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Una società dei consumi a “obsolescenza programmata”

di Daniele Pernigotti - 17/06/2013


 

 


Un film, «La cospirazione della lampadina», svela i trucchi con cui i produttori di beni consumo riducono la vita operativa di molti prodotti.

Ci sono un migliaio di persone nel 2001 a Livermore, California, per festeggiare un insolito compleanno. La lampadina della locale stazione dei vigili del fuoco compie un secolo d’ininterrotto servizio e l’evento viene celebrato con tanto di torta, banda e canzoncina d’auguri. Con questo episodio apre “La cospirazione della lampadina”, film franco-spagnolo diretto dalla tedesca Cosima Dannoritzer. Una produzione europea del 2010, ancora attuale nel dibattito sull’individuazione dei possibili percorsi per uscire dalla crisi economica che affligge il continente.

Attraverso la lampadina è descritto come la società moderna si sia sviluppata in modo non sostenibile.

Il tutto ha inizio nel 1924, quando il cartello mondiale dei produttori di lampadine, Phoebus, decide di ridurre la durata della vita dei bulbi a incandescenza da 2.500 a 1.000 ore. Il primo esempio di obsolescenza programmata garantisce ai produttori un evidente beneficio economico, grazie alle vendite che in breve tempo raddoppiano, a cui si contrappone però un maggiore impatto ambientale per la duplicazione dell’uso delle risorse naturali e della quantità di rifiuti prodotti.

Sono gli anni in cui la produzione di massa inizia a immettere nel mercato grandi quantità di prodotti che i cittadini, embrione dell’attuale società dei consumi, iniziano ad acquistare più per piacere che per reale bisogno. Nel 1928 un articolo su una rivista per pubblicitari interpreta i prodotti di qualità che non si logorano come una tragedia per il business, perché non in grado di garantire la continuità delle vendite. L’inquietante allarme trova in breve conferma, nella realtà e nella finzione. Sono gli anni ’40 e la Dupont inventa una fibra resistentissima, il nylon, materiale di base per collant che si dimostrano però essere troppo robusti, tanto da costringere il colosso chimico ad assegnare a un gruppo di ingegneri il compito di trovare come ridurne la resistenza e quindi la vita utile. Nel ’51 il film Lo scandalo del vestito bianco, narra la storia dell’inventore di una fibra irresistibile, troppo simile alla vicenda del nylon per apparire casuale, costretto a rinunciare alla propria rivoluzionaria scoperta di fronte alle minacce dei produttori e dei lavoratori dell’industria tessile.

La logica dell’obsolescenza programmata era già argomento di grande discussione nel ‘29, quando Brendon London negli USA proponeva di renderla obbligatoria per legge, con l’intento di alimentare la ripresa dell’economia attraverso questo meccanismo di forzato sostegno dei consumi. La proposta non ebbe successo, ma si gettavano intanto le basi per introdurre un sistema indiretto e più raffinato per rendere obsolescenti i prodotti, agendo sui bisogni del consumatore. Il designer Brooks Stevens, negli anni ’50, propagandava la propria strategia basata su un consumatore interessato a possedere “un oggetto più nuovo e prima di quanto fosse realmente necessario” e di fatto i volubili desideri dei consumatori iniziano a diventare il meccanismo più semplice per rendere obsolescenti i beni. Quando l’Europa cercava di distinguersi con prodotti caratterizzati da resistenza e durata, Brooks pensava a realizzare beni sempre più attraenti in grado di favorire la sostituzione di quelli acquistati in precedenza. L’opposto di quanto sarebbe accaduto nella Germania dell’est qualche decina d’anni più tardi, dove i frigoriferi dovevano garantire per legge una durata di 25 anni. Ma le lampade a lunga durata prodotte dalla Narva di Berlino o l’industrializzazione di modelli innovativi che promettono una vita utile perfino di 100.000 ore continuavano a non trovare spazio nel mercato occidentale.

Anzi la logica dell’usa e getta diventa sempre più pervasiva, come dimostra l’esperienza di Marcos, un giovane di Barcellona la cui stampante ha smesso di punto in bianco di funzionare, con la sola spiegazione di un generico messaggio “rivolgersi all’assistenza”. Ma quando il ragazzo catalano si rivolge ai centri di assistenza la risposta che riceve è la medesima “costa troppo ripararla, le conviene comprarne una nuova”. La maggior parte di noi davanti a una simile prospettiva si arrende all’evidenza e opta per acquistare una nuova stampante, ma Marcos vive la vicenda come una sfida personale. Inizia così a cercare in internet chi ha vissuto esperienze simili e a frequentare forum specialistici sull’argomento. Alla fine scopre cha la stampante ha un contatore di copie, teoricamente introdotto dal produttore per garantire la massima qualità di stampa fino all’ultima copia, che a quota 18.000 stampe blocca la macchina, rendendola di fatto inservibile. La soluzione arriva alla fine da un ragazzo russo, che trasferisce a Marcos un software libero, in grado di azzerare il contatore delle pagine. E la stampante riprende a funzionare come se nulla fosse.

Ridurre la vita utile dei beni ha alimentato il mercato prima della crisi. È però evidente che, in un mondo in cui le risorse naturali sono un indiscusso fattore limitante e la popolazione mondiale è destinata a raggiungere i 10 miliardi, pensare di uscire dalla crisi solo incrementando i consumi è miope oltre che non sostenibile. La messa in discussione degli attuali modelli di sviluppo, può partire dalla storia della lampadina. Nel frattempo, un pronipote del Philips, allora parte del cartello Phoebus, promuove la sostenibilità e ne lancia una a LED che dura 25 anni.