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La cicala di San Francesco e la cicala di Galilei: due sensibilità e due culture a confronto

di Francesco Lamendola - 04/03/2013




 

Ci sono solo due modi di accostarsi alla natura: uno basato sullo stupore, sulla gratitudine, sull’amore; ed uno basato sulla forza, sulla manipolazione, sul dominio.

Ci si vuol far credere che l’approccio scientifico non può essere sempre delicato, perché la conoscenza ha i suoi costi, ma, in compenso è l’approccio più fruttuoso, anzi l’unico in grado di fornire concrete possibilità di miglioramento della vita – umana, beninteso; e, invariabilmente, si tirano in ballo le ricerche sulle malattie e la dolorosa, ma indispensabile necessità della sperimentazione su cavie animali.

Ma non è vero. Non è scritto da nessuna parte che la scienza debba essere crudele, né che essa soltanto assicuri autentici benefici alla specie umana; perché, anche se non è detto che il mondo verrà salvato dai poeti, come pensava Heidegger, non è nemmeno detto che lo sarà dagli scienziati, e meno ancora dai tecnici. Ciascuna forma di conoscenza ha il suo valore nel proprio ambito: quello materiale e quello spirituale; e l’uomo ha bisogno di entrambi, ma secondo una precisa gerarchia: perché lo spirituale comprende anche il materiale, ma quest’ultimo non arriva neanche a sfiorare lo spirituale.

Accostarsi alla natura con amore significa vedere in ogni creatura vivente un soggetto degno di ammirazione, di rispetto, di simpatia, indipendentemente dal fatto che sia una creatura “utile” secondo i nostri bisogni e il nostro modo di giudicare; significa, per esempio, che è cosa infinitamente migliore osservare un uccello vivo, che trilla e gorgheggia sul ramo, piuttosto di un uccello morto, steso cadavere sul tavolo di un ornitologo, quand’anche la sua morte servisse per aumentare la nostra conoscenza, perché il prezzo sarebbe comunque troppo alto.

Invece, accostarsi alla natura con volontà di dominio significa offendere, mortificare, depauperare la vita: per quanto ingegnose possano essere le formule con le quali si vuol giustificare la violenza perpetrata contro la natura, come fanno le navi baleniere giapponesi che, dopo aver arpionato e ucciso i cetacei, utilizzano alcune parti del loro corpo per condurre presunte ricerche scientifiche, il che giustifica il fatto che la carne venga inscatolata e messa in commercio – un modo come un altro per eludere le leggi internazionali contro la caccia alla balena, specie vivente in grave pericolo di estinzione.

Non è che lo scienziato debba agire per forza in maniera aggressiva e manipolatrice nei confronti della natura. Lo fa se parte da una concezione meccanicista di essa, mutuata dai mostri sacri del XVII secolo: Francis Bacon, Galilei, Cartesio, Newton: se  la natura non è altro che una macchina, allora non c’è niente di strano nel fatto di smontarne a piacere i singoli pezzi, come fossero le parti di un motore o di una turbina; del resto, il fine giustifica i mezzi, e la scienza moderna, galileiana e quindi meccanicista, si è auto-proclamata il fine e lo scopo di se stessa, un valore che scavalca e precede quasi ogni altro.

C’è stato un tempo in cui lo scienziato non aveva un approccio così brutalmente utilitaristico nei confronti della natura. C’è stato un tempo, ad esempio, in cui la dissezione dei cadaveri era sconsigliata e anche proibita, perché lesiva della dignità e del rispetto dovuti al corpo umano, anche dopo la morte. E c’è stato un tempo, assai più vicino al nostro, nel quale il medico di famiglia, e specialmente il medico di campagna, non si vergognava affatto di tenere nella borsa dei rimedi naturali, di ascoltare e consigliare i suoi pazienti oltre che prescriver loro medicine; né  brontolava se lo chiamavano nel cuore della notte: un tempo, insomma, in cui egli non curava solamente i corpi, ma un poco anche le anime, perché intuiva, anche se non aveva letto una riga di Paracelso, che il buon medico deve anzitutto essere un filosofo, cioè saper vedere la creatura umana nella sua unità fondamentale, al di là dei singoli organi.

La scienza, comunque, non è che una forma di conoscenza del reale, quella che si limita al riconoscimento dei fenomeni naturali e alla loro esatta descrizione; ma non di sola scienza vive l’uomo: egli ha bisogno anche di bellezza, di armonia, di pace, di creatività, di amore: tutte cose non meno necessarie alla sua vita, di quanto lo siano i ritrovati della scienza e della tecnica; tutte cose delle quali egli non può fare a meno, perché, se ne viene privato, si intristisce e si ammala, esattamente come un fiore che venga privato della luce.

Le piante e gli animali – ma anche le rocce, i fossili, le acque, l’aria, perfino gli altri corpi celesti – possono essere visti essenzialmente in due maniere: come oggetti a disposizione dell’uomo, di cui egli è il padrone assoluto e può farne ciò che vuole, oppure come gli enti che popolano la natura accanto a lui, insieme a lui, senza i quali egli stesso non potrebbe vivere, e che, non fosse altro per questo, meritano considerazione e rispetto.

La terra non è nostra, nessuno ce ne ha attributo la proprietà; ce la siamo presa da soli, ma in maniera arbitraria e illegittima. La terra è nostra madre, così come le piante, gli animali e gli elementi della natura – l’acqua, il fuoco, l’aria, il vento – sono nostri fratelli e sorelle. Quando gli uomini bianchi cercarono di comprare la terra dai Pellerossa dell’America Settentrionale, si sentirono rispondere da quei “selvaggi” ignoranti: «Come potremmo vendervi nostra madre? Non ci appartiene; è di tutti: e merita amore e rispetto, perché essa ci dona i frutti e i mezzi del nostro sostentamento. Nessuno la può vendere, nessuno la può acquistare o recintare: è sacra, perché è stata fatta dal Grande Spirito”».

Dovremmo tornare un po’ alo spirito di San Francesco, un uomo che ha saputo mostrare ai suoi simili la giusta maniera di accostarsi alle creature viventi. Molte sono le storie che si riferiscono ai suoi rapporti con gli animali – pecore, agnelli, uccellini, persino lupi feroci: di come egli li amasse tutti e di come essi lo ascoltassero, lo rispettassero, obbedissero, facendosi docili e mansueti al solo udirne la voce, come per una misteriosa consapevolezza della sua santità.

Non è importante sapere fino a che punto si tratti di racconti realistici o semi-leggendari; non è importante, ad esempio, stabilire se il famoso lupo di Gubbio fosse proprio un lupo in carne e ossa, o un feroce bandito designato con quel nome; non é importante ai fini del nostro discorso, perché quello che conta è l’amore che Francesco aveva e manifestava per ogni creatura vivente, fosse pure la più piccola e umile, fosse pure un insetto. Quei racconti, infatti, non avrebbero potuto circolare, se quanti avevano conosciuto Francesco non avessero potuto testimoniare che quello, realmente, era il suo modo di porsi verso tutte le creature viventi.

Uno di tali episodi si riferisce, appunto, a una cicala, il cui canto meraviglioso fu per il santo una voce della natura che proclamava la magnificenza di Dio e uno stimolo potente alla preghiera di ringraziamento; esso ci è stato tramandato, insieme a tanti altri aneddoti, da San Bonaventura da Bagnoregio (1221-74), uno dei più grandi teologi e filosofi del Medioevo, conosciuto come il “Doctor Seraphicus”, professore niente di meno che alla Sorbona di Parigi e amico di San Tommaso d’Aquino. Eccolo (da: Bonaventura da Bagnoregio, «San Francesco d’Assisi»; titolo originale: «Legenda maior»; traduzione dal latino di Agostino da Melilli, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1986, pp. 96-97):

 

«A S. Maria della Porziuncola, accanto alla celletta dell'uomo di Dio friniva una cicala tra le foglie di un fico.

Avvezzo a vedere, anche nelle più piccole creature, la magnificenza di Dio,  da quel canto si sentiva invogliato a lodare più spesso il Signore.

La chiamò a sé un giorno; e quella, come fosse ammaestrata dal cielo, gli volò sulla mano.

"Canta, le disse, - o mia sirocchia cicala, e con giubilo loda il Signore".

E quella ricominciò il suo canto; e non desistette finché per comando del padre rivolò al suo luogo.

Per otto giorni continui ripeté il volo sulla mano,  il canto e il ritorno sul fico.

Poi l'uomo  santo disse ai frati: "Diamo ora licenza a sirocchia cicala.  Ci ha rallegrati abbastanza, e ci ha spronati per otto giorni continui a lodare il Signore".

E l'invitò ad andarsene.

Ubbidiente scomparve lontano, né più si rivide o si udì,  quasi non osando mancare alla voce del paterno comando.»

 

E adesso ecco un episodio che ha per protagonisti un’altra cicala e un altro uomo, Galileo Galilei, il padre della cosiddetta Rivoluzione scientifica.

A parte lo stile pesante, pretenzioso, involuto, tipico peraltro del suo secolo (ma forse è un tantino esagerato presentare Galilei come il maggior scrittore del Seicento, come pure fanno tante antologie scolastiche), qui l’incontro con l’animale è del tutto spogliato di stupore e gratitudine: domina piuttosto una fredda curiosità di conoscere come l’animale produca il suo canto, che spinge l’uomo a praticarne la vivisezione, non solo senza il minimo rammarico, ma perfino senza alcuna consapevolezza di aver agito in maniera crudele, provocando la sofferenza e la morte dell’animaletto.

Invano si cercherebbe in questo racconto, contenuto nella cosiddetta “favola dei suoni” del «Saggiatore» (l’opera in cui Galilei magnifica smodatamente se stesso, fin dal titolo, in polemica aspra e saccente con l’astronomo gesuita Orazio Grassi, reo, si direbbe, di aver avuto ragione sulla questione delle comete, mentre lui aveva torto) un qualche accenno, se non di rimorso, almeno di dispiacere, per quell’essere vivente sacrificato sull’altare della ricerca scientifica: non c’è, e non potrebbe esserci. Non aveva detto, il suo collega ideale Cartesio, che gli animali sono tutti “res extensa” e che pertanto, anche se percossi con un bastone, guaiscono, sì, ma non soffrono, perché la materia non è senziente?

Ed ecco l’episodio della cicala nella “favola dei suoni”: si noti che è soltanto un inciso all’interno di una frase che incomincia parlando d’altro e termina parlando d’altro; mentre Bonaventura, con il suo stile semplice, ma animato e piacevolissimo, lo aveva distribuito in una quantità di periodi, che pur nell’insieme non risultano più lunghi della storia di Galilei, ma, in compenso, delineano un autentico rapporto personale, da fratello a fratello, tra l’uomo e l’animale.

 

«Ma quando ei si credeva non poter essere quasi possibile che vi fussero altre maniere di formar voci dopo l'avere, oltre ai modi narrati, osservato ancora tanti organi, trombe, pifferi, strumenti da corte, di tante e tante sorte, e sino a quella linguetta di ferro che sospesa tra i denti, si serve con modo strano della cavità della bocca per corpo della risonanza e del fiato per veicolo del suono; quando, dico, ei credeva d'aver veduto il tutto, trovossi più che mai involto nell'ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle l'ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né la vedeva muovere squamme né altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che tutto fu in vano, sin che, spingendo l'ago più a dentro, non le tolse, trafiggendola, colla voce la vita, sì che né anco poté accertarsi se il canto derivava da quelle: onde si ridusse a tanta diffidenza del suo sapere, che domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti ed inopinabili.»

 

Si dice e si ripete che Galilei è stato un grande; ma un grande non può essere così freddo e insensibile, non può mostrare una tale impassibilità, una tale assenza di compassione verso la sofferenza di una creatura vivente.

La solidarietà fra i viventi è la grande legge della natura, della quale l’uomo soltanto si è dimenticato, credendo di poter procedere da solo e facendosi il Dio di se stesso, con potere assoluto di vita e di morte sulle altre specie e spingendosi fino alla clonazione e alla manipolazione genetica. Ma questi sono autentici crimini contro la natura, dei quali, alla fine, dovrà rendere conto. E la punizione è già iniziata: con la “ribellione” della natura, che ormai minaccia la sua sopravvivenza…