Il jobs act è legge, approvato definitivamente dal Senato a inizio dicembre. Bene. O male, a seconda dei punti di vista. Sicuramente però qualcosa di intimamente negativo all’interno del decreto c’è: il nome. Sì, perché la vera rivoluzione di questo decreto è innanzitutto linguistica. La legge delega sul mercato del lavoro è forse il primo decreto votato dal Parlamento italiano con un titolo in una lingua straniera.

E questo, se vogliamo, la dice lunga sullo stato di salute del nostro (ex) Bel Paese. Il Paese che ha dato i natali alle “tre corone” della letteratura, Dante, Petrarca e Boccaccio, ai grandi autori del rinascimento, ai Verga, ai D’Annunzio che scrive le leggi in una lingua straniera. Orrore? Disgusto? Bestemmia? Per noi forse. Per Matteo Renzi, padre di quella legge, sicuramente no.

Eh sì, perché al “rottamatore” tutto si può imputare, ma non che non sappia comunicare. E lui quello sa farlo bene e sa quindi anche chi è il suo pubblico di riferimento, il suo elettorato reale e potenziale. Un pubblico per cui l’autore della Commedia non varrà mai quanto uno Steve Jobs e un libro di letteratura mai quanto un iPhone. E attenzione, qui non si sta generalizzando, non si sta dicendo che tutti gli italiani siano ignoranti. Anzi, è proprio quello il dramma. Non è nelle case popolari che circolano queste idee. No, questo è un mito che va sfatato. E’ tra i figli della borghesia colta delle grandi città che si diffonde il verbo anglofono. Il pensiero unico totalizzante del primato dell’inglese e della civiltà anglosassone sul resto del mondo.

E’ un’idea che valica i semplici confini linguistici per andare a costituire un’intera weltanschaung, una visione del mondo, che vuole, oltre all’utilizzo della lingua dei dominatori, anche il primato del quantitativo sul qualitativo, dei file in excel sui file di word, della tecnica sugli ideali. Il sociologo Georg Ritzer parlava di “Mcdonaldizzazione” della società. Eccola, è arrivata. La frenesia per cui tutto debba essere misurato, quantificato, monetizzato, tipica della cultura di marca angloamericana. Una cultura nata dalla fusione dell’illuminismo laicista e scientista di fine ‘700 e dell’idea protestante e calvinista del lavoro.

Di fronte a tutto questo “splendore” anglo-modernista, la lingua e la cultura italiana se ne vanno in soffitta, con buona pace dell’idealismo gentiliano. Un frutto, anche questo, dell’assenza di sovranità, che ha fatto sì che l’Italia sia divenuta in pochi anni un Paese culturalmente ed economicamente colonizzato e felice di esserlo. Un Paese orgoglioso di sedersi di fronte a Mtv sgranocchiando merendine (non diciamo snack per coerenza, ndr) fabbricate da qualche multinazionale, una nazione dove l’andarsene all’estero è divenuto motivo di vanto per i giovani e le loro borghesi famiglie. Un Paese totalmente dimentico del proprio glorioso passato e che ha perso tutto. Anche la lingua.