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Davide Sapienza scrittoresploratore

di Andrea Sciffo - 25/01/2016

Fonte: Arianna editrice


 

Ritornare bambini o restare bambini sono la stessa cosa: è la più grande fortuna che possa capitare a una persona, nella vita. Qualunque cosa noi si voglia pensare dell’innocenza infantile e della sua irruenza, persino per i cinici e per quelli che barano, il ricordo o anche solo le memorie di quello che siamo stati da piccoli, quello che saremmo potuti essere diventa nel corso dell’esistenza una colonna sonora di suoni, profumi, colori che hanno un fascino straziante. Tra l’altro, mentre li ricordiamo contribuiamo a dimenticarli perché riportarli ogni volta a galla dal fondo alla superficie contribuisce a consumarli un po’. Per questo, il vero desiderio inconscio che preme dentro ogni nostra richiesta consapevole è di ritrovare quel candore, per non perderlo più: e forse, questo è il compito della vita singola.

Davide Sapienza (Monza, 1963) è un autore che sta svolgendo questo compito da sempre, cioè da quando è venuto al mondo ma anche da prima (se la parola “specie” non è soltanto un trucco per far finta di credere nella Scienza!) e continuerà a svolgere il compito anche dopo, in altre forme (se il termine “presente” non è soltanto una sillaba da ripetere all’insegnante che fa l’appello ma è il participio presente di un verbo che nella lingua italiana non esiste più…).

I movimenti della sua azione creativa sono molteplici, prima e dopo il suo trasferimento, un quarto di secolo fa, alle pendici della Presolana (Val Seriana, Bg) anche se tutto sembra polarizzarsi verso un campo magnetico: per prima cosa, come ciascun cucciolo della nostra specie, ha dovuto imparare a camminare. Questo atto complesso che apprendiamo a pochi mesi ci fa fare un salto di qualità anche nelle abilità di parlare: difatti, quando un bambino impara a camminare, sviluppa in contemporanea anche nuove facoltà del linguaggio. Sul piano compositivo, però, Sapienza ha imparato a camminare anche da grande, almeno dal tempo dei Diari di Rubha Hunish (2004[1]; oggi Feltrinelli Zoom in formato kindle) in poi, e così si è messo anche lui a piedi al seguito della carovana invisibile dei pochi autori che in Occidente seppero camminare-pensare (mi riferisco ai “peripatetici” di Aristotele, a Dante Alighieri e a Goethe, sino a Hermann Hesse) e soprattutto si è inserito nella compagnia degli scrittori che sanno camminare-interrompendo-il-pensiero-in-viaggio (da Walt Whitman a H.D.Thoreau, al pensiero Nativo accostato tramite Lance Henson e John Trudell, ai contemporanei appartenenti alla galassia della Wilderness). Avendo imparato a camminare dopo i fatidici 35 anni, ha quindi sviluppato un ulteriore linguaggio, che è precluso agli autori fermi (i cosiddetti stanziali ovvero i sedentari: cioè gli umanisti ovvero gli scientisti, i quali considerano la conoscenza come un possesso e dunque, quando possiedono la chiave, chiudono la porta per non concedere l’accesso agli altri); in secondo luogo, la sua nuova lingua può sembrare straniera ai lettori ancora intossicati da un’idea di letteratura come sfoggio di sapere o presa di potere (ricordo che sulla metaforica pietra tombale del pensiero moderno europeo il filosofo inglese Bacone scrisse: “sapere è potere”).

Niente di tutto questo. Qui è tutto “open source” come in natura, dove le sorgenti d’acqua sono sempre disponibili e vergini per chi ha sete, per chi sa come bere, per chi non inquina le fonti. Le parole sono “commons”, non hanno copyright né confini e le visioni sono dei Traditional come nella musica quando un autore li prende e li arrangia: così i libri di Davide Sapienza collegano il passato al futuro. Siamo infatti al cospetto di un’opera omnia ancora in fieri ma già ben definibile nella sua sagoma: prose naturali, romanzi brevi, narrazioni, interventi giornalistici, poesia e traduzioni. Da quasi 35 anni la penna di Sapienza s’intinge e lascia una traccia sul biancore della pagina come gli “ski” sul corpo etereo della neve[2].

E qui si nota il secondo passo del movimento della scrittura di Davide Sapienza: Camminando[3] il suo continuo tendere verso Nord, vale a dire il suo dirigersi verso il bianco. Ecco che torno a parlare del candore di cui ho detto all’inizio: la bianchezza delle nevi eterne del Continente Artico (anche immaginario, non semplicemente geografico) corrisponde agli ALBA PRATALIA dell’indovinello veronese che sta all’origine della letteratura italiana; nel VIII-IX secolo dopo Cristo, un anonimo descrisse se stesso, a margine della pergamena di un codice, con la metafora dell’amanuense che scorre sulla pagina con l’inchiostro come l’aratro che il contadino conduce sui campi, seminando. È un fenomeno simile, evidente nei due libri scritti e pubblicati “a mano” in corsivo, in pieno XXI secolo, assieme al fotografo Aschedamini: TREMILACHILOMETRI A MANO[4] e OROVIE[5]. Due opere nelle quali la calligrafia e l’immagine-miniatura acclusa al testo si amalgamano e ci introducono a un nuovo medioevo venturo, che spezza le gabbie e i menabò di un’epoca, quella attuale, definita bene da quella lirica di U2 che dice «No line on the horizon». Qui, invece, si intravedono sia le linee che l’orizzonte, entrambi avvolti in un enigma chiamato OGNIDOVE[6] che nessuno può arrogarsi di decifrare.

Resta un ultima cosa da definire: la collocazione di questi testi. Non tanto nel loro genere o tipologia, dato che stiamo attraversando un’epoca fluida di transizione; bisogna dire della loro direzione e della loro dinamica. Io ritengo che questa opera scritta stia agendo su due livelli distinti ma paralleli, come i due circoli polari che ruotano assieme alla Terra: in letteratura, la scrittura di Sapienza ha cominciato laddove Luigi Pirandello (un altro siciliano formatosi lontano da casa e poi vissuto altrove rispetto al luogo di nascita) aveva interrotto l’opera:

«la qualità fondamentale dello scrittore è il CANDORE. La prima qualità delle anime candide è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri… Luigi Pirandello si affacciò anima candida alla vita e alla intelligenza delle cose, in uno dei tempi meno candidi che si possono immaginare… Quel tempo, con gli anni che lo seguirono fino alla guerra d’Europa, segna la fine del mondo romantico, nato diciannove secoli prima [...] Di qua dal mondo che Pirandello ha denudato, la compagine umana non può trovare che la distruzione totale o il ricominciamento. Ricominciare, dai primi elementi. Ma ricominciare carichi delle esperienze assorbite e dimenticate[7]».

E per la precisione, la narrazione riprende il filo lasciato in sospeso dopo l’ultima parola dell’ultimo capitolo di “Uno, nessuno e centomila” (1926), guarda caso intitolato Non conclude.

In filosofia, al secondo livello parallelo, questi libri e gli altri contributi agiscono come un solvente contro l’antropizzazione selvaggia del pianeta: danno voce ai muti, come nella esaltazione che Sapienza fa (assieme a Cormac Cullinan) dei “Diritti della natura”[8], e riabilitano gli esclusi come Jack London[9]. È un’operazione teoretica anti-cartesiana cioè che mira a liberare l’umano dalla gabbia dualistica delle “ordinate e delle ascisse” e dal pensiero separato dalla materia: qui appare, secondo me, il sorriso dell’ultimo genio della civiltà moderna, Leibniz. Con quello stesso ampio respiro, anche le parole scritte di Davide Sapienza esplorano il mondo e le sue armonie prestabilite, lottano contro qualunque “status quo”, percepiscono nettamente con il senso e con l’immaginazione che il qui e l’ora sono il migliore dei mondi possibili.


 

Monza, 20 gennaio 2016



[1] L’itinerario ha una prima tappa conclusiva con la raccolta CAMMINANDO (2014).

[2] Davide Sapienza, La musica della neve (Ediciclo, 2011)

[3] Davide Sapienza, Camminando (Lubrina editore, 2014)

[4] Lubrina editore, 2011

[5] Litografia Solari, 2008

[6] Davide Sapienza, La valle di Ognidove (Vivalda, 2007)

[7] Massimo Bontempelli, “Commemorazione” Pronunciata il 17 gennaio 1937.

[8] Davide Sapienza-Franco Michieli, Scrivere la natura (Zanichelli, 2012)

[9] Jack London, Il vagabondo delle stelle (Feltrinelli, 2015)