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La guerra e i libri

di Franco Cardini - 06/02/2013

 

Cari Amici, rassegniamoci. Nell’ultimo decennio, tra Iraq, Afghanistan, Siria, Iran eccetera ci siamo dovuti occupare fin troppo di Vicino e Medio Oriente. “Assalto fondamentalista” o interessi occidentali? Ora, l’una e l’altra cosa sembrano essersi focalizzati sul continente africano. Il secondo decennio del XXI secolo ci obbligherà a cercar di diradare un po’ la foresta della nostra ignoranza sulle cose dell’Africa. La crisi libica segnata dalla morte di Gheddafi ma con essa non conclusa ne è stata il segnale d’avvìo; d’altronde lo stesso Egitto, che attraversa in questi giorni una crisi di gravità tanto inaudita quanto inattesa in Occidente, dove per lungo tempo il paese del Nilo era stato indicato a modello di “primavera araba”, è un paese africano.

Non fu un conquistatore musulmano fanatico a bruciare la biblioteca di Alessandria: eppure il mito ha retto per secoli, e viene tutt’ora rispolverato di tanto in tanto. Forse perché i roghi dei libri ci fanno paura tutti e sempre – dagli autos de fé alle cerimonie notturne degli studenti nazisti a Fahrenheit 451 - e perché ci risuona ancora dentro la desolata massima di Heine, “Chi brucia i libri, prima o poi brucerà anche gli uomini”.

Ora, dal martoriato Mali, ci arriva un’altra notizia agghiacciante che ci rinvia all’orrore dei delitti contro la civiltà e l’intelligenza. Per quanto ne sappiamo da notizie che provengono da fonti a quel che pare tunisine, nell’antica e gloriosa città di Timbuctu – nel nord del Mali, un po’ a nord della “grande curva” del Niger - i guerriglieri jihadisti avrebbero bruciato un palazzo contenente un’importante biblioteca. L’edificio danneggiato, forse distrutto, potrebbe essere (ma nulla di sicuro per ora è stato appurato) quello del centro di documentazione e ricerche Ahmed-Baba, fondato nel 1970 con l’apporto dell'UNESCO e inaugurato nel gennaio del 2009 dal presidente maliano Amadou Toumani Touré. La biblioteca del centro è ricca di circa 18.000 manoscritti: una delle più ricche dell’Africa nordoccidentale, insieme con la mitica raccolta di Chinquetti in Mauritania.

La città di Timbuctu, la “regina del deserto” alle cui favolose ricchezze giunse per primo, nel Trecento, il viaggiatore arabo Ibn Battuta, è contesa tra i miliziani “fondamentalisti” di Ansar Dine guidati da Iyad Ad Ghali e i militari francesi che appoggiano l’esercito governativo del Mali e i contingenti militari forniti da Niger, Nigeria, Chad, Senegal, Burkina Faso, Algeria e Mauritania.

Va detto che il panorama politico-militare (e socioeconomico) maliano è molto più complesso di quanto i nostri media non abbiano finora presentato. Lo schema superficiale, ampiamente divulgato tra noi, è quello di una specie di “crociata per l’ordine interafricano” in appoggio al governo del Mali, cui quello francese ha dato il suo supporto con il pieno assenso dell’AU (L’Unione Africana) e dell’ECOWAS (Economic Community of West African States, contro l’azione destabilizzatrice del MNLA tuareg (Mouvement National de Libération de l’Azawad) che ormai sembra però scalzato e al posto del quale si sono imposti i “fondamentalisti” di Ansar Dine e più di recente il MUJAO (Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest), sorto nel 2012, e lo AQIM (Al Qaeda in the Islamic Maghreb), un tempo noto come “Gruppo Salafita di Predicazione e di Combattimento” e costituito soprattutto da Cabili provenienti dall’Algeria e da sarawi del Sahara occidentale. Se i tuareg del Mali settentrionale lottavano per l’indipendenza e la nazionalizzazione delle ricchezze del loro territorio opponendosi al governo di Bamako e alle multinazionali che in accordo con esso ne organizzano gestione e sfruttamento, i nuovi gruppi di guerriglieri – che sembrano animati da un esclusivo rigore di tipo religioso – svolgono un’azione ambigua, fatta di colpi di mano e di rapimento di ostaggi: e non mancano gli osservatori i quali hanno segnalato la presenza, nella loro leadership, di agenti provocatori legati alla CIA e alle multinazionali che avrebbero il compito di compiere azioni tali da “obbligare” le potenze occidentali all’intervento e a fondare quindi un più rigido controllo sui ricchissimi territori nordafricani (le popolazioni dei quali, tra le più povere del pianeta, non godono per nulla del flusso di ricchezze che sgorga dal loro seno). Il numero di gennaio 2013 dell’autorevole rivista panafricana “NewAfrican” ha denunziato questa situazione, che interessa si può dire l’intero continente, con un’edizione speciale dal titolo The sponsors of war. Un altro periodico importante, “The African Report”, già nel numero del dicembre scorso denunziava una situazione già grave, ma che solo nelle ultime settimane il rischio corso dagli interessi locali delle lobbies francesi ha portato al proscenio mondiale.

E’ quindi credibile che i fondamentalisti incendierebbero libri e biblioteche solo perché sono dei musulmani fanatici, impegnati in una loro violenta e bigotta “rivoluzione culturale”? O invece le notizie provenienti da Timbuctu, se confermate, ci metterebbero dinanzi a una provocazione architettata da chi ha interesse a gettare discredito sui movimenti degli insorti governativi? Poiché non dobbiamo dimenticare che quella che è in atto nel Mali non è una guerriglia di fanatici cui si sta rispondendo con un’operazione di polizia, bensì una vera e propria guerra civile dietro alla quale si agitano ingenti interessi statunitensi, europei, arabi (sauditi ed emirati) e ormai anche cinesi.

Tutto ciò, confessiamolo, ci coglie come s’è detto in apertura di questo articolo tragicamente impreparati. Sull’Africa, la nostra “cultura diffusa” è praticamente al grado zero, e i mass media non ci aiutano. Timbuctu, che nella primavera scorsa fu conquistata dagli insorti nel corso di una guerra ch’era per il momento ancora “dimenticata”, era stata dichiarata nel 1988 dall’UNESCO “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”. Fondata verso l’XI secolo da mandinghi ben presto islamizzati dagli almoravidi marocchini, ebbe il suo periodo di massimo splendore sotto il sovrano Kankan Musa (noto anche come Mansa Musa), che ci è noto grazie a Ibn Battuta e a Ibn Kaldun: a Timbuctu, che si avvalse della disgregazione del vicino impero del Ghana, convergevano le carovane provenienti dal Mediterraneo, dall’Egitto e dall’Arabia, mentre fiorente era il traffico fluviale sul Niger; più tardi la sua indipendenza decadde e il territorio fu conteso tra portoghesi e marocchini.

Ma per gli occidentali, Timbuctu era un mito. Solo nel 1828 l’esploratore francese René Caillé, travestito da nomade, giunse ad ammirarne lo splendore, o almeno quel che rimaneva delle moschee e dei palazzi dell’antichità. Annessa nel 1898 all’Africa Orientale Francese, entrò nel 1960 nella neonata repubblica del Mali, che dopo una prima fase socialista si è andata configurando come un regime autoritario egemonizzato da militari e un po’ come tutto il resto dell’Africa del nord-ovest legato alla vecchia potenza coloniale, la Francia, e ai gruppi finanziari e tecnologici soprattutto da essa espressi. Le aspirazioni all’autonomia del nord, specie da parte dei gruppi etnici tuareg, vi allignano da vecchia data: ma in Mali ci sono l’uranio e l’oro, materie prime i proventi dell’estrazione e dell’esportazione delle quali solo in minima parte ricadono sulle popolazioni locali. Ora, anche grazie alla diffusione dei media, i popoli africani stanno prendendo sempre più coscienza di queste tragiche ingiustizie: è pensabile che le accettino senza reagire? Il nostro Occidente è strapieno di ex marxisti ormai passati al conservatorismo e al liberismo. Ma è possibile che quando erano marxisti fossero tanto ignoranti o tanto in malafede (e che oggi siano tanto smemorati) dall’ignorare allora e/o dall’aver dimenticato oggi una delle più preziose lezioni di Marx, cioè che i popoli non avevano in passato e molti di essi non hanno oggi a disposizione se non linguaggio e valori religiosi per esprimere la loro protesta e dar voce alle loro aspirazioni? A queste cose si dovrebbe prestare maggior attenzione, anziché accontentarsi di denunziare con toni da basso illuminismo e con frettolosa superficialità del “fanatismo” e del “fondamentalismo” degli insorti. Se a Timbuctu c’è stato un rogo di manoscritti, il secolare sfruttamento del continente africano ne porta la parte più grande di responsabilità. E la “crociata” di monsieur Hollande, affiancato dai governi del centro-nordovest africano in cronica combutta con le lobbies occidentali, è la più recente espressione della violenza neocolonialista che ormai ha perduto ogni ritegno e non esita più a manifestarsi apertamente, certa che la coscienza civica e la capacità critica delle nostre società civili sono ormai narcotizzate. Nell’imminenza delle elezioni del 24 febbraio, chiediamo ai candidati al Parlamento di esprimersi contro questa vergogna, anziché ripararsi dietro l’oscena litania del “rispetto degli impegni internazionali assunti”. L’impegno ad esser complici di atti di pirateria internazionale formalmente legalizzata ci disonora e va cancellato al più presto ed esplicitamente.