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L'allucinazione della modernità

di Loris Falconi - 24/05/2013


“L’Allucinazione della Modernità” è uno di quei rari libri che ci costringono a pensare o, per meglio dire, a ri-pensare i fondamenti di ciò che abbiamo edificato come “Mondo-In-Comune” - il Mit-Welt di heideggeriana memoria - all’interno del quale ci relazioniamo quotidianamente agli altri e attribuiamo un senso alla nostra esistenza. Il pensiero decostruttivo e demistificante dell’autore - il chirurgo bolognese Pier Paolo Dal Monte - ci induce a riflettere nuovamente su ciò che concepiamo come “Ragione”, invitandoci a ripensare il nostro stesso pensiero a partire dai suoi più inespressi e taciti presupposti.

D’altra parte un pensiero, se autenticamente incarnato da colui che lo esprime, presuppone a sua volta un sentimento: il pensare scaturisce dal sentire. In questo caso sono convinto che alla base dell’analisi lucida e rigorosa operata da Dal Monte vi sia, prima di tutto, un forte e insopprimibile sentimento di indignazione nei confronti di una ideologia violenta e desertificante, definibile oggi come totalitarismo tecnico-finanziario globale, giunto ormai alla sua massima espansione così come alla sua massima esposizione e, conseguentemente, al suo capolinea. A proposito dell’accesa vis polemica che accompagna tutto il testo, ma che allo stesso tempo non nasconde affatto, anzi semmai tende ad esaltare, lo sguardo benevolo e compassionevole dell’autore nei confronti dei suoi simili, mi sovviene alla memoria lo splendido titolo di una raccolta di brevi racconti di Pino Cacucci, “Un po’ per amore e un po’ per rabbia”, ove l’utopia redentrice si mescola alle ferite non più rimarginabili della storia.

Nel nostro caso Dal Monte, operando una diagnosi puntuale e spietata della Modernità – e chi meglio di un medico avrebbe potuto diagnosticare una malattia di così vasta e profonda portata – ripercorre, grazie a un accurato excursus storico-culturale, le principali tappe post-medioevali che hanno condotto l’umanità al tanto decantato Progresso: il Rinascimento, esauritosi col cocente fallimento nel restituire centralità al mondo dello spirito e dell’immaginazione; la Riforma Protestante Luterana e Calvinista, con la sua sete di salvifico martirio, scaturente in un’etica lavorativa fondata sul profitto, sull’accumulo e sul sacrificio benedicenti; la nascita e lo sviluppo della Moderna Scienza Sperimentale, grazie ai determinanti contributi di Bacone, Cartesio e Galileo, con particolare attenzione alla riduzionistica distinzione di quest’ultimo tra qualità primarie e qualità secondarie; l’avvento dell’Illuminismo, concepito in netta antitesi ad ogni anelito di illuminazione, ovvero a qualsiasi pretesa di elevazione spirituale da parte dell’essere umano; il definitivo trionfo di ciò che René Guenon ha indicato appropriatamente come il “Regno della Quantità”, caratterizzato dal fatto che tutto si può spiegare pur senza nulla comprendere.

Con l’avvento di quest’ultimo si profilano chiaramente i dogmi fondamentali della Modernità: la tracotante volontà di potenza del singolo individuo, del tutto privo di consapevolezza nei confronti dei propri limiti; l’illusione scientifica e tecnologica secondo cui tutto è manipolabile e perfezionabile; il mito della crescita e della produzione progressive e illimitate; la ragione mutilata e ridotta a utilitaristico calcolo razionalizzante. Questo esaltante processo caratterizzato dall’assioma “più” è uguale a “meglio”, nonostante l’imbarazzante assenza della necessaria conoscenza dell’optimum, culmina con l’affacciarsi nella storia di una nuova tipologia di essere umano, il cosiddetto Homo Oeconomicus.

Questa inquietante evoluzione dell’Homo Sapiens Sapiens non soltanto non sa più che farsene, dato che nemmeno la concepirebbe, della saggezza tanto ambita e idealizzata nell’antichità, frutto di una serena e distaccata Vita Contemplativa, ma si rivela estraneo anche alle categorie arendtiane della Vita Activa, dato che non può essere associato né all’agire dello Zoon Politikon né all’operare dell’Homo Faber. Potremmo semmai identificarlo per molti versi con l’Animal Laborans, la cui tipica occupazione oggi è quella dell’impiegato e dell’operaio di processo descritti da André Gorz e nel cui mondo ciò che conta è unicamente il valore di scambio di un oggetto, sia nel caso di ciò che viene prodotto, sia nel caso di ciò che lo produce. Il soggetto si trasforma così anch’esso in un oggetto, una merce scambiabile come tutte le altre merci, merce tra le merci, acquistando il titolo di “forza-lavoro” o, per essere maggiormente consoni alle recenti logiche paternalistiche atte a favorire un normalizzante quanto subdolo sviluppo personale all’interno del luogo di lavoro, di “risorsa umana”.

L’imperativo dell’odierno sistema, ormai è evidente, non è nient’altro che la produzione per la produzione, la crescita esponenziale di merci fine a se stessa, dunque senza alcun fine che non sia la sua infinita, quanto insensata, riproduzione. A questo punto il nostro Animal Laborans, oltre ad essere costretto ad integrarsi come minuscolo ingranaggio, funzionale ed efficiente all’interno della Mega-Macchina Produttiva, deve necessariamente assumere anche il ruolo di Animal Consumens, consumatore vorace e compulsivo, affinché la Mega-Macchina non si inceppi ed imploda rovinosamente su se stessa. Di conseguenza è necessario che le industrie del marketing, della pubblicità e della moda siano sempre più fiorenti al fine di, mutuando la suggestiva espressione di Serge Latouche, colonizzare totalmente il nostro immaginario attraverso aggressive campagne mediatiche atte a creare una serie interminabile di bisogni indotti. Contemporaneamente si incentiva l’obsolescenza programmata dei prodotti acquistati e si promuove la cultura della delega e della passività. Assistiamo così ad una pazzesca inversione della logica pre-capitalistica e pre-industriale per cui non si produce più per consumare, ossia per soddisfare i bisogni e le esigenze degli uomini, ma si consuma per produrre, ovvero per assicurare il buon funzionamento del fagocitante Golem, ormai del tutto fuori controllo.                           

Vi sono due celebri miti greci che simboleggiano perfettamente la tipica dinamica comportamentale dell’odierno “lavoratore-consumatore”: da una parte vi è Sisifo, emblema del lavoratore alienato e reificato, condannato per l’eternità a ripetere insensatamente la stessa inutile fatica di spingere con la forza del proprio corpo un enorme masso in cima ad una collina per poi rivederlo ogni volta ripiombare giù a valle e quindi ricominciare ottusamente da capo; dall’altra parte c’è Tantalo, suo complementare, emblema del consumatore eternamente sollecitato e, allo stesso tempo, eternamente frustrato, il quale si trova sempre a un passo dagli oggetti dei suoi desideri (ovviamente indotti), ma proprio sul più bello, quando la “felicità” tanto agognata sembra ormai a portata di mano, ecco che il sogno svanisce facendo ripiombare il nostro povero illuso nell’ansia e nell’insoddisfazione più disperanti.

Ora però, a quanto pare, l’attuale sistema potrebbe persino fare a meno di questa assurda messinscena, dato che macchine sempre più tecnologiche stanno sostituendo progressivamente e in ogni settore la forza-lavoro degli esseri umani, mentre la ricchezza prodotta sta defluendo in modo sempre più evidente verso la cima della piramide, la quale nel frattempo si sta oltremodo restringendo. A questo punto, seguendo la presente impietosa diagnosi, credo sia doveroso chiedersi, come già avvertiva drammaticamente Gunther Anders negli anni ’50, se davvero l’uomo risulti irrimediabilmente antiquato, se cioè sia ancora possibile attribuire un senso all’umano nel momento in cui si hanno a disposizione macchine di gran lunga più efficienti e performanti di lui, che non si ammalano, non scioperano, né tantomeno necessitano di ferie. Perché insomma, potremmo provocatoriamente chiederci, non sostituire definitivamente il debole e inaffidabile uomo con inossidabili cyborg e robot, come tra l’altro esplicitamente caldeggiato da alcuni folli tecnocrati, novelli demiurghi che si dilettano a giocare col fuoco, avvalorando e rendendo sempre più reali le peggiori distopie mai immaginate?

L’apocalittico scenario tratteggiato, seppur potenzialmente attuabile a livello tecnico, non tiene però conto degli insormontabili limiti energetici e ambientali legati alle risorse finite presenti sulla Terra. Non tiene conto soprattutto di un principio fondamentale esistente  in natura: il secondo principio della termodinamica, ovvero il progressivo aumento dello stato di entropia presente nell’universo. Il che significa anche, da un punto vista più ampio, diciamo pure filosofico, la necessaria e immutabile ciclicità di distruzione e rigenerazione cosmiche, l’eterna e continua trasformazione di ogni cosa grazie alla quale possiamo comprendere come la fine non sia in fondo che un nuovo inizio. Tutto ciò vale non soltanto per la vita del nostro pianeta e dell’intero universo, ma dovrebbe essere preso in considerazione anche per qualsiasi altro sistema complesso: sia per la vita del singolo individuo, sia per la vita di un insieme di individui come può essere una società o una comunità.

Oggi, come trapela chiaramente dal testo preso in esame, ci troviamo in un momento storico di radicale mutamento: un intero paradigma culturale sta esalando gli ultimi ammorbanti respiri, mentre stanno emergendo all’orizzonte, in modo timido e confuso, nuove diverse modalità di “stare al mondo”. Eppure, come avvertiva Holderlin, “più non sono gli dei fuggiti, né ancor sono i venienti”. Date le attuali condizioni credo sia necessario ri-mettere radicalmente in gioco l’intero nostro sistema di abitudini e conoscenze, re-settare completamente il nostro infernale modo di produrre, scambiare e consumare le cose, ri-considerare e ri-valorizzare gli ambiti e i settori fondamentali per un nuovo mondo a venire (l’ambiente, l’energia, l’agricoltura, l’artigianato, la moneta, il lavoro, il potere, la cultura), insomma, per usare una sola parola, ri-cominciare. A questo punto, come suggerisce Dal Monte, la prima facoltà da recuperare per dare inizio e spazio al nuovo è l’Immaginazione, quel Mundus Imaginalis generatore di mondi, rimosso e represso dallo scarnificante monopensiero della Modernità. Ciò significa riscoprire anche l’intera dimensione del Mito con la sua inesauribile rete di Archetipi e Simboli eterni. Ciò significa soprattutto ripartire dall’originarietà del Linguaggio, ossia dal potere istituente e formante della Parola, la quale dona magicamente senso al Mondo facendo sì che la Realtà sia. Nella Bibbia si legge, come sappiamo: “In Principio era il Verbo”. Chissà che non sia giunta l’ora di attingere nuovamente al principio e generare un nuovo verbo attivante.