E Bottai fece infuriare Goebbels
di Luciano Canfora - 29/04/2013
 «Cari camerati, bisogna avere il coraggio che hanno avuto tutte le  rivoluzioni: di prendere per il collo i disfattisti, di denunziarli.  Perché in Russia l'ambizione dei comunisti è quella di essere della Gpu,  in Germania di appartenere alle SS. La rivoluzione spagnola aveva le  brigate d'assalto. Ora noi, per causa dei regimi passati, per certe  funzioni non siamo in quest'ordine d'idee. È un errore». È la  perorazione conclusiva del discorso pronunciato da Mussolini al  direttivo del Partito nazionale fascista il 17 aprile 1943, dopo gli  scioperi che nel marzo avevano coinvolto varie decine di migliaia di  operai nelle fabbriche dell'Italia settentrionale. Ben si conosce l'epos  connesso a quella vicenda, che, in ogni caso al di là della  sacralizzazione, fu un serio indizio di crisi del regime fascista nel  momento in cui la guerra cominciava ad andar male. È merito di Roberto  Finzi (Marzo 1943, Clueb, pp. 156, 14) aver ripreso in mano l'intero  dossier della vicenda ed aver ripubblicato il testo stenografico del  lungo e preoccupato commento di Mussolini, rintracciato quarant'anni fa  da Umberto Massola.
  Si può osservare che, nel tentativo di rilanciare la lotta al  «disfattismo», Mussolini risfodera un tema intermittente, ma mai del  tutto dismesso: quello dell'analogia tra le rivoluzioni (bolscevica,  nazionalsocialista e fascista). È un tema che fa capolino più volte  nella ventennale parabola del fascismo: dalle battute con cui Mussolini  interrompe l'intervento di Gramsci alla Camera (16 maggio 1925:  «Facciamo quello che fate in Russia!») all'esultanza de «La Verità» di  Bombacci (settembre-ottobre 1939) e di Goffredo Coppola sul «Resto del  Carlino» (12 e 23 aprile 1940) per il blocco formatosi, col patto  russo-tedesco del 1939, fra le tre grandi «nazioni proletarie» contro  quelle «plutocratiche», al finale di questo discorso mussoliniano. Esso  merita una menzione particolare, giacché il tema delle «rivoluzioni» che  si assomigliano viene qui sfoderato mentre ormai l'Asse ha invaso  l'Urss e si è consumata, nel febbraio del '43, la disfatta italo-tedesca  a Stalingrado. 
  Questa è solo una delle facce del fascismo, anche se a interpretarla è  lo stesso Mussolini. Un'altra, antitetica, è quella della  contrapposizione italo-tedesca, che si manifesta quasi nelle stesse  settimane degli scioperi e dell'allarmato discorso del Duce. Ne è  promotore e protagonista Giuseppe Bottai, allora ministro  dell'Educazione nazionale. Si tratta della inaugurazione il 7 dicembre  1942, addirittura a Berlino, di un nuovo istituto, Studia Humanitatis,  volto a promuovere, nel nome del primato e dell'attualità del diritto  romano — e in polemica implicita col rifiuto nazista di esso —, un  «umanesimo moderno» capace di ricongiungere le due culture (umanistica e  tecnico-scientifica) sotto il segno della civiltà romano-cristiana, di  cui appunto il diritto romano costituirebbe il più duraturo monumento. 
  L'orazione di apertura, a Berlino, la tenne Bottai e il pezzo forte  scientifico fu l'amplissima lezione di Salvatore Riccobono De fatis  iuris Romani (sulla ricezione del diritto romano), pronunciata in un  magnifico latino davanti ad un irritato «Gotha» del Terzo Reich.  «Goebbels è irritatissimo» commenta Enrico Castelli nel suo Diario e  Rosenberg ha soggiunto: «È passato il nemico. L'Istituto Studia  Humanitatis è una longa manus del Vaticano». E Goebbels nel Diario: «È  evidente che gli italiani stanno tentando di accampare diritti al  predominio spirituale in Europa». Merito di aver ricostruito l'intera  vicenda è di un agguerrito romanista di Milano, Ugo Bartocci, nel  recente volume Salvatore Riccobono, il diritto romano e il valore  politico degli «Studia Humanitatis» (Giappichelli, pp. 154, € 18). 
  È notevole come in Italia venisse messa la sordina a questa controversa  incursione «umanistica» a Berlino: Bottai fu costretto a parlarne lui  stesso in un editoriale di «Primato» del 15 gennaio 1943. Nessuno dei  protagonisti della vicenda poté, o volle, complicare il quadro  osservando che la lotta del nazionalsocialismo contro il diritto romano  avrebbe potuto vantare un antecedente illustre e imbarazzante (per  tutti) negli scritti di Engels (Storia e lingua dei Germani, testi  raccolti ed editi molti anni fa per gli Editori Riuniti da Paolo Ramat),  dove ugualmente l'imposizione del diritto romano al mondo germanico è  vista come fenomeno di una violenza dominatrice. Questo tassello avrebbe  creato un ulteriore cortocircuito tra le «tre rivoluzioni». 
  Aporie del genere si creano soprattutto quando si fa ricorso all'ambiguo  concetto di «popoli proletari», o «nazioni proletarie»: le quali  possono continuare a proclamarsi tali e nondimeno giungere a farsi la  guerra tra loro, come accadde nel cruciale biennio 1939-1941. Cimentarsi  con quella storia è un compito che sta tuttora davanti agli studiosi  che vorranno, si spera, liberarsi via via dall'ottica deformante delle  varie storie «sacre» in conflitto e inevitabilmente foriere di  confusione e, alla lunga, di paralisi della conoscenza. Un monito  straordinariamente efficace, in direzione di una storia «vera» (secondo  il motto di Hobsbawm che Finzi pone in esergo del suo libro) viene da un  bellissimo saggio di Ivan Jablonka uscito di recente per «Le Scie» di  Mondadori: Storia dei nonni che non ho avuto. Uno storico sulle tracce  della propria famiglia scomparsa ad Auschwitz (pp. 348, 22). 
  Il libro descrive il cammino negli archivi d'Europa e d'America che  l'autore, docente di storia in Francia, ha compiuto per ricostruire la  vicenda biografica dei suoi nonni, a partire dalla loro entusiasmante  giovinezza di ebrei bolscevichi, «rivoluzionari di professione», che  prese le mosse dal villaggio polacco di Parczew. L'autore spiega  efficacemente che cosa significava essere ebreo e comunista («satana  scarlatto dal naso adunco») nella Polonia di Pilsudski, così vicina  all'Italia di Mussolini e così furiosamente antisovietica. Una  condizione di vita ben diversa dalla festosa militanza dei «compagni che  vendono "l'Humanité" a Billancourt, nella periferia rossa di Parigi». 
  Il racconto finisce in tragedia in un mondo in cui la «rivoluzione»  nazionalsocialista si avventa contro quella bolscevica perché «ebraica» e  trascina con sé quella «mussoliniana» in barba all'umanesimo moderno di  Bottai e alla tardiva nostalgia del Duce per le «tre rivoluzioni». Alla  fine del libro Jablonka trae una morale profonda e salutare per ogni  ricerca storica: «Non ha senso contrapporre scientificità e  partecipazione emotiva, eventi esterni e passione di chi li comunica,  storia e arte del racconto, perché l'emozione non nasce dal pathos o  dall'accumulo dei superlativi: essa scaturisce dalla nostra tensione  verso la verità».
 
        

