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Un'altra crisi finanziaria se i Paesi ricchi non alleggeriranno la dipendenza dalla liquidità

di Ha-Joon Chang - 09/09/2013

Fonte: polemos-war

Un'altra crisi finanziaria incomberà se i Paesi ricchi non alleggeriranno la propria dipendenza dalle iniezioni di liquidità




Appena la gente ha cominciato a pensare che la situazione nei paesi ricchi fosse diventata più tranquilla – anche se non proprio più brillante – le cose sono andate decisamente peggio, con più volantilità, nelle economie dei cosiddetti “mercati emergenti”. Al momento al centro dell’attenzione (suo malgrado) c’è l’India, che sta vedendo un rapido deflusso di capitali e di conseguenza una rapida caduta del valore della sua moneta, la rupia. Ma anche molte altre economie emergenti, a parte la Cina, hanno visto recentemente dei simili deflussi e un indebolimento delle loro valute .
Questo non è necessariamente uno sviluppo sfavorevole. Le valute di molte economie emergenti, specialmente il real brasiliano e il rand sudafricano, erano decisamente sopravvalutate, danneggiando la competitività delle loro esportazioni. La svalutazione può in effetti aiutare queste economie a riportare la crescita su un binario più sostenibile.
Tuttavia, tutti sono giustamente preoccupati del fatto che deflussi troppo rapidi di capitali possano causare svalutazioni eccessivamente veloci, che provocherebbero crisi valutarie e quindi crisi finanziarie, come già successo nell’est Asiatico nel 1997. Situazioni del genere possono verificarsi perché il valore delle monete dei paesi emergenti è stato gonfiato da un qualcosa che poi può rapidamente scomparire – vale a dire, grandi afflussi di capitali speculativi provenienti dai paesi ricchi. Data la loro natura, questi capitali sono pronti a ritirarsi in qualsiasi momento, come stanno facendo sempre più negli ultimi mesi.
Questo è un duro monito che nell’economia mondiale le cose non stanno ancora andando bene, a cinque anni dallo scoppio della più grande crisi finanziaria delle ultime tre generazioni, nel settembre 2008.
Abbiamo avuto dei grandi afflussi di capitali verso le economie emergenti soprattutto a causa del quantitative easing (QE) praticato dalle banche centrali di USA, Gran Bretagna ed altri paesi ricchi, che hanno immesso migliaia di miliardi di dollari nell’economia mondiale, in un disperato tentativo di rivitalizzare le loro economie moribonde.
Nella sua fase iniziale, il QE può avere agito come una scarica elettrica su qualcuno che ha appena avuto un arresto cardiaco. Ma successivamente i suoi effetti di stimolo si sono manifestati ampiamente sotto forma di creazione di insostenibili bolle speculative – nel mercato azionario, nei mercati immobiliari e nei mercati delle materie prime – che potrebbero esplodere e generare un altro ciclo di crisi finanziarie. Per di più, ciò ha causato molti danni collaterali ai paesi in via di sviluppo, sopravvalutando le loro monete, contribuendo alla formazione di insostenibili boom creditizi, e adesso minacciandoli con la prospettiva di crisi valutarie.
Se i suoi effetti sono quantomeno discutibili e nel peggiore dei casi preparano il terreno per il prossimo ciclo di crisi finanziarie, perché c’è stato così tanto QE? Il fatto è che esso è l’unica arma che i governi dei paesi ricchi sono stati disposti ad impiegare per generare una ripresa economica.
Il QE è diventato l’arma preferita da questi governi perché è l’unico modo attraverso il quale si può dar vita a una ripresa – per quanto debole e anemica – senza cambiare il modello economico che ha funzionato così bene a favore di ricchi e potenti negli ultimi trent’anni.
Questo modello va avanti con la generazione continua di bolle speculative, alimentato da complessi e opachi strumenti finanziari a forte leva creati dalle banche e da altre istituzioni finanziarie. È un sistema in cui i profitti finanziari a breve termine hanno la precedenza sugli investimenti produttivi a lungo termine e sulla qualità della vita dei lavoratori. Se i paesi ricchi avessero tentato di generare la ripresa attraverso strumenti diversi dal QE, avrebbero dovuto mettere seriamente in discussione questo modello.
Una ripresa guidata da politiche fiscali avrebbe comportato un aumento della quota di reddito nazionale destinata a investimenti pubblici e a spesa per il welfare, riducendo così la quota che va ai ricchi. Ciò avrebbe generato nuovi posti di lavoro nel settore pubblico, il che avrebbe indebolito il potere contrattuale dei capitalisti riducendo la disoccupazione.
La ripresa basata su un “riequilibrio” dell’economia avrebbe imposto politiche che danneggiano il settore finanziario. Il sistema finanziario avrebbe dovuto essere riprogettato per canalizzare più denaro verso gli investimenti a lungo termine che aumentano la produttività. I tassi di cambio avrebbero dovuto mantenersi a livelli competitivi in modo permanente, piuttosto che a quei livelli sopravvalutati graditi dal settore finanziario. Ci sarebbero dovuti essere più investimenti pubblici nella formazione di scienziati e ingegneri, e maggiori incentivi per il loro inserimento lavorativo nel settore industriale, riducendo così il bacino di reclutamento dell’industria finanziaria.
Tutto considerato, non è una grossa sorpresa che coloro che beneficiano dello status quo abbiano insistito con il QE. Ciò che sorprende è che essi abbiano addirittura rafforzato lo status quo, nonostante il caos che hanno provocato. Essi hanno fatto pressioni con successo per i tagli alla spesa pubblica, per ridurre lo stato sociale a un punto che nemmeno Margaret Thatcher avrebbe potuto raggiungere. Hanno usato la paura della disoccupazione in un contesto di arretramento della rete di sicurezza sociale per costringere i lavoratori ad accettare lavori precari e part-time, contratti meno sicuri (contratti a zero ore sono il caso più estremo) e condizioni di lavoro più povere.
Ma il mantenimento, o addirittura il rafforzamento, di questo ancien régime è destinato a durare? Può essere, ma forse no. Grecia, Spagna e altri paesi della periferia dell’eurozona potrebbero esplodere in qualsiasi momento, a causa della loro elevata disoccupazione e dell’aggravarsi dell’austerità. Negli USA, che sono considerati la patria dei lavoratori docili e accondiscendenti, la richiesta di salari di sussistenza si sta facendo più forte, come si vede dai recenti scioperi dei lavoratori dei ristoranti fast-food. I britannici sono (eccessivamente) pazienti, ma potrebbero cambiare atteggiamento nei prossimi mesi, quando realizzeranno la vera portata dei tagli alla spesa.
Tutto questo fermento può ridursi a poco, specialmente considerando l’indebolimento dei sindacati, eccetto che in pochi paesi, e l’incapacità dei partiti di centrosinistra di presentare una coerente visione alternativa. Ma la politica è imprevedibile. A cinque anni dalla crisi, la vera battaglia per il futuro del capitalismo potrebbe essere solo all’inizio.


FONTE

“The Guardian”, 30/08/2013

(traduzione a cura di www.vocidallestero.blogspot.it)