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Le due città

di Francesco Lamendola - 18/12/2014

Fonte: Arianna editrice

Esistono due città, secondo Sant’Agostino, nella cui intersezione si svolge la vicenda umana: quella dell’amore e quella dell’odio; quella della giustizia e quella dell’ingiustizia; quella di Dio e quella terrena, dominata dal Diavolo. Le loro strade s’intrecciano e talvolta si sovrappongono, e solo alla fine dei tempi verranno radicalmente separate: per ora, a ciascun uomo è data la scelta a quale di esse appartenere, quale eleggere come sua patria. L’egoismo, la sete di potere, la cupidigia, l’orgoglio, la concupiscenza, lo spingono verso la seconda; la grazia divina, alla quale è possibile rispondere con un “sì” o con un “no”, lo chiama verso la prima.

La loro mescolanza attuale, comunque, avviene solo sul piano fisico; poiché esse non hanno niente a che fare l’una con l’altra quanto allo spirito, il fatto che si trovino accostate e magari confuse dipende solo dalle circostanze esterne, mentre, per tutto il resto, si tratta di due realtà distinte e radicalmente opposte. Non si può essere cittadini sia dell’una che dell’altra quanto allo spirito, così come Gesù ha insegnato che non si può essere servitori di due padroni, Dio e Mammona; fisicamente, però, la città divina coesiste con quella diabolica, fino a quando il Giudizio Finale non assegnerà a ciascuna il suo ultimo destino.

Le due città hanno incominciato ad esistere sin dal primo giorno dell’umanità: il peccato di Adamo ed Eva segna drammaticamente la vittoria temporanea del Diavolo, sotto la cui ombra minacciosa si svolge l’umana vicenda, fino a quando Gesù Cristo, nel mistero dell’Incarnazione, della Passione e della Risurrezione, viene a soccorrere l’umanità e a ripristinare la speranza nella città celeste, verso la quale gli uomini che nutrono in cuore l’amore e il timore di Dio, sostenuti dallo Spirito Santo, continuano a tendere e ad anelare.

Sant’Agostino si esprime con molta severità nei confronti del potere politico: quando esso nasce unicamente dall’orgoglio e dalla superbia umane, quando non ha altro scopo che quello di servire l’avidità, l’ambizione e la sete di dominio, allora esso è diabolico e appartiene alla città “terrena” (nel senso negativo dell’espressione, come “mondo” nel Vangelo di Giovanni). Non solo: il vescovo africano non vede alcuna differenza sostanziale fra il piccolo potere, esercitato da una banda di malviventi o da una ciurma di pirati, e il grande potere, quale può essere quello dei più potenti sovrani della terra – e il riferimento all’Impero Romano è esplicito.

Vero è che la Provvidenza divina, che sa trarre il bene anche dal male, può servirsi del potere politico, anche quando esso è cattivo, per preparare le condizioni necessarie all’attuarsi di un bene futuro: e così, di fatto, è accaduto quando l’Impero Romano, pur se realizzato con la violenza e con l’ingiustizia, unificando popoli e culture diverse, ha creato le premesse per la diffusione del messaggio di salvezza universale, il Vangelo. E’ un pensiero audace e articolato, teologicamente molto complesso, che fa di Sant’Agostino il primo vero filosofo della storia; ed è un pensiero che verrà ripreso e condiviso da Dante Alighieri, come da tutta la cultura medievale.

Ecco, allora, che il potere temporale, in se stesso, non è malvagio: lo diviene allorché serve unicamente ai fini dell’uomo, che sono fini dettati dall’orgoglio, dalla superbia, dalla cupidigia e dalla crudeltà; non lo è quando serve i fini di Dio, lasciandosi ispirare dal bene e rimanendo aperto alla dimensione della salvezza, che presuppone umiltà e senso del proprio limite. In pratica, come si è detto, è quasi impossibile separare i due aspetti, perché, nella dimensione terrena e sul piano materiale, essi s’intrecciano in maniera pressoché inestricabile. Chi, se non Dio, potrebbe leggere sino in fondo al cuore dell’uomo, e riconoscere se questi agisce per spirito di ambizione e di empia, sacrilega arroganza, sfidando il Cielo così come avvenne nella costruzione della Torre di Babele, oppure per nobili fini, come spesso proclama? Non sempre le azioni degli uomini recano evidente l’impronta delle loro intenzioni: solo Dio sa scrutare nel segreto dell’anima.

La riflessione di Sant’Agostino su questo tema è contenuta in diversi scritti e ispira il titolo della sua opera più famosa e impegnativa, «La città di Dio», scritta anche per rispondere alle accuse dei pagani che vedevano nell’abbandono del culto dei loro dèi la causa della caduta di Roma nelle mani dei Visigoti di Alarico, nel 410: un evento sconvolgente e addirittura impensabile, che aveva sbriciolato profonde certezze e messo in crisi anche parecchi cristiani, se è vero che la Città Eterna, signora del più grande impero della storia, non aveva mai conosciuto una simile sciagura dai lontanissimi tempi dei Galli di Brenno, nel 390 avanti Cristo: esattamente ottocento anni prima.

Riportiamo i passaggi fondamentali di tale riflessione, tratti dai diversi scritti agostiniani in cui essa è esposta (da: Sant’Agostino, «Il maestro interiore. Testi scelti, introduzione e commento a cura di padre  Agostino Trapè», Edizioni Paoline, 1987, pp. 197-199):

 

«Dunque due città, l’una degli iniqui, l’altra dei giusti, continuano il loro cammino dal principio del genere umano fino alla fine del mondo: al presente sono mescolate secondo il corpo ma distinte secondo lo spirito; in futuro, nel giorno del giudizio, saranno separate anche secondo il corpo. Tutti gli uomini infatti, che gonfi di insensata arroganza che gonfi di insensata arroganza amano la superbia e il dominio temporale, e tutti gli spiriti che tali cose amano cercando la loro gloria nel sottomettere gli uomini, sono vincolati insieme in un’unica società, e anche se spesso litigano tra loro per queste cose, precipitano tuttavia insieme nello stesso abisso trascinati dallo stesso peso della cupidigia, e vengono così congiunti dalla somiglianza di costumi e meriti. Allo stesso modo tutti gli uomini e tutti gli spiriti che umilmente cercano la gloria di Dio, non la propria, e con pietà lo seguono, appartengono a una medesima società. Tuttavia Dio, misericordiosissimo, è paziente anche verso gli iniqui e dà loro la possibilità di pentirsi e correggersi (“De catechizandis rudibus” 20, 31).

Due amori hanno dunque fondato due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio ha generato la città terrena, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé ha generato la città celeste. Una – la città terrena – si gloria di se stessa, l’altra – la città di Dio -  si gloria in Dio; una è dominata dalla libidine di dominare, l’altra dal compito di servire;  una nei suoi potenti ama la propria forza, l’altra la ripone in Dio;  una, stolta mentre si crede sapiente, non ama Dio; l’altra, dotata della vera sapienza, rende il culto dovuto al vero Dio (“De civitate Dei” 14, 28). Ci sono due amori: quello del mondo e quello di Dio. Se alberga in noi l’amore del mondo, non potrà entrarvi l’amore di Dio: abbia posto in noi l’amore migliore… Se saziavi il tuo cuore con gli amori terreni, dissètati ora alla fonte dell’amore di Dio, e comincerà ad abitare in te la carità” (“Epist. Ioannis ad Parthos”, 2, 8). Tutto il genere umano, simile alla vita di un sol uomo, da Adamo alla fine del mondo, è governato  dalle leggi della Provvidenza e appare diviso in due schiere: in una la schiera degli empi… nell’altra la generazione del popolo di Dio (“De vera religione” 27,50).

Due amori, dei quali l’uno puro e l’altro immondo, uno sociale e l’altro privato, uno sollecito di servire all’utilità comune in vista della città superna e l’altro pronto  di subordinare anche il bene comune al proprio potere in vista di un’arrogante dominazione,  uno suddito e l’altro rivale a Dio, uno tranquillo e l’altro turbolento, uno pacifico e l’altro sedizioso, uno che preferisce la verità alle lodi degli erranti  e l’altro avido di lodi in qualsiasi modo, l’uno amichevole e l’altro invidioso,  uno che vuole al prossimo ciò che vuole a se stesso e l’altro che vuole sottomettere il prossimo a se stesso, uno che governa il prossimo per l’utilità del prossimo e l’altro che governa per la sua utilità… hanno fondato e distinto le due città (”De Genesi ad litteram”  11, 15.20).

Ho distribuito il genere umano in due categorie, una di quelli che vivono secondo l’uomo, l’altra di quelli che vivono secondo Dio. Anche in senso analogico le chiamo due città cioè due società umane, di cui una è destinata a regnare eternamente con Dio, l’altra a subire un eterno tormento col diavolo (“De civitate Dei”, 15, 1.1).

Ho inteso difendere la gloriosissima città di Dio… sia mentre essa in questo fluire dei tempi, vivendo di fede, è esule fra gli infedeli, sia nella quiete della patria celeste che ora attende nella perseveranza… e che poi conseguirà mediante la supremazia con la vittoria ultima e la pace finale (“De civitate Dei”  1, proemio).»

 

Vi è guerra permanente, dunque, fra le due città: e coloro che vivono secondo l’amore di Dio sono come esuli in patria, oggetto degli attacchi degli altri, di coloro che vivono accecati dall’orgoglio umano, dalla smania di potere, dallo spirito d’ingiustizia: è inevitabile che sia così, perché nessun compromesso è possibile fra l’una e l’altra, né mai i giusti potranno acconsentire, senza macchiarsi a loro volta, ai disegni dei malvagi e degli empi.

Agostino sviluppa una serie di acute osservazioni psicologiche, come quando afferma che i membri della città terrena cercano la lode degli altri, comunque e a qualsiasi prezzo; mentre i buoni non cercano la lode del mondo, ma si sforzano di pensare, parlare e agire secondo giustizia, lasciandosi ispirare dalla grazia divina. Gli uni sono gonfi di presunzione e sono accecati dal sentimento della propria autosufficienza, anzi, ardiscono perfino farsi rivali di Dio e sfidarlo apertamente; gli altri sono umili e docili, perché non confidano in se stessi, ma solo e unicamente in Dio.

Il cuore della riflessione di Agostino è laddove egli individua la prima radice delle due città: rispettivamente l’amore di Dio e l’amore di sé da parte dell’uomo. L’uomo che vuol piacere a Dio non cerca niente per sé, si apre all’amore ed offre tutto se stesso; mentre l’uomo che cerca la lode altrui è pronto a usare qualsiasi mezzo per raggiungere i suoi fini, animato dall’orgoglio e disposto a commettere ogni sorta d’ingiustizia, pur di realizzarli. Gli uni sono naturalmente benevoli e operatori di pace, gli altri sono naturalmente malvagi e operatori di violenza, sopraffazione e iniquità. Gli uni pensano al bene comune, gli altri si preoccupano esclusivamente del proprio, identificandolo con gli idoli del piacere, del potere e del successo e quindi, in realtà, ingannandosi in maniera totale, perché il bene dell’uomo è seguire il richiamo celeste. Eppure codesti stolti si credono sapienti: e, ciechi, non vedono che stanno correndo verso la rovina.

Fra costoro si trovano, evidentemente, non solo quanti perseguono la cupidigia in termini personali, ma anche tutti quelli che agiscono «etsi Deus non daretur», come se Dio non ci fosse, e vorrebbero fare dell’uomo il Dio di se stesso, un Dio onnipotente e infallibile, un Dio che stabilisca da sé che cosa sia giusto e che cosa ingiusto, che cosa sia bene e che cosa male. Si tratta di un peccato intellettuale, e vi sono esposte specialmente le persone colte e intelligenti, le quali, inebriate dal sapere e dalle possibilità che si dischiudono mediante la ragione, dimenticano di essere creature, spiriti finiti, e manipolano la creazione di Dio come se ne fossero i padroni indiscussi. È qui che la superbia intellettuale diventa smania di potere materiale: non nel senso della ricerca di un potere delle cose (ad esempio, del denaro), ma sulle cose, quasi che l’uomo, appunto, fosse diventato Dio.

Agostino è molto chiaro e lineare nell’individuare la radice di questo atteggiamento nella libidine del dominio: e la storia successiva ci mostra che essa può manifestarsi non solo nell’ambito politico, ma anche in quello economico, scientifico, intellettuale. Egli è molto chiaro anche nel riconoscere che esiste una segreta o palese solidarietà fra i cittadini delle due città;  e che gli abitanti della città terrena, per quanto possano venire a contesa fra di loro, sono pur sempre affratellati da una sorta di patto scellerato: così come i buoni sono tutti figli di Dio, i malvagi sono tutti figli del Diavolo, sono suoi servitori e sciagurati operatori dei suoi tenebrosi disegni.

Si potrebbe dire che, così come esiste la comunione dei santi, esiste anche quella dei malvagi: è un pensiero inquietante, che apre scenari sconcertanti, ad esempio in riferimento a certe società segrete potenti e diffuse in tutto il mondo, animate da spirito radicalmente anticristiano, il cui scopo è il dominio totale sul mondo, mediante la distruzione della bontà, della giustizia, della misericordia, del timor di Dio. È impressionante pensare a quanti esseri umani, magari non del tutto consapevoli, si prestano ad un tale progetto e pongono la loro intelligenza e le loro capacità professionali al servizio della città diabolica: strumenti di una forza malvagia che li muove come burattini e che li farebbe morire di spavento, se essi potessero vederla quale è in realtà.

Secondo la mentalità moderna, tuttavia, che è sempre più materialista, edonista e secolarista, la contrapposizione delineata da Agostino fra le due città sarebbe troppo cupa, troppo pessimistica, e si presterebbe alla denigrazione del mondo e alla sfiducia dell’uomo in se stesso. Agostino, però, non condanna il mondo come tale, ma in quanto regno dell’uomo che spezza il legame col suo Creatore e vuole farsi Dio; e la contrapposizione fra le due città esiste, è un fatto: non una teoria…