
L’imminente  probabile implementazione dell’accordo internazionale sul programma  nucleare dell’Iran sta incontrando una serie di ostacoli e imprevisti  che indicano il permanere di forti resistenze, soprattutto negli Stati  Uniti, al relativo riavvicinamento tra Washington e Teheran. Il più  recente episodio dai contorni significativi in questo senso si è chiuso  apparentemente mercoledì con la liberazione da parte dell’Iran di dieci  marinai americani che il giorno prima erano a bordo di due navi finite  nelle acque della Repubblica Islamica nel Golfo Persico.
Le due  imbarcazioni stavano navigando dal Kuwait al Bahrain quando, secondo i  vertici militari USA, almeno una di esse avrebbe avuto un guasto  meccanico che l’ha fatta finire fuori rotta. A come anche la seconda  nave sia entrata nelle acque territoriali iraniane non è stata data  spiegazione.
Martedì, i media ufficiali negli Stati Uniti hanno  riportato la vicenda dando ampio spazio ai tentativi dei militari e  dell’amministrazione Obama di minimizzare l’incidente. Il New York Times,  però, pur senza trarre conseguenze ha spiegato che “le acque  attraversate dalle due navi sono in un luogo nel quale gli USA, l’Iran e  molti paesi del Golfo [Persico] raccolgono spesso informazioni di  intelligence”.
Le imbarcazioni sono state sequestrate dalla  divisione navale delle Guardie della Rivoluzione (IRGC) e i membri  dell’equipaggio messi in stato di fermo sull’isola di Farsi, dove sorge  un’importante base militare iraniana.
Fonti del governo americano  avevano subito assicurato che i propri uomini sarebbero stati liberati  in tempi brevi e che i due paesi erano in costante contatto per  risolvere la mini-crisi. Lo stesso segretario di Stato, John Kerry,  avrebbe discusso telefonicamente della vicenda con il suo omologo,  Mohammad Javad Zarif, il quale, secondo la stampa iraniana, ha a sua  volta chiesto a Washington scuse formali.
Nella mattinata di  mercoledì, alcuni siti di news hanno riportato dichiarazioni di  esponenti dell’IRGC che lasciavano intendere possibili ritardi nella  liberazione dei marinai americani. Alla fine, questi ultimi sono potuti  invece tornare ai loro reparti, verosimilmente solo con qualche ora di  ritardo rispetto a quanto ipotizzato dai media negli Stati Uniti.
La  gestione della vicenda da parte iraniana suggerisce un possibile  conflitto tra i vari centri di potere della Repubblica Islamica, tanto  più che il comandante della marina dell’IRGC, ammiraglio Ali Fadavi,  aveva sostenuto che la portaerei americana Truman, localizzata nel Golfo  Persico, aveva “agito in maniera provocatoria e non professionale” dopo  il sequestro delle due navi. Lo stesso comandante ha tuttavia alla fine  confermato la versione del guasto tecnico per spiegare lo  sconfinamento.
La possibile provocazione americana potrebbe in  definitiva avere alimentato lo scontro interno all’Iran circa  l’atteggiamento da tenere nei confronti degli USA, con le Guardie della  Rivoluzione considerate su posizioni critiche verso l’intesa sul  nucleare, negoziata dal governo del presidente, Hassan Rouhani.
Se  delle eventuali spaccature interne alla Repubblica Ismanica se ne è  avuto soltanto il presentimento, la questione appena risolta nel Golfo  Persico ha invece messo ancora chiaramente in evidenza quelle che  caratterizzano la classe dirigente americana. Già lo stesso  sconfinamento non autorizzato nelle acque di un paese sovrano potrebbe  indicare un’iniziativa non coordinata con un’amministrazione Obama  pronta a iniziare il processo previsto dall’accordo sul nucleare  sottoscritto a Vienna lo scorso mese di luglio.
Soprattutto,  però, l’azione sostanzialmente legittima della marina iraniana ha  innescato una valanga di reazioni isteriche, quanto insensate, della  destra Repubblicana a Washington. Svariati candidati alla presidenza e i  soliti “falchi” del Congresso hanno tuonato contro la Casa Bianca,  mettendo in guardia Obama dal trattare la liberazione dei marinai, che  avrebbe dovuto essere immediata e senza condizioni, o dall’esibire  nuovamente debolezza di fronte all’Iran.
Praticamente  nessun giornale “mainstream” americano ha fatto notare come, in  presenza dell’ammissione della violazione delle acque territoriali  iraniane da parte dei vertici militari USA, la responsabilità  dell’accaduto è da attribuire interamente alla marina statunitense che,  oltretutto, da tempo mantiene una presenza minacciosa al largo delle  acque della Repubblica Islamica.
La destra Repubblicana  rappresenta d’altra parte quelle sezioni dell’apparato di potere negli  Stati Uniti che vedono con estrema diffidenza la distensione con l’Iran.  Ogni passo in questo senso, secondo loro, rappresenta una deviazione  inaccettabile dall’obiettivo di sottomettere Teheran senza condizioni  alle necessità strategiche americane, anche per non mettere a  repentaglio le relazioni con alleati già abbastanza irritati, come  Arabia Saudita e Israele.
Proprio queste frange, riferibili alla  galassia “neo-con”, sono dietro ad altre iniziative e dichiarazioni che  hanno animato il fronte anti-Iraniano di Washington nell’ultimo periodo.  Il tempismo di simili interventi è tale da coincidere con la delicata  fase che dovrebbe segnare l’entrata in vigore dei termini dell’accordo  sul nucleare.
Proprio a inizio settimana, ad esempio, l’Iran  avrebbe pressoché ultimato la disattivazione del reattore installato nel  controverso impianto nucleare di Arak, come previsto appunto  dall’intesa. In precedenza, più di 11 tonnellate di uranio a basso  arricchimento in possesso della Repubblica Islamica erano state inviate  in Russia.
Se l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica  (AIEA) certificherà, come dovrebbe fare già nei prossimi giorni, il  rispetto da parte iraniana degli obblighi iniziali previsti  dall’accordo, avrà inizio la fase dell’allentamento delle sanzioni  economiche internazionali che gravano da anni su Teheran.
In  molti, dagli Stati Uniti a Israele alle monarchie del Golfo Persico,  intendono però cercare di sabotare l’accordo. Se a Tel Aviv i toni  anti-iraniani sembrano essersi relativamente attenuati, quanto meno a  livello pubblico, il regime saudita è nel pieno di una campagna  provocatoria per far naufragare il processo di distensione, come ha  dimostrato tra l’altro l’esecuzione del religioso sciita Nimr al-Nimr a  inizio anno.
A Washington, invece, gli oppositori  dell’amministrazione Obama sul fronte iraniano stanno provando ad  attuare un nuovo pacchetto di sanzioni, nella speranza di provocare la  reazione di Teheran e spingere la Repubblica Islamica ad abbandonare  l’accordo.
Al Congresso, sia i Repubblicani sia una buona parte  dei Democratici sono decisi a votare un pacchetto di misure punitive in  risposta al recente test con missili balistici condotto dall’Iran.  Deputati e senatori si sono inoltre lamentati con la Casa Bianca,  colpevole a loro dire di voler ritardare o impedire del tutto l’adozione  delle sanzioni per il timore di far saltare l’accordo sul nucleare.
In  realtà, lo stesso dipartimento del Tesoro USA sembrava essere sul punto  di mettere sulla lista nera altre compagnie e cittadini privati  iraniani per i loro legami con il programma di missili balistici, ma il  Dipartimento di Stato sarebbe in seguito intervenuto per eliminare ogni  ostacolo all’entrata in vigore dell’accordo di Vienna. Quest’ultimo, in  ogni caso, non fa alcun riferimento alla questione dei missili balistici  dell’Iran.
Se, dunque, l’annosa disputa sul programma nucleare  di Teheran appare sempre più vicina a imboccare l’inizio del percorso  che dovrebbe teoricamente portare alla sua pacifica soluzione, gli  ostacoli che restano sono ancora numerosi.
Inoltre, anche se  l’amministrazione Obama e i suoi partner che hanno negoziato l’intesa a  Vienna sembrano decisi a seguire per il momento la strada della  diplomazia, il conseguente reintegro a tutti gli effetti dell’Iran nei  meccanismi strategici ed economici internazionali non sarà privo di  complicazioni, vista la persistente divergenza di interessi in Medio  Oriente e su scala globale dei (quasi) ex rivali di Washington e  Teheran.

