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L’ideologia del «lavoro per il lavoro» come male moderno

di Giovanni Balducci - 25/01/2016

Fonte: Centro Studi La Runa


industrial-revolutionSempre più di frequente si sente da più parti esaltare il lavoro, qualunque esso sia ed in qualsiasi modo lo si compia, quasi a voler fare di esso, avulso da un ordine di cause superiori, un valore a sé; il lavoro è infatti il soggetto di innumerevoli declamazioni, tanto ampollose quanto vuote, come quella contenuta nell’articolo primo della Costituzione italiana che addirittura fonda lo stesso ordinamento repubblicano su di esso. È facile capire come quest’ordine d’idee sia in rapporto diretto con l’esagerata necessità d’azione che caratterizza gli occidentali moderni. È a Voltaire, uno dei filosofi che più ha influito sullo stato di cose presenti dell’Occidente, che si deve questa massima: «Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio, il bisogno».

Il lavoro come inteso dai moderni, per la verità, non essendovi in una società strutturata sulla mera materialità alcun valore superiore, funge da vero “oppio dei popoli”: in primo luogo permette di tener soggiogate le masse mediante la meccanicizzazione delle attività produttive, che non richiedono più un ente pensante per essere svolte, come fu per le arti medievali, ma utili ingranaggi, meri automi inseriti in catene di montaggio; in secondo luogo determina la sussistenza di una classe dirigente, che in barba ad ogni valore, schiavizza le classi subalterne non solo sfruttandole secondo modalità di lavoro che violano la dignità umana, ma soprattutto con il ricatto del licenziamento o della non assunzione.

È in questa classe dirigente viziata e parassitaria che prende forma l’ètat d’expirit della nostra epoca, di cui l’altro tratto distintivo è un malcelato cupio dissolvi nichilistico, dettato proprio da quella noia che tutto avvolge quando l’uomo moderno per un attimo cessa i ritmi frenetici che gli sono congeniali. Infatti, se nelle società tradizionali vi furono esempi di otium e di alta contemplazione, in virtù della viva credenza in un Principio superiore, nel nostro mondo che nulla sa di ciò che è oltre l’asfittica cortina di fumo che gli è posta innanzi, spesso e volentieri chi per un motivo o per l’altro si ritrova ad avere l’opportunità di un periodo di ozio e di quiete, vive questa esperienza preso dall’angoscia e da un parossistico senso di vuoto interiore, non sapendo stare solo con sé stesso.

ciminiereC’è da dire inoltre che contrariamente a quanto pensi l’uomo moderno, un lavoro qualsiasi, che chiunque indistintamente può compiere per mera necessità o ai fini di un’”ascesa sociale”, non dev’essere affatto oggetto di esaltazione, ma è anzi da considerarsi agli antipodi di ciò che il lavoro in senso tradizionale, dunque normale, richiederebbe. È insegnamento della Chiesa che il lavoro debba corrispondere ad una reale vocazione e soddisfare le necessità del proprio stato, ai fini di un perfezionamento della persona e di un compimento di vita. Simili prìncipi animano la dottrina orientale dello svadharma, su cui si basa l’istituzione delle caste tradizionali indiane, incentrata sulla ricerca della trascendenza nell’azione stessa, e non nella sua negazione (come, invece, avviene nell’ascesi contemplativa), il lavoro essendo inteso come progressiva purificazione e aderenza al Dharma (la Legge universale) attraverso le proprie azioni, dalle più piccole e quotidiane a quelle più importanti e decisive, purché l’azione sia compiuta con distacco, perseguendo il proprio dovere e non provando desiderio o avversione verso i frutti delle proprie azioni, in accettazione del proprio ruolo e al servizio dell’universo e della Divinità. Allo stesso ordine d’idee è da far corrispondere l’asserzione di Aristotele circa l’esecuzione da parte di ciascun essere del suo «atto proprio», esplicantesi nell’esercizio di un’attività conforme alla propria natura.

Uno dei miti più duraturi propagandati dal sistema capitalistico è quello secondo il quale rispetto al passato avrebbe ridotto i tempi lavorativi ed elargito ricchezza un po’ a tutti senza quasi nulla richiedere in cambio. Ciò è generalmente fatto credere contrapponendo la moderna settimana lavorativa di quaranta ore con la sua omologa di settanta o ottanta ore del XIX secolo, dimenticando che il secolo XIX rappresentò proprio l’epoca del sorgere dell’industrialismo e del capitalismo. Sono questi i “tempi difficili”, gli Hard Times che avrà a ritrarre Charles Dickens, e contro cui Carlyle polemizzerà dicendo – scagliandosi nella fattispecie contro l’utilitarismo manchesteriano: «non è che la città di Manchester sia divenuta più ricca, è che sono diventati più ricchi alcuni degli individui meno simpatici della città di Manchester».

Prima dell’avvento del sistema capitalista i ritmi lavorativi basati su una forma di economia di sussistenza erano infatti molto blandi. Certo, ricchezza e beni di lusso non erano diffusi come al giorno d’oggi, ma vi era abbondanza di tempo libero, del resto il calendario medievale era costellato di festività sacre e ricorrenze coincidenti sovente con le grandi date astronomiche: solstizio d’inverno e Natale, equinozio di primavera e Pasqua, solstizio d’estate e San Giovanni Battista, la cui incidenza agiva direttamente sulle attività rurali. L’idea contemporanea «profana» del lavoro basata su ritmi frenetici di produzione ha origine solo con il capitalismo manifatturiero di fine secolo XVIII.

È noto come in Giappone, sino almeno dal Periodo Yamato, i metodi di forgiatura delle spade, propri di ciascun fabbro, fossero gelosamente vincolati al segreto, e la forgiatura ritenuta rito sacro; non a caso il forgiatore indossava i paramenti sacri del sacerdote dello Shintò. A chi fosse già avvezzo al mondo della Tradizione tale atteggiamento non sembrerebbe inusuale, tenendo presente il fatto che in ogni società tradizionale, sia orientale che occidentale, ogni arte e mestiere fossero protetti dal segreto iniziatico e considerati sacri, in quanto inseriti in un contesto armonico di compartecipazione alla natura dell’Essere.

La tradizione indù insegna come dapprincipio vi fosse una sola casta, chiamata Hamsa (su questo punto c’è concordanza anche con quanto afferma il taoismo circa i cosiddetti Uomini Veri (tchenn-jen)); ciò significa che tutti gli uomini possedevano allora normalmente e spontaneamente il grado spirituale che è designato con questo nome, e che è al di là della distinzione delle quattro caste, la cui istituzione si rese necessaria in virtù della decadenza cui andò soggetta l’umanità. In seguito vi fu una differenziazione ed il discrimine tra gli uomini divenne il possesso della conoscenza, ancor prima che venisse presa in considerazione la nascita e la parentela; alla base dell’istituzione delle caste indiane vi è dunque la dottrina dei tre gua (lett. «filo» (all’interno di un tessuto), col significato di «qualità») del sistema Sāṅkhya, secondo cui la natura naturante (Prakti) sarebbe costituita da tre componenti: sattvarajastamas, corrispondenti agli elementi fondamentali dell’Alchimia occidentale: sale, zolfo e mercurio. Tamas, indicherebbe il torpore, l’ignoranza, l’indolenza, e ad esso sarebbe connesso il colore nero; rajas: l’attività, il desiderio, l’eroismo, connesso al colore rosso; sattva, la virtuosità, la purezza, la luminosità, la saggezza, connesso al colore bianco. Queste tre componenti caratterizzerebbero la natura umana, per cui, gli uomini in cui prevarrà tamas sono destinati alle caste inferiori, gli uomini in cui prevarrà rajas alla casta dei nobili o dei guerrieri, e gli uomini in cui prevarrà sattva faranno parte della casta dei brahmani1.

Nelle antiche società umane, il lavoro per l’uomo corrispose infatti ad una «vocazione» nel senso più proprio del termine, tale da fare apparire il profitto materiale che pur lecitamente poteva derivarne, come un fine del tutto secondario e accidentale allo scopo primario, l’imitazione da parte dell’artigiano umano dell’opera dell’Artigiano divino e la prosecuzione della sua opera creatrice. La nostra epoca invece, risolve tutto ricorrendo ad un meccanico raziocinio regolatore, che ha fatto dell’economia una vera e propria religione laica. Ma l’economia è il problema, non di certo la soluzione: fin quando si permane in ambito economico per l’uomo non ci sarà vero progresso, giacché si permane nell’arido terreno della reificazione, della mercificazione, e della prostituzione della propria più intima natura nei postriboli governati da un’unica legge, quella della domanda e dell’offerta.

È fondamentale, pertanto, la liberazione della società umana dalla dimensione universale ed unilaterale economicista, mettendo in evidenza come il modello economico dominante fino ad ora, quello della crescita infinita, vada assolutamente abbandonato, non foss’altro per la finitezza delle risorse naturali. Al paradigma della crescita infinita, andrebbe contrapposto un nuovo paradigma di civiltà, più socialmente equo e più rispettoso della Natura, non riducibile, peraltro, ad un vago ed estemporaneo sentimento ambientalista, quanto ad un profondo sentire mistico e cosmico che un uomo legato alla Tradizione dovrebbe avere, riconoscendosi parte di un Tutto armonico governato da leggi eterne quale è la Creazione.

Bisogna riconoscere, innanzitutto, come la società industrializzata e dei consumi, autoproclamatasi come non plus ultradella civiltà, e come stato normale delle cose, rappresenti in realtà un monstrum senza eguali nella storia umana che ci è dato conoscere, con tutto il suo corollario di miti di cartapesta, riconducibili agli stati più deteriori dell’esperienza umana. Società industrializzata e dei consumi che in un delirio di onnipotenza, in ossequio ai canoni della produzione di massa, avendo abbreviato drasticamente la durata delle cose, minaccia di coinvolgere gli stessi uomini nel medesimo vortice di repentina quanto insensata liquidazione.

Ciò non può non condurci a pensare che per risanare la società sia oggi più che mai necessario prendere le mosse da una visione del mondo che vada oltre le superstizioni dei moderni: economicismo, razionalismo, scientismo, non essendovi cifra, calcolo, o residuale che possano giustificare l’inautenticità e l’insensatezza dell’odierna società disorganica e atomizzata.

Note

(1) Una ripartizione di carattere sapienziale è presente anche nel pensiero gnostico, (ma anche in quello più propriamente cristiano-cattolico in Origene ed in Clemente Alessandrino) il quale distingue gli uomini in ilici (più legati alla materia), psichici (esseri passionali) e pneumatici (esseri dotati di una dimensione noetica). Anche l’insegnamento sui talenti dello stesso Gesù è ascrivibile a quest’ordine di idee.