utilizzare ipotesi, stime, proiezioni e previsioni fa si che questi strumenti (ma vale per la maggior parte dei prodotti scientifici) siano ampiamente manipolabili e che la presunta oggettività scientifica si riduca ad esercizio di eleganza formale, di “stile”, di abile gioco di numeri e di parole. Abili esperti sono in grado (come gli abili avvocati) di dimostrare che interventi devastanti hanno impatti assolutamente modesti e“sostenibili”.

Il risultato è che per realizzare nuove piste da sci (in epoca di riscaldamento globale) si sbancano intere montagne (ma si potrebbero richiamare anche le pale eoliche collocate presso monumenti naturali e storici, i corsi d'acqua del tutto prosciugati dalle captazioni delle centraline ecc.). In questa tendenza alla scientificizzazione della politica c'è un enorme deficit di democrazia.

Gli esperti non sono portatori angelici di valori universali, esseri mistici con la visione del bene comune. Non sono come l'ideologia scientifica ha per secoli cercato di inculcare “aldi fuori della società”, immersi in un puro mondo di oggetti, dati, leggi scientifiche “naturali” dal quale riportano poi graziosamente nella società profana la verità del mondo dei fatti (per giocarla – capitalizzando la loro autorità - sul piano della società). Per nulla. Sono espressione di apparati e agenzie tecnoscientifiche con forti connessioni con il potere economico e finanziario. La visione romantica dello scienziato geniale (tenuta in vita per esigenze di legittimazione) ha sempre celato connessioni con la realtà, le forze sociali ed economiche del tempo ma ovviamente non esiste più. Il confine tra tecnologia, scienza e business si è fatto incerto come dimostrano campi come le Life sciences (biotecnologie) dove non è agevole capire dove finisce lo scienziato e dove inizia l'imprenditore (di fatto altri “ibridi”).

 

Tecnocrazia verde

 

Gli esempi illustrati hanno già messo in evidenza come la scientificizzazione della politica, il dominio tecnocratico a scapito della democrazia riguardino anche la "protezione della natura". Il carattere emblematico e paradossale della tecnocrazia verde merita qualche osservazione considerato che l'identificazione o quantomeno il forte coinvolgimento in essa delle organizzazioni e della cultura ambientalista. Un vero punto discriminante (come vedremo nella terza parte di questo contributo) tra "vecchio ambientalismo" (quello istituzionalizzato) e le nuove reti di ecologismo sociale, "di base", locale consiste proprio nell'affidamento dell'ambientalismo sui saperi esperti, nel suo svalutare il ruolo della partecipazione sino ad auspicare che le scelte ambientali siano sottratte ai livelli decisionali locali e centralizzate in capo alle agenzia statali o, meglio ancora, sovranazionali, a segretariati permanenti che operano in connessione con gruppi di esperti svincolati dalla responsabilità e dal controllo pubblico.

Il modello di governamentalità tecnocratica che si è imposto nella gestione delle aree "protette", della fauna, degli ambiti aperti all'influenza delle organizzazioni e delle burocrazie "verdi" è fortemente influenzato dalla considerazione del "vivente" propria della razionalità scientifica moderna e, nello specifico, della razionalità biologica (Badii, 2008). La separazione tra società e natura nella prassi della tecnocrazia verde assume una funzione speculare a quella dei tecnologi e degli economisti che operano sulla natura-risorsa, sulla natura quale input della sfera economica. Nella convenzione accettata dall'ambientalisno istituzionale esiste una divisione di ruoli: nella sfera di influenza della gestione "naturalistica" vale la finzione che la natura è una natura in sé, pensata intatta. Poco importa che nella realtà effettuale l'influenza antropica è pervasiva, che distinguere specie viventi spontanee da specie "spontaneizzate" introdottisi nell'habitat per lontane influenze umane risalenti a migliaia di anni è spesso impossibile e privo di significato, che l'inflenza degli impatti globali dell'industrialismo non risparmia nessun angolo del pianeta. Una tacita convenzione stabilisce che le esigenze della natura sono messe del tutto in secondo piano nella dimensione tutta sociale della sfera economica (salvo qualche regola da osservare per non compromettere troppo le possibilità di sfruttamento futuro delle risorse) mentre, in modo speculare, le esigenze della società, dell'uomo, sono messe in secondo piano nell'ambito dei programmi di "conservazione della natura", di protezione delle specie minacciate, di tutela di habitat. L'uomo e le sue attività (anche se esercitate tradizionalmente) sono considerate fattori di "disturbo" e il territorio viene interpretato e ri-programmato alla luce di logiche "scientifiche" ovvero di astratti principi biologici che ignorano a priori le determinanti socio-culturali. Questa governance riguarda ambiti territoriali e sociali deboli (non solo in Africa ma anche sulle nostre Alpi dove è stato forte lo spopolamento e la perdita di rappresentanza politica con l'affermazione dello stato moderno) determinando nella popolazione la percezione dell’intervento di un gruppo sociale esterno che vuole condizionare stili di vita e uso del territorio. È l'ecopouvoire (Mauz et al., 2006) ma si riallaccia direttamente alle nozioni di neo-colonialismo o di colonialismo interno.

A dispetto di una proclamata visione "ecologica" (di per sé olistica) si applicano schemi di teorici che finiscono per perdere di vista la complessità ma che, soprattutto, escludono i saperi indigeni, i saperi locali tradizionali. Il grado di disprezzo per i saperi contestuali, i valori locali proprio dei tecnocrati verdi è forse superiore a quello di ingegneri, fisici, economisti. Le obiezioni opposte dalle popolazioni locali sono spesso liquidate come frutto di ignoranza, di pregiudizi, la superiorità dei saperi esperti, della razionalità scientifica è fatta valere come superiorità antropologica.

Queste policy della natura manifestano tutta la loro intrinseca debolezza attraverso i paradossi che le contraddistinguono. Il primo riguarda il caratte scopertamente simbolico (socialmente costruito) delle azioni di "conservazione", di tutela della wilderness. Si proteggono "oasi" o "santuari della natura" erigendoli a nuove istituzioni o luoghi sacri, si tutelano specie animali in forza del loro carattere "carismatico", del coinvolgento emotivo che sanno suscitare, delle proiezioni su di essi di valori e aspirazioni. Emblematico il ruolo di "vindici della natura oltraggiata" assegnato ai grandi predatori. Di fatto, però, e qui emerge tutta l'ambiguità sociale ed ideologica di queste operazioni, l'azione "vendicatrice" si esplica contro i pastori, i contadini, i montanari non contro la cementificazione del territorio, l'industria della neve artificiale, le grandi opere infrastrutturali che bucano le Alpi. Contrabbandate per "necessità biologiche" si affermano opzioni politiche, ideologiche ed economiche. Ma c'è anche un altro paradosso: il tecnicismo, la tecnologizzazione e l'artificializzazione della presunta wilderness.

 

"L’ecologia politica […] Sostiene di proteggere la natura mettendola al riparo dall’uomo, ma ciò comporta in tutti i casi un coinvolgimento ancora più stretto degli esseri umani, che intervengono con maggiore frequenza, in modo ancora più sottile, più intimo e con un’attrezzatura scientifica ancora più invadente" (B. Latour, 2000).

 

Gli orsi "trentini" muniti di radiotrasmittenti e GPS, intrappolati, narcotizzati, spostati, attirati, fotografati, trasformati in un "ibrido" che di selvatico ha ben poco sono la patetica testimonianza vivente delle contraddizioni della tecnocrazia verde e di un approccio "scientifico" ai problemi di una realtà artificialmente scissa tra sociale e naturale (e quindi competenza di diversi e ben poco comunicanti "domini" scientifici).

 

 

Scienza in crisi

 

L'auspicio alla democratizzazione della scienza e alla inversione della tendenza alla scientifizzazione della politica (tecnocrazia) è emerso prepotentemente di fronte alla palese insufficienza dell'approccio scientifico convenzionale, di fronte alla crescita dei rischi ambientali e biologici. Di fronte alla constatazione che il rischio è parte integrante e insopprimibile della società tardo moderna, spinta dalla logica del profitto e caratterizzata da un apparato tecnoscientifico (strettamente intrecciato alla sfera economica) molto potente ma largamente svincolato dalla responsabilità sociale.

È la ormai proverbiale "società del rischio" acutamente delineata da Beck (2000). La capacità delle tecnologie di manipolare la natura è diventata troppo grande perché in nome di una "libertà di ricerca" che assume oggi un significato completamente diverso dal passato, gli scienziati chiusi nei loro laboratori e motivati da specifiche finalità e interessi possano operare sulla base di criteri e meccanismi autoreferenziali con conseguenze imprevedibili per la società, per l'ambiente chiusi nella logica della autovalidazione "tra pari" ovvero tra super-specialisti dello stesso angusto ambito disciplinare.

La logica della specializzazione del sapere che ha potentemente contribuito alla produttività del lavoro scientifico, richiede come compensazione e correttivi, la verifica non solo interdisciplinare ma anche la trasparenza, il dialogo con la dimensione pubblica. Da questo punto di vista il ritardo è notevole.

In assenza di questi correttivi una scienza sempre più frammentata è portata ad autolegittimarsi. Il ricorso sempre più frequente alla consulenza scientifica mette in luce come sempre più spesso uno specialista, chiuso nella sua visione parziale del problema, contraddica un altro specialista tanto che oggi circola l'aforisma: "c'è sempre lo specialista in grado di dare torto o ragione a chiunque". La scienza apparentemente neutrale si è totalmente ri-politicizzata nel mentre la politica si scientificizzava.

 

 

Basti pensare ai meccanismi di valutazione del rischio per la salute rappresentato dagli OGM e alle recenti polemiche sollevate dallo studio di Seralini (Séralini et, al., 2012) sulla tossicità e cancerogenicità dell'erbicida glifosate e del mais Gm della Monsanto resistente al medesimo. La stroncatura dello studio da parte di ben sei accademie scientifiche nazionali è di fatto venuta da un gruppo ristretto di scienziati (una dozzina) e senza dibattito. Quello, però, che pone ancora più seri interrogativi sulla possibilità di un giudizio indipendente da posizioni ideologiche e da interessi economici è il fatto che il protocollo tossicologico giudicato inadeguato nel caso dello studio che dimostra come il mais GM è pericoloso è lo stesso utilizzato nelle prove dimostrare che è sicuro prese per buone dalle agenzie per la sicurezza alimentare. D'altra parte questo caso mette bene in evidenza come i meccanismi di garanzia della qualità e dell'oggettività del lavoro scientifico siano apertamente in crisi. Stroncato dai boss scientifici il lavoro di Seralini è stato in ogni caso pubblicato su una rivista scientifica con tutti i crismi e passato al vaglio da un gruppo di revisori con competenze specialistiche.

Ma è stato anche difeso da 140 scienziati francesi. La verità scientifica è una o dipende dalla nazionalità o dal contenere indicazioni gradite piuttosto che sgradite all'establishment scientifico e alle multinazionali? Che gli apparati scientifici non siano in grado di tutelare la società e l'ambiente dai rischi prodotti la essi stessi e dall'apparato industriale. In quanti casi la scienza si è accorta tardi della tossicità di un farmaco, della pericolosità di un pesticida, del pericolo dei cloro-fluoro carburi per lo strato di ozono, dell'amianto, dell'Ilva di Taranto, dell'alimentazione dei bovini con proteine animali? E cosa dire della tragedia del Talidomide che è stata paragonata a quella del Titanic come catastrofe tecnologica del XX secolo (Annas e Elias, 1999)? Dopo 50 anni, nel 2012, la Gruenenthal, l'azienda tedesca che produceva il Talidomide si è scusata con le vittime (migliaia di morti entro il primo anno di vita, 12 mila casi di malformazioni nei "figli del Talidomide", assunto dalle madri durante la gestazione).

 

 

Troppo spesso gli allarmi lanciati da scienziati isolati o da persone comuni e intere collettività sui rischi ambientali sono rimasti inascoltati. Verrebbe da dire che "il difetto è nel manico", ovvero in una metodologia scientifica che non sa valorizzare le informazioni che provengono dall'esterno del suo sistema autoreferenziale, che applica un principio meccaniscistico di verifica dei rapporti tra cause ed effetti e metodi di "accumulo" delle prove incompatibili con i tempi di una società in cui il rischio si produce sempre più rapidamente. In una parola non si applica il principio di precauzione. È più difficile dimostrare che qualcosa non è sicuro piuttosto che ottenere un via libera sulla base di una - spesso provvisoria - prova di "non pericolosità". Un criterio che poteva forse essere accettato in passato quando il "progresso", lo "sviluppo", la "crescita" determinavano (almeno nel breve periodo) più benefici che rischi e svantaggi. Oggi viviamo in un mondo diverso, "saturato" dallo "sviluppo" e il bilancio tra benefici e svantaggi della ulteriore crescita è in pari e spesso già negativo. Non è il caso di lasciare le "briglie sciolte" alla tecnoscienza. Ed è invece il caso di valorizzare i saperi locali, i saperi impliciti disprezzati dalla scienza nella fase storica dell'affermarsi della sua autorità in cui era ansiosa di distinguersi da altri sistemi di conoscenza e di affermare il suo monopolio. Oggi la scienza si è già sin troppo affermata e da un confronto con altri sistemi di conoscenza può trarre essa stessa beneficio.

 

 

Scienza civica e comunitaria

 

Dalla crisi di legittimità della scienza se ne esce riconoscendo che non è "marziana", che fa parte della società e che la sua democratizzazione, ovvero l'affermazione di una scienza civica, è nell'interesse di tutti.La difficoltà di affrontare i problemi ambientali attuali sulla basi degli schemi di un approccio razionale convenzionale basato sulla definizione dei problemi, la raccolta dei dati, la loro analisi e la decisione ha portato alla definizione di un nuovo approccio alla conoscenza e alla gestione dei problemi indicato come "scienza sostenibile" e basato sulla interazione tra ricercatori e stakeholders (Kates et al., 2000). Si tratta di un approccio reso necessario dal fatto che quello tradizionale non riesce a fare fronte a quei problemi "wicked problems" ovvero "problemi perversi" che non sono riconducibili a formulazioni definitive a soluzioni verificabili dal momento che sono inestricabilmente connessi a considerazioni che riguardano i valori, la giustizia sociale, l'equità (Ludwig, 2001).

Nell'ambito della riflessione teorica sulla "scienza sostenibile" è venuta precisandosi anche attraverso definizione più operative una "scienza civica".  La scienza civica o, in una accezione più radicalmente "comunitaria" (Carr, 2004) come intesa attualmente nel dibattito scientifico mira a ricomporre i ruoli e responsabilità separati tra sfera politica e sfera scientifica (conoscenza da una parte e decisione dall'altra) mettendo in discussione il ruolo “fuori e sopra la società” che la scienza si è auto-attribuita (Shannon e Anthypas, 1996).

Mentre l'impostazione scientifica ha visto la realtà come universale e oggettiva (e ha giocato sul dogmatismo e l'autorità) il nuovo approccio necessario a superare lo scientismo e la tecnocrazia parte più realisticamente e più umilmente da una considerazione della realtàcome socialmente costruita e culturalmente specifica. Esso tiene anche conto che i sistemi basati sulla valutazione scientifica di pochi esperti e sulla assunzione e applicazione di decisioni da parte di apparati di "controllo e comando" (tipicamente qualli statali centralizzati) erano strettamente legati ad una concezione meccanicistica della natura e ad pensiero basato su relazioni lineari tra cause ed effetti.

Questo sistema "moderno" ha cercato non solo di comprendere la realtà attraverso una sua semplificazione ma anche di operare in essa riducendo la variabilità naturale, rendendo gli ecosistemi più produttivi, ma anche più prevedibili e controllabili. Questo almeno negli auspici. Le conseguenze della riduzione della biodiversità e del controllo tecnoscientifico e industriale sugli ecosistemi hanno portato a conseguenze imprevedibili su scala globale. Insistere, come è proprio anche dell'ecologismo istituzionalizzato, a fronteggiare i problemi della crisi ecologica con gli strumenti di una maggiore centralizzazione, della imposizione di "soluzioni" individuate da pochi soli al comando (normalmente condizionati perseguimento dei propri interessi particolari).

Gli "errori" che hanno caratterizzato la corsa alle bioenergie (basti pensare all'assunzione data per scontata di "carbon neutrality" e alla iniziale sottovalutazione dell'effetto ILUC (Indirect land utilization change) sono emblematici.

Nel nuovo approccio la "verità", i dati di fatto e i rapporti causa-effetto non si rivelano attraverso l'interpretazione dell'esperto esterno al contesto sociale, ma vengono costruiti inter-soggettivamente attraverso la molteplicità di prospettive di tutti i partecipanti ad un progetto, a delle scelte che implicano rischi e impatti (stakeholders). Il ruolo degli esperti diventa di supporto, dialogico. Tutto il processo di raccolta degli elementi conoscitivi, interpretazione, validazione dei risultati si svolge in un contesto di democratizzazione, di dialogo che va ben oltre quella richiesta di divulgazione dei risultati della scienza che veniva ancora in un recente passato individuata come l'unica sua dimensione civica possibile.

Bäckstrand (2003) ha individuato tre ordini di motivi a sostegno della scienza civica: 1) Il recupero di fiducia nella scienza; 2) La complessità dei problemi ambientali; 3) La democratizzazione della scienza. Il recupero di fiducia nella scienza passa attraverso un abbandono degli atteggiamenti in cui insiste che buona parte del mondo scientifico. Esso attribuisce la sfiducia a un mero problema di "analfabetismo scientifico", alla permanenza di pregiudizi da parte del pubblico. Un caso come quello della BSE ("vacca pazza") illustra come questa posizione non regga (Lynn e Salter, 2002)

Da parte degli scienziati si continua a ritenere che la comunicazione con il pubblico e la società debba rimanere unidirezionale, top-down. Non ci sono neppure sforzi adeguati ad applicare alla conoscenza scientifica la necessaria "autoriflessività" quella che nell'ambito sociale è sempre più un carattere diffuso della tarda modernità ma che la scienza si ostina a non applicare a sé stessa (Beck, 2000, Beck et al.,1999). E neppure nel riconosce la problematicità di una scienza che può che pervenire a risultari provvisori e brancola nell'incertezza in molti campi.  Per fare fronte alla complessità dei problemi ambientali, alla vulnerabilità degli ecosistemi, alla crescente all'irrimediabile incapacità della scienza così come l'abbiamo conosciuta di uscire dall'incertezza diventa inevitabile un approccio politico pragmatico, flessibile, trasparente e condiviso. Le pratiche scientifiche non possono che avviarsi ad una trasformazione che implica anche una modifica del sistema di controllo di qualità dei risultati scientifici posta l'insufficienza (come osservato precedentemente) di una verifica "tra pari" (ovvero tra specialisti chiusi nella stessa nicchia disciplinare) sempre più legata alla correttezza formale della metodologia e meno alla sostanza delle cose. La verifica scientifica potrebbe quindi coinvolgere una "comunità allargata" (media, pubblico, organizzazioni, imprese). La finalità di questa operazionedi "democratizzazione" non va vista come fine a sé stessa. Il coninvolgimento di altri sistemi di conoscenza oltre a quelli scientifici formali non implica la loro superiorità. Però consente di allargare i punti di vista, di allargare il ventaglio di alternative possibli in grado di fronteggiare l'incertezza e la possibilità di dover far fronte a problemi gravi ed imprevisti. Una scienza "democratizzata" in questo senso è più efficace, è in grado di fornire indicazioni in modo più rapido e maggiori soluzioni possibili. E a decidere non sono solo pochi "eletti". (3) continua.

 

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Bibliografia

 

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Bäckstrand K. (2003) Civic Science for Sustainability: Reframing the Role ofExperts, Policy-Makers and Citizens, Environmental Governance, Global Environmental Politics 3:4, November 2003

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