In base a cosa si dovrebbe scegliere quale tipo di sistema elettorale (proporzionale, maggioritario, misto, etc.) convenga ad una repubblica democratica, in una determinata situazione storica? Diciamolo subito: non esiste un sistema elettorale migliore “in assoluto”, da preferirsi in astratto agli altri: ciascuno presenta dei vantaggi, ognuno degli inconvenienti, ben noti a tutti e su cui, periodicamente, si torna a riflettere quando come oggi, c’è bisogno di una legge elettorale. Cerchiamo di fornire qui qualche banale riflessione, sperando posso essere utile ai lettori, mentre tutti i giornaloni stanno dietro a Matteo che sfoglia il Mattarellum sì, Mattarellum no, con l’altro Matteo che c’è cascato come un pirla, direbbe Bossi, e per fortuna che Silvio (di nuovo) c’è, perché altrimenti sarebbero stati cazzi amari per tutti. Ma non ci interessa ora la cronaca politica. Una classe politica che non è in grado di fare in dieci anni una legge elettorale compatibile con la costituzione e che salva le banche in dieci minuti merita solo il disprezzo. Lo so, agli italiani al solo sentire parlare di nuovo di legge elettorale viene inevitabilmente il vomito cerebrale. Mi scuso, quindi, ma trattenete almeno cinque minuti i conati e leggete questo pezzo, come sempre controcorrente. E leggetelo sino in fondo.

Il “proporzionale”, si tende a dire, assicurerebbe una maggiore rappresentatività, “fotografando” gli effettivi rapporti di forza tra i partiti all’interno del “Paese reale”; il “maggioritario”, invece, garantirebbe governabilità, con il suo meccanismo “proiettivo” in grado di produrre maggioranze parlamentari stabili. Si può anche optare per un modello misto o per un proporzionale con premio di maggioranza, soglie di sbarramento, e così via. Questa la teoria contenuta in tutti i manuali di diritto costituzionale. E la pratica? Vogliamo, ecco, parlarvi proprio di questa, di come le cose sono andate nel nostro Paese.

La pratica dice cose molto diverse. Dice che gli effetti realizzati dal sistema elettorale di volta in volta scelto dipendono, più che dalla legge elettorale in se stessa considerata, dalla situazione politica alla quale quel sistema viene applicato. Il proporzionale ha fatto la storia della prima Repubblica. Era stato voluto per assicurare che la “rappresentanza” in Parlamento delle forze politiche corrispondesse perfettamente ai loro reali rapporti di forza, per fare dell’Assemblea una “carta geografica” – come disse nel 1952 Togliatti citando Mirabeau – che riproduca gli ambienti sociali del Paese. Il principio era chiaro: «noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. […]. Qualora il principio venga abbandonato è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce». La motivazione politica di Togliatti era evidente: evitare a tutti i costi il “maggioritario” per non assicurare alla DC un “premio” di maggioranza che le avrebbe permesso di governare da sola. Fin qui, però, siamo ancora nella teoria. Nella pratica, il sistema proporzionale ha assicurato – per tutta la prima Repubblica – proprio la governabilità, più che la rappresentanza.

Sembra una tesi assurda e provocatoria: provocatoria certamente, ma per niente assurda. La conventio ad excludendum – ossia un meccanismo politico affiancato alla “meccanica” della legge elettorale – permise a priori di evitare che il Partito comunista, quale che fosse stato il suo risultato elettorale, potesse aspirare al governo del Paese. I missini, dall’altro canto restavo al di fuori dell’ “arco costituzionale”. Avrebbe comunque governato la Dc e il Partito comunista sapeva perfettamente come stavano le cose. “Rappresentanza”, mah? a noi sembra “governabilità”. Si possono citare tutti i “governi balnerari” che si vogliono, si possono ricordare tutti i cambi di Governo che si sono avuti, ma ciò non ha nulla a che vedere con la “debolezza” degli Esecutivi: sempre la DC ha governato, sia pure anche in una seconda fase, con altri partiti, ma sempre con le stesse persone, con una stessa classe dirigente, per cinquant’anni (e ora quella classe dirigente ce la sogniamo…). L’ “immobilismo” – se c’è stato – non è dipeso da una debolezza parlamentare della DC, ma da ragioni interne alla sua politica.

Si dice spesso che dalla scelta della legge elettorale dipendano tutta una serie di effetti sui rapporti politici. A volte è vero, a volte no. Con la prima Repubblica, la legge elettorale non ha affatto influito sugli equilibri politici; è avvenuto, piuttosto, il contrario. Sono stati, cioè, i rapporti politici – già definitisi nel 1944-1945 – a “modellare” il proporzionale in modo tale che esso assicurasse la governabilità alla Democrazia Cristiana senza pregiudicare la posizione di forza del PCI come partito di opposizione.

E poi, cosa è accaduto? Con l’avvento della seconda Repubblica e il passaggio al “maggioritario”, la retorica della “governabilità” ci ha convinti tutti che, dopo l’immobilismo del passato, finalmente avremmo avuto Governi stabili e di legislatura, un sistema politico bipolare e moderno, con due coalizioni che si sarebbero alternate al potere. La “rappresentanza” era di secondaria importanza: il “maggioritario” avrebbe dovuto invece “creare”, con i suoi effetti “selettivi”, un Governo forte ed un bipolarismo perfetto. È andata così? Molti ancora lo sostengono, ma è una balla. È infatti accaduto esattamente il contrario. Vogliamo di nuovo solo provocare? Riflettete. Dietro l’apparente alternanza tra Centro-destra e Centro-sinistra, i Governi hanno cominciato a “cadere” per effetto di minoranze interne alla coalizione: Berlusconi con Bossi, Prodi con Bertinotti, con la necessità di ricorrere a “governi tecnici” (Amato, Dini, Ciampi, Monti) che ci hanno fatto rimpiangere quelli balneari. “Governabilità”? Mah. Quanto alla ridotta “rappresentatività” rispetto al proporzionale, ciò non ha impedito che, dal 1994 ad oggi siano nati, abbiano vissuto e siano poi morti, e in qualche caso persino risorti, circa 100 nuovi partiti (dal CCD all’ UDC, dalla Federazione dei Verbi alla Rinascita socialista, da Alleanza Nazionale ai Comunisti unitari, dal Patto Segni all’Italia dei Valori, dalla Rosa nel Pugno ai Fratelli d’Italia, per non parlare del PSI – PDS – DS – PD, Ulivo, Margherita etc. etc.). Anche in questo caso, la lezione da trarre è la stessa: è il sistema politico a determinare gli effetti della legge elettorale, e non viceversa. In una seconda Repubblica nata per “via giudiziaria”, ma senza aver risolto politicamente la “crisi” della partitocrazia, il “maggioritario” non ha avuto come effetto che quello di creare maggioranze parlamentari formate unicamente a scopi elettorali e destinate, ad elezioni svolte, a spaccarsi e frammentarsi in pochi mesi.

Ma anche questo è finito, ormai. Si dovrà discutere, ora, la nuova legge elettorale. E, visti i precedenti, la cosa non può non preoccupare, ed occorre saper imparare dagli errori già commessi, al fine di evitarne di peggiori. Occorre, cioè, capire anzitutto che decisivo è ciò che sta accadendo ed è accaduto nel sistema politico, negli equilibri all’interno del nostro Paese. Solo avendo ben chiara la situazione dei rapporti politici reali, si potrà capire quale legge elettorale possa convenire ad essa, possa aiutare il sistema a produrre effetti virtuosi. Oggi l’Italia è politicamente un Paese diviso in tre: il Partito Democratico, il M5S, ed un’area orientata a “destra” (anche se questo termine è inadeguato). Il partito di Renzi esce piuttosto malconcio dall’esito referendario, mentre il M5S ha cercato di controbilanciare la vittoria ottenuta schierandosi per il No con i risultati al momento non proprio esaltanti del Sindaco della Capitale. Anche la Lega indubbiamente guadagna consensi dall’esito referendario, ma continua a non sfondare al Sud (e come può farlo un partito che si chiama Lega Nord e per statuto lotta ancora per l’indipedenza della Padania? ): potrebbe farlo solo trasformandosi in partito sovranista-identitario, ma il progetto pare al momento rinviato; Forza Italia dal canto suo sembra incapace di rinnovarsi nel programma, nella visione politica (ma questo punto sarebbe meritevole di un approfondimento), resta però pur sempre con un bacino di voci consistente e destinato (contrariamente a quanto si pensa) a crescere appena il suo leader verrà politicamente riabilitato dal Tribunale di Strasburgo, la Corte europea dei diritti dell’uomo. Insomma, una situazione politicamente fluida, in cui solo il M5S riesce ancora, nonostante le crescenti divisioni interne, a manifestare una certa solidità, ma che è comunque destinato al ruolo della opposizione perenne se non penserà – e pare di nascosto ci stia seriamente pensando – a possibili alleanze di governo. Che lezione ricavare da tutto ciò?

Il bipolarismo è finito nei rapporti politici reali, e non si può pensare di crearlo artificialmente facendo rivivere una legge elettorale come il Mattarellum. Pare che ad averlo capito per primo sia stato Berlusconi, segno che pur avendo avuto qualche problema di cuore, la mente resta lucida. C’è oggi un “tripolarismo” che va saputo “assecondare” attraverso una legge elettorale che ne favorisca i risvolti positivi (la rappresentatività) evitando per quanto possibile quelli negativi (la presunta assenza di governabilità). Proprio il “maggioritario” andrebbe di principio escluso, perché si verrebbe a “forzare” il sistema illegittimamente, con il rischio anche di spostare lo scontro politico fuori dalle istituzioni rappresentative: è un’illusione, infatti, che si possa cancellare una forza politica che rappresenta una parte consistente del Paese con una legge elettorale che impedisca ad essa di esprimersi adeguatamente in Parlamento. Troverebbe un altro modo – e questo non è, evidentemente, un bene per la democrazia. Analogo discorso per una legge come l’Italicum: creare maggioranze artificiali non è il modo migliore per tentare di convincere forze politiche radicalmente diverse tra loro, in un momento peraltro di crisi sempre più acuta del sistema politico, a riconoscersi tutte nel gioco parlamentare, ad accettare di trasporre la lotta politica all’interno delle istituzioni. E poi che democrazia sarebbe se in presenza di tre poli, più o meno della stessa consistenza numerica, soltanto uno governasse da solo il Paese?

Resta dunque il proporzionale, la “carta geografica” di cui parlava il “Migliore”. Si dirà che, con esso, il Paese sarà a rischio “ingovernabilità”. Ma abbiamo visto che proprio questa argomentazione è una sciocchezza, perché la stabilità dei Governi non dipende dalla legge elettorale, ma dalla stabilità del sistema politico, dai suoi equilibri. Un sistema come il nostro, che sta configurandosi sempre più in senso tripolare, sarà in grado di trovare il proprio equilibrio solo se non sarà “violentato” da una legge elettorale che ne “forzi” l’evoluzione spontanea. E poi è fin troppo facile replicare a coloro che affermano che sarebbe un ritorno nostalgico alla prima Repubblica. Nostalgia? Gli italiani oggi vogliono solo dimenticare quella fase storica che è cominciato con il colpo di Stato ( il Colpo di Stato permanente, descritto nel mio libro) architettato da Napolitano contro l’ultimo governo legittimo di questo Paese: il governo Berlusconi. Nostalgia? E chi ha detto che bisogna ritornare per forza al proporzionale della prima Repubblica? Ci sono due modelli interessanti da poter prendere in considerazione: quello tedesco e quello spagnolo. Qui solo un cenno. Quello tedesco presenta due caratteristiche fondamentali: una clausola di sbarramento, onde evitare una eccessiva frammentazione delle forze politiche, e il voto di sfiducia costruttiva che previene qualsiasi instabilità. Per il modello spagnolo basterebbe ripartire dal sistema elettorale elaborato in rete dal MoVimento, con la condivisione di migliaia di cittadini, prima di tutte le derive che hanno contraddistinto la sua trasformazione ormai compiuta in partito politico. La voglia di proporzionale nel Paese c’è, non sarebbe il caso di soddisfarla?