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Le quattro virtù cardinali: fortezza

di Francesco Lamendola - 05/01/2013




 

A volte ci capita di dire, o di pensare, riguardo a una certa persona: «Quello è un uomo (o una donna) dall’animo forte!»; e ciò con un misto di ammirazione e di invidia, perché vorremmo possedere quella sua forza, quel suo coraggio, quella sua capacità di non sgomentarsi e di non smarrirsi davanti ad alcuna prova.

In senso teologico e morale, però, la fortezza («fortitudo») non è, semplicemente, la forza dell’animo davanti alle avversità e agli ostacoli, ma quel particolare tipo di forza che si mette in atto nella ricerca della verità, nel resistere alle lusinghe e alla tentazione dei beni di natura inferiore; nel perseverare lungo la via stretta e malagevole, quando si sia individuato in essa, però, l’itinerario che ci porta alla pienezza dell’Essere e, quindi, alla nostra realizzazione come persone.

Questo, infatti, è un punto importante, anzi è la premessa indispensabile per il possesso e l’esercizio della fortezza come virtù: la coscienza che l’uomo è colui che deve divenire persona, e che il semplice fatto di essere uomo (o donna) è un dato puramente biologico, che qualifica l’individuo in quanto esistente, dal quale bisogna partire, lavorando su se stessi, per far emergere la farfalla dal bruco, ossia la natura spirituale dell’uomo stesso, la quale non si appaga se non nella ricerca e nel possesso, e sia pure incompleto e parziale (in questa nostra dimensione contingente e fenomenica) della Verità.

In tale ottica, la fortezza è quella virtù che ci accompagna e ci sostiene nel cammino della nostra ricerca: cammino che non è qualche cosa di accessorio, qualche cosa di facoltativo, ma che è lo scopo e il senso della nostra intera esistenza; cammino senza il quale noi non possiamo realizzare la nostra natura, perché la nostra natura è quella di tendere al ricongiungimento con lo splendore e con la pace dell’Essere, del quale siamo una emanazione o una scintilla. Un uomo (o una donna) sprovvisto di fortezza è, dunque, come una pianta senza virtù generativa: qualche cosa di sterile, di inutile – per quanto possieda una bella apparenza – e, in ultima analisi, di morto.

Eppure, nessuna virtù morale è oggi tanto trascurata o tanto derisa quanto la fortezza: la cultura dominante, edonista e materialista, dà praticamente per scontato che l’unica cosa da fare nella vita è quella di tendere al piacere materiale, e che l’unico successo degno di questo nome consiste nell’esercitare un potere sulle cose o sulle persone, diretto o indiretto, gratificando così il proprio narcisismo e alimentando il proprio insaziabile egoismo. In un mondo dove ciascuno sembra impegnato unicamente ad inseguire la propria auto-affermazione, non con gli altri ma contro gli altri, il “forte” viene confuso con il prepotente, con il cinico, con l’arrogante.

Non è certo questa la virtù della forza, di cui ha bisogno l’uomo interessato alla propria crescita interiore e al raggiungimento della consapevolezza spirituale: la sua forza è fatta di coraggio, di attesa, di pazienza, di imperturbabilità; imperturbabilità che non va intesa alla maniera degli stoici, come perfetta indifferenza agli assalti della fortuna, ma come la capacità di non lasciarsi turbare dal male, anche se esso produce dolorose ferite, perfino quando non ci colpisce direttamente. Chi potrebbe rimanere impassibile davanti alla disgrazia di un amico o anche di un estraneo, specialmente quando essa si presenta in forme particolarmente tragiche e incomprensibili, come una malattia incurabile e dolorosa che colpisce un bambino ancora piccolo? Eppure, l’animo forte non se ne lascia turbare, anche se rimane commosso: commozione e turbamento non sono la stessa cosa; la prima indica una partecipazione al dolore altrui (o una sensibilità al proprio), il secondo testimonia un crollo della saldezza morale e un venir meno della capacità di perseverare nel proprio cammino.

Una persona completa, una persona sensibile, non rimangono mai indifferenti davanti alla manifestazione del male; però una persona forte non se ne lascia turbare: sa che il bene è più forte del male e sa che le forze del bene le porgeranno aiuto, quando le sue risorse individuali non saranno bastanti a fronteggiarlo.

La fortezza, come è ovvio, deve procedere in accordo con le altre virtù morali: deve essere “prudente”, deve essere “giusta”, deve essere “temperante”; e, infine, deve essere “umile”, perché le quattro virtù morali senza l’umiltà rischiano di diventare un guscio vuoto, nel quale, pur dietro belle apparenze, è assente ciò che, invece, dovrebbe essere essenziale.

La fortezza ha il suo nucleo nel coraggio, il coraggio morale: non si sbigottisce di essere sola, circondata da individui che cercano solo l‘affermazione egoistica del proprio io, che perseguono unicamente la manipolazione e il dominio sulle cose e sulle persone; non si amareggia se non ottiene riconoscimenti, anzi neppure li cerca, perché l’unico riconoscimento che le preme è quello di ricevere la Grazia dell’Essere; e non si intristisce, né si incupisce, se la sua strada è disseminata di ostacoli, mentre uomini e donne di poco valore procedono a vele spiegate verso la meta dell’affermazione sociale.

L’uomo forte non presta il fianco al pungiglione velenoso dell’invidia e, anzi, si rallegra se vede l’amico ottenere ciò che desiderava, anche se lui stesso non l’ha ottenuto; perché l’uomo forte non è attaccato alle cose, se ne serve ma non ne è schiavo, non è dominato, può fare anche a meno di esse, in una misura impensabile per l’uomo debole; inoltre, procede con animo sereno lungo la sua strada, reso leggero dalla mancanza di avidità e di egoismo, ma non privo di benevolenza e di compassione verso tutte le altre creature.

Ma non solo la forza ha bisogno della prudenza, della giustizia, della temperanza e dell’umiltà; ha anche e soprattutto bisogno della carità, perché, come ha osservato Sant’Ambrogio (nel «De Officiis» (1, 35, PL 16, 75), «la forza senza la giustizia è una leva del male». Questo appunto sembra essere oggi il paradigma fondamentale dell’uomo moderno: il possesso della forza (fornita dalla tecno-scienza) ed il suo abuso, perché non accompagnata dalla carità, ma- al contrario – fattasi strumento della prevaricazione.

L’uomo antico andava orgoglioso della propria forza, intesa soprattutto come forza fisica. Guai a chi non la possedeva: doveva rassegnarsi a subire la violenza altrui, a essere fatto schiavo, a divenire un oggetto manipolabile a volontà. Il prototipo dell’eroe degno di ammirazione è Achille, seminatore di strage, che insulta i cadaveri degli uccisi e irride perfino gli dèi, come nell’episodio della strage sule rive del fiume Scamandro. Solo verso la fine dell’età antica, nei versi di Virgilio, compare una nuova figura di eroe: il “pius Aeneas”, un guerriero che combatte controvoglia e che uccide a malincuore, mentre non vorrebbe che dare ai suoi compatrioti, fuggiaschi come lui, una nuova patria e un po’ di pace, dopo tanto soffrire e peregrinare. Ma ci vorranno secoli e secoli, anzi, più di un millennio di cristianesimo, per modificare radicalmente la mentalità antica e porre in primo piano il valore della forza morale rispetto a quella fisica; e che altro è stata la cultura cortese-cavalleresca, se non il tentativo di ingentilire e spiritualizzare la forza bruta e di metterla al servizio di un più alto ideale, quello della difesa dei deboli contro la prepotenza dei malvagi?

Eppure, l’uomo antico non è morto con le epoche morte della storia; è ancora vivo in ognuno di noi ed è sempre pronto a balzar fuori quando meno lo si crederebbe, con tutta la sua carica di violenza e di compiacimento della forza bruta. La notizia che il principino Harry d’Inghilterra ha ucciso un capo talebano sulle montagne dell’Afghanistan, alla fine di dicembre del 2012, ha letteralmente galvanizzato l’opinione pubblica di quel civile Paese. Certo, la guerra non è un gioco: ma una cosa è farla con lo spirito di Enea, come una dura necessità difensiva; e altra cosa è farla con gioia sadica, compiacendosi di ogni nemico abbattuto e vantandosi di aver versato quanto più sangue possibile.

L’uomo vecchio e l’uomo nuovo lottano in ciascuno di noi: l’uno, ebbro di volontà di sopraffazione; l’altro, capace di farsi piccolo per far emergere la Verità che giace nel profondo. L’uomo vecchio scambia la violenza per forza morale e racconta bugie a se stesso, allorché si atteggia ad eroe, mentre non è che un misero io assetato di gloria e di potere, incapace di dire “tu”, di porre l’altro, di comprenderne le ragioni, di valorizzarlo, di amarlo: perché, in fondo, non vede che se stesso e non ama altri che se stesso.

Oltre che di coraggio, la fortezza si deve armare di pazienza e di perseveranza: e queste sono altre due qualità che, oggi, tendono a passare sempre più in secondo piano, se non a scomparire addirittura. L’uomo moderno è caratterizzato dall’impazienza e dalla incostanza: vorrebbe vedere subito i risultati dei suoi sforzi e dei suoi sacrifici, non sopporta di dover attendere, di dover pazientare; considera semmai la pazienza non come una virtù, ma come un difetto, come una forma di debolezza o, nel migliore dei casi, come una manifestazione di fatalismo.

L’uomo moderno si crede Dio: vorrebbe fare tutto da solo; ubriacato dai trionfi – apparenti, ma spettacolari – della tecno-scienza, che gli hanno conferito potere e benessere materiale, si crede pressoché onnipotente e delira di estendere ancor più il suo dominio sulla natura, clonando gli esseri viventi e manipolando il loro patrimonio genetico. Non ha pazienza, perché crede di potere e di dovere modificare immediatamente ciò che si oppone ai suoi disegni; ahimé, egli vede ovunque ostacoli ai suoi desideri, perché questi ultimi si son fatti illimitati: dunque, egli è perennemente in guerra col mondo intero, con i suoi simili, con le altre creature, con il pianeta Terra, e perfino con se medesimo.

L’uomo moderno è scisso, è schizofrenico: «quel doppio uomo che è in me», dice di se stesso uno dei padri fondatori della modernità, Francesco Petrarca (nella epistola in cui narra la salita al Monte Ventoso); e Robert Louis Stevenson, nello «Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde», illustra con magistrale plasticità la spaccatura dell’io in due parti diverse e inconciliabili, l’una ancora sottoposta alla ragione e alla morale, l’altra interamente preda degli impulsi egoistici e primordiali, sotto la patina superficiale della “civiltà” e del “progresso”.

Dicevamo che la fortezza, come virtù morale, non è solo la forza dell’animo, ma la forza dell’anima che cerca il bene, il vero, il bello e il giusto. Già vi è una differenza abissale fra il concetto di “animo” e quello di “anima”: il primo è un concetto laico, immanente, meccanico; il secondo è un concetto spirituale, trascendente, in perenne tensione ed evoluzione (o involuzione: perché l’anima è libera e può anche andare contro se stessa). Ma soprattutto l’anima tende, mediante la fortezza, a realizzare la propria natura, cioè a comprendere, amare e lodare l’Essere da cui trae origine; mentre la forza d’animo può venir messa anche al servizio del male: e, di fatto, si vedono nella storia molti esempi negativi di quest’ultimo genere.

Infine, vorremmo aggiungere che la fortezza è tranquilla: possiede quella mansuetudine, quella serenità, quella dolcezza che è tipica dei forti, ma spogliata di ogni residuo di orgoglio, di superbia, di ostentazione: cosciente di sé, ma anche umile, non deve dimostrare niente a nessuno, non ha bisogno di mettersi in mostra, anzi ama starsene in ombra, almeno fino a quando le necessità della vita non la richiamano in prima linea con squilli di tromba. Allora e solo allora essa si fa avanti con passo fermo e misurato, impavida e pronta a tutto.

La fortezza, così come l’abbiamo delineata, possiede un fascino irresistibile: tutti la ammirano, anche coloro che mostrano di disprezzarla, perché avvertono segretamente in lei quella maestosità regale, quella sovrabbondanza di vita che è propria della grandezza, e nella quale non vi è posto per niente che sia meschino, frutto di avidità o di calcolo. Istintivamente, tutti si sentono attratti da una persona forte e generosa, e, anche se mostrano di apprezzare qualità meno profonde, ma più appariscenti, nei momenti del vero bisogno è una persona forte, un amico che possiede la virtù della fortezza, che vanno a cercare. Ed è in quei momenti che, lasciando cadere le maschere, ciascuno di noi si mostra per quel che realmente è, e ciascuno di noi ha una visione, sia pure fugace e confusa, di ciò che nella vita è essenziale e di ciò che è, invece, secondario.

La fortezza è una qualità essenziale. La donna cerca nell’uomo un compagno spiritualmente forte, e così pure l’uomo cerca una donna forte: perché senza la fortezza non si costruisce nulla di duraturo, ma solo dei fragili edifici che il primo soffio di vento spazzerà via.

Anche se la nostra vita terrena si svolge nella dimensione della contingenza, ognuno di noi intuisce la necessità di fondare i propri passi sul terreno solido; ognuno di noi avverte che la fortezza è una virtù indispensabile, e che bisogna coltivarla ed esercitarla, se  non si vuole correre il rischio di vedere l’edificio della propria vita spazzato via dal primo soffio di vento. E questo, finché la benda ci sarà caduta dagli occhi e potremo vedere la realtà vera: quella dell’Essere, luminosa e perenne…