La classe  dirigente del pianeta si appresta da mercoledì a partecipare al consueto  Forum Economico Mondiale di Davos in un clima internazionale mai così  cupo e minaccioso dalla presunta fine della crisi globale del 2008. Ad  anticipare l’arrivo delle élite politiche ed economiche nell’esclusiva  località alpina svizzera è stata come al solito la pubblicazione del  rapporto Oxfam sulle disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze,  giunte ormai a livelli più che insostenibili.
Secondo lo studio  della no-profit britannica, appena 62 individui, dei quali molti  presenti a Davos, nel 2015 sono giunti a detenere ricchezze pari a  quelle che è costretta a spartirsi metà della popolazione terrestre,  ovvero più di 3,5 miliardi di persone. Questo livello di ricchezza era  concentrato nelle mani di 338 persone soltanto cinque anni fa.
La  barzelletta dell’impegno dei potenti riuniti in Svizzera per mettere un  freno alle disparità economiche mondiali - ripetuta costantemente alla  vigilia del summit - è smascherata appunto dal fatto che la  polarizzazione delle ricchezze è aumentata in maniera rapida negli  ultimi anni. Ad esempio, la ricchezza a disposizione dei 62 uomini o  donne più ricchi del pianeta è salita del 44% dal 2010, mentre quella  nelle mani della metà più povera del pianeta è crollata del 41%.
Le  caratteristiche tutt’altro che inevitabili di questi processi sono  confermate, tra l’altro, da uno studio dell’università di Berkeley  citato da Oxfam, secondo il quale singoli e aziende custodiscono 7.600  miliardi di dollari in paradisi fiscali “offshore”. Anche ammettendo la  legittimità di queste ricchezze, la sottrazione di esse ai rispettivi  sistemi fiscali priva ogni anno i vari governi di qualcosa come 190  miliardi di dollari di entrate e, quindi, di risorse teoricamente  indirizzabili verso programmi sociali di vitale importanza.
Da  questo scenario, prodotto direttamente dalla crisi del capitalismo  globale, derivano una serie di questioni e di crisi che saranno con ogni  probabilità al centro degli incontri di Davos, al di là dell’argomento  ufficiale del vertice, ovvero la “Quarta Rivoluzione Industriale”.
Dagli  effetti del rallentamento della crescita dell’economia cinese alla  disoccupazione, dal crollo del prezzo delle risorse energetiche al  rischio esplosione di una nuova bolla finanziaria, dall’aumento delle  tensioni sociali al moltiplicarsi delle agitazioni dei lavoratori in  tutto il mondo, i motivi per tenere in apprensione i convenuti nel  “resort” elvetico sono molteplici.
I fattori che hanno permesso a  pochi individui di arricchirsi ed entrare oppure guadagnare posizioni  nel club dei miliardari a partire dal 2008 sono in definitiva gli stessi  che hanno determinato la mancata ripresa dell’economia reale o, per  meglio dire, che hanno gettato le fondamenta per l’esplosione di una  nuova crisi globale.
Ciò a cui si è assistito è stata piuttosto  una continua concentrazione delle ricchezze verso il vertice della  piramide sociale, oltretutto a un ritmo più sostenuto del previsto. La  stessa Oxfam dodici mesi fa si aspettava che l’1% della popolazione  mondiale giungesse a controllare ricchezze maggiori del rimanente 99%  solo nel 2016, mentre ciò è accaduto già nel corso dell’anno da poco  concluso.
Un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto,  quello che continua a essere registrato, che è inestricabilmente legato  alle politiche messe in atto dai governi di tutto il mondo, fatte di  austerity, smantellamento dei diritti dei lavoratori e implementazione  di misure da stato di polizia per il controllo e la repressione del  dissenso.
L’altra faccia della stessa medaglia che ha favorito  questa evoluzione è rappresentata dalle iniziative delle grandi aziende,  restie a investire ma impegnate a tagliare costi e personale,  progettare fusioni e acquisizioni, riacquistare proprie azioni ed  erogare dividendi agli azionisti. Il tutto con il sostegno delle  politiche delle banche centrali che hanno messo a disposizione o, nel  caso dell’Europa, continuano a mettere a disposizione quantità infinite  di denaro virtualmente senza alcun costo.
I  fatti di questi ultimi sette anni hanno aperto gli occhi a centinaia di  milioni di persone in tutto il mondo circa i meccanismi e le regole del  capitalismo internazionale e delle “democrazie” liberali. Per questa  ragione, le illusorie esortazioni di organizzazioni come Oxfam,  indirizzate ai leader politici e del business globale per adoperarsi a  inveritre la rotta in merito alle disuguaglianze, suonano del tutto  vuote, se non come una vera e propria beffa, dal momento che sono  precisamente questi ultimi i responsabili di quanto viene denunciato.
In  una dichiarazione che ha accompagnato il già citato rapporto, il  direttore esecutivo di Oxfam, Winnie Byanima, ha affermato assurdamente  che “le preoccupazioni dei leader mondiali per le crescenti  disuguaglianze non si sono per ora tradotte in azioni concrete”.
Tralasciando  qualsiasi considerazione sul grado di auto-illusione delle parole della  numero uno di Oxfam, azioni concrete in questo senso non sono giunte  proprio perché le “preoccupazioni” dei governi un po’ ovunque sono in  realtà diametralmente opposte. Iniziative più che efficaci sono state in  realtà messe in atto, ma per un obiettivo contrario, ovvero la  salvaguardia dei livelli di profitto degli strati più ricchi della  popolazione.
La ragione dell’esplosione delle disuguaglianze e  del peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, secondo le  classi dirigenti di tutto il mondo, sarebbe da collegare principalmente,  come suggerisce lo stesso argomento scelto per il forum di Davos di  quest’anno, ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel nuovo secolo.
A  spiegare questa interpretazione artificiosa è stato settimana scorsa  anche il presidente americano Obama nel corso del suo ultimo discorso  sullo stato dell’Unione a Washington. Obama ha definito questi  cambiamenti come portatori di “opportunità” ma anche la causa  dell’aumento delle disuguaglianze.
Come se fossimo davanti a un  fenomeno impersonale e inarrestabile, il presidente USA ha poi ricordato  che le “aziende, in un’economia globalizzata, devono far fronte a una  concorrenza spietata e possono delocalizzare ovunque”, così che “i  lavoratori hanno meno potere” per far valere i propri diritti e  negoziare adeguamenti di stipendio. Le aziende, allora, “sono meno  vincolate alle comunità” in cui operano e, in definitiva, l’intero  processo fa sì che “sempre maggiore ricchezza e redditi siano  concentrati verso l’alto”.
Ben  lontana dall’essere una dinamica di questo genere, la concentrazione  delle ricchezze nelle mani di pochi e l’impoverimento di massa di  centinaia di milioni (se non miliardi) di persone è la conseguenza di  politiche deliberate e del funzionamento di un sistema economico in  stato di avanzato deterioramento, in grado soltanto di produrre  devastazione sociale, crisi internazionali e conflitti rovinosi.
Di  fronte a problematiche di questa portata, la funzione di summit come  quello al via da mercoledì a Davos sembra essere dunque quella di  consentire ai governi e ai miliardari che li controllano di preparare  risposte - improntate rigorosamente a politiche di classe - alla nuova  imminente crisi del sistema, in modo da farla gravare ancora una volta  sulle spalle di coloro che ne hanno pagato il prezzo più caro in questi  ultimi durissimi anni.

