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Indagine sui Diritti dell'Uomo. Genealogia di una morale

di Stefano Vaj* - 19/10/2006

Fonte: dirittidelluomo.com



 




Come ha mostrato Nietzsche lo strumento più penetrante per sottoporre a valutazione critica un discorso morale, quale è fondamentalmente il discorso dei Diritti dell’Uomo, è la genealogia (1).

Ci semba anzi uno strumento quasi indispensabile, per un’analisi che pur restando fin dove possibile «fredda» e «scientifica» voglia oltrepassare il livello della valutazione logica della coerenza interna del discorso esaminato e la ricorrente constatazione che ogni affermazione etica sottende un’antropologia ed una visione dell’uomo di tipo descrittivo, e finisce per ridursi sempre ad un certo numero di scelte di valori variamente formulabili, ma non ulteriormente riducibili e «dimostrabili». Così, come del resto è comunemente ammesso, «una dottrina deve essere giudicata non soltanto sulla base delle sue analisi, dei suoi precetti e, della sua parte critica, ma anche sulle sue intenzioni implicite, la sua provenienza e le sue affinità. Ogni sistema critico può essere considerato come un sistema di valori impliciti, che le circostanze interne (o la sua propria evoluzione interna) possono fare deviare, nella sua assiologia come nelle sue intenzioni. Ogni precetto morale appare come il sintomo di una mentalità e, in fin dei conti, di una preoccupazione. Bisogna dunque classificare i giudizi morali, rintracciarne la storia e, per questo, rimontare alle sorgenti. Bisogna studiare le condizioni nelle quali sono apparsi i concetti, poi ridiscendere lungo il filo dei tempi fino al presente. Bisogna infine vedere di quale tipo morale questi concetti sono espressione » (2).

Un’analisi morale che pretenda di essere qualcosa di più di un esercizio di retorica - solitamente appoggiato su tautologie e sul richiamo «entusiasta» o «indignato» a valori impliciti che si presumono condivisi dalla totalità dei consociati, o quanto meno del proprio pubblico - finisce così per diventare fondamentalmente un’analisi storica, sociologica ed antropologica.

Il tema della genealogia dei Diritti dell’Uomo non potrà certo essere qui esaustivamente affrontato, soprattutto per quanto riguarda il suo esplicarsi nella mentalità sociale. Essi rappresentano infatti, come tenteremo di dimostrare, nient’altro che la formulazione etico-politica finale e in certo modo definitiva della concezione del mondo e della tendenza storica umanista, onde ricostruirne la storia significherebbe ripercorrere secondo una particolare prospettiva, quella dello sbocco attuale, tutto il cammino percorso da queste ultime.

È certo d’altra parte che il discorso dei Diritti dell’Uomo ha imprescindibili radici che affondano ben al di là della Dichiarazione universale delle Nazioni Unite e delle dichiarazioni rivoluzionarie della fine del settecento.

La stessa prima proclamazione dei Diritti effettuata in Europa, quella francese del 1789, non pretendeva affatto di fondare, teoricamente e giuridicamente, i diritti affermati, ma di dare sanzione legale e obbligatorietà positiva a principi preesistenti di «diritto naturale». Come dichiarò il marchese di La Fayette alla seduta dell’Assemblea Nazionale tenutasi l’undici luglio di quell’anno, una dichiarazione ufficiale si imponeva per stabilire una volta per tutte «dans la verité et la précision (...) ce que tout le monde sait, ce que tout le monde sent» (3). Ciò che tutti «sapevano», ciò che tutti «sentivano» non era che il portato plurisecolare del giusnaturalismo, che con le rivoluzioni borghesi non accetta più il compromesso con l’idea di autorità politica in senso forte. Ma la strada percorsa dalla dottrina del diritto naturale era già lunga.

Jacques Maritain, forse il più grande filosofo cattolico del nostro secolo e uno dei maggiori teorici cristiani dei Diritti, lo riafferma una volta di più in un libro di grande interesse significativamente pubblicato per la prima volta a New York nel 1942, quando ancora le sorti della guerra erano incerte, I diritti dell’uomo e la legge naturale (4) . Dopo aver ribadito come «la vera filosofia dei diritti della persona umana si fonda dunque sull’idea della legge naturale», e aver definito questa come «un ordine o una disposizione che la ragione umana può scoprire e secondo la quale la volontà umana deve agire per ac cordarsi ai fini necessari dell’essere umano», Maritain ricorda: «L’idea di diritto naturale è un’eredità del pensiero cristiano e del pensiero classico. Non risale alla filosofia del diciottesimo secolo, che l’ha più o meno deformata, ma a Grotius e prima che a lui a Suarez e a Francesco de Vitoria; e più oltre a S. Tomaso d’Aquino; e più oltre a S. Agostino e ai Padri della Chiesa e a S. Paolo; e più oltre ancora a Cicerone, agli stoici, ai grandi moralisti dell’antichità e ai suoi grandi poeti, a Sofocle in particolare. Antigone, è l’eterna eroina del diritto naturale, che gli antichi chiamavano legge non scritta, ed è il nome che meglio le conviene».

Non molto diverse, anche se meno esemplificativamente sintetiche, sono le indicazioni che vengono da altri studiosi dei diritti dell’uomo come emergenza apicale del diritto naturale, soprattutto di parte cattolica. C’è però dà dubitare che in questo campo, pur trovandosi spesso di fronte a prove di grande lucidità e di amplissima cultura personale nell’individuare il filo della continuità del discorso che porta alla Dichiarazione universale, si rischi spesso paradossalmente di sottovalutare l’importanza centrale dell’avvento storico del cristianesimo.

Varie sono le interpretazioni del rapporto tra cristianesimo e diritto naturale: si va dal «matrimonio inevitabile» (5), alla presentazione dell’antropologia etica e metafisica del cristianesimo quale «risposta» alla «domanda» cui l’antichità pagana era potuta arrivare tramite il retto uso della ragione. Altri, come Dario Composta, pur rivendicando decisamente l’originalità dell’apporto cristiano, sottolineano con insistenza la continuità tra il pensiero antico e quello paleocristiano e medioevale (6). Guido Fassò, con molti teologi e scrittori di confessione protestante, tende addirittura a negare che nel cristianesimo fosse affatto presente un’impostazione giusnaturalistica: questa si sarebbe aggiunta poi per contaminazione dal clima culturale circostante (7). All’estremo opposto, ma con risultati per quanto ci interessa coincidenti, si trovano coloro che pensano che nelle fonti cristiane sia da subito contenuto nient’altro che la dottrina. delle inclinazioni naturali degli stoici, e che queste la prolunghino senza soluzioni di continuità (8). Infine vi è chi, come l’Ambrosetti (9), trova che il diritto naturale nella cultura occidentale è nel suo complesso cristiano, sicché le dottrine giudaiche e pagane che lo precedettero vengono considerate come sue anticipazioni e abbozzi.

In realtà gli approcci tesi a cogliere gli elementi di continuità sono però largamente prevalenti, mentre sono più difficilmente reperibili e meno sviluppati gli elementi che permettano una lettura in controluce del giusnaturalismo cristiano e del precedente «diritto naturale».

Ciò si giustifica anche per ragioni di mentalità e di metodo. Un’impostazione prevalentemente del primo tipo è consona al progressismo dialettico dell’analisi marxista come al progressismo evolutivo delle posizioni illuministico-liberali. È del resto caratteristica di queste ultime fin dal diciottesimo secolo il riferimento in positivo e la ricerca di radici nella classicità greco-latina in certo modo riletta e idealizzata; nell’uno - e nell’altro caso, preconcetti ereditati si oppongono a riconoscere nell’epoca paleocristiana e medioevale, considerata come epoca di decadenza, e nel cristianesimo, spesso avversario teorico e politico del momento, la matrice prima del diritto naturale e oggi dei Diritti dell’Uomo.

Non diversamente accade in campo cristiano. La maggioranza dei protestanti rigetta il diritto naturale dalla dottrina cristiana, e per farlo è costretta evidentemente à presentarlo come tematica estranea, preesistente ed indipendente dal cristianesimo. Il cattolicesimo più «avanzato», per usare di queste categorie di dubbio significato, insistendo su una visione della storia ecumenica e progressiva è portato anch’esso ad interessarsi del problema da un punto di vista evolutivo, mentre il tradizionalismo cattolico; la cui cultura è fortemente orientata in senso occidentalista e umanistico e che talvolta nutre inclinazioni di passatismo affettivo pregiudiziale, tende a situare il pensiero cristiano all’apice di un cammino e di una civiltà interrotti solo dall’avvento dell’Illuminismo, della Rivoluzione e del modernismo (10).

La stessa letteratura paleocristiana, improntata a fini apologetici e predicatori, costretta a servirsi del linguaggio e delle categorie concretamente e storicamente a disposizione, necessariamente toccata dallo spirito dell’epoca cui anche le altre tendenze della tarda antichità partecipavano, tende ad accentuare l’impressione di continuità (11).

Historia non facit saltus, ed è lungi dalle nostre intenzioni il voler sostenere a contrario la tesi di una radicale discontinuità che postuli un’irruzione improvvisa della novità assoluta su tutti i piani etico-giuridici contemporanea alla comparsa del cristianesimo. I fatti e forse anche le modalità del passaggio dal pensiero pagano al pensiero cristiano non sono qui in discussione. E’ tutta una questione di sforzi di distinzione, di angoli di visuale con cui a nostro avviso varrebbe la pena di cimentarsi maggiormente, dal momento che tutti riconoscono come con l’avvento del cristianesimo si operi un cambiamento di prospettiva, si innesti un processo radicale di mutamento delle mentalità, persino le stesse affermazioni sembrino cambiare di significato profondo (12). Che tale fenomeno si inserisca in un divenire storico che non conosce soluzioni di continuità, che la manifestazione storica del cristianesimo sia legata a tutto ciò che l’ha preceduto - come del resto continuerà ad essere legata a tutto ciò che ne seguirà l’avvento -, che i contenuti del pensiero cristiano non germinano, né potrebbe essere altrimenti, ex nihilo, tutto ciò è l’evidenza stessa, per il cristianesimo come per qualsiasi altra tendenza storica, ma è anche relativamente banale. E non ci sembra molto importante nemmeno il fatto che della portata di un mutamento, di una mutazione storica, si giudichi necessariamente a posteriori, in prospettiva storica - per tanto che questa prospettiva sia consapevole -, ed essa fosse poco o nulla percepibile per chi la viveva dall’interno.

Lo studio e la comprensione delle continuità, la ricerca delle radici, l’indagine sui rapporti ed i collegamenti - che, asintoticamente sempre più deboli mano mano che abbracciano oggetti spiritualmente, culturalmente e storicamente sempre più lontani, sembrano poter essere stabiliti tra tutto e tutto - deve a nostro avviso accompagnarsi sempre alla percezione ed all’intuizione delle differenze, delle grandi svolte storiche, delle catastrofi nel senso etimologico del termine. (Cfr. A. Woodcock - M. Davis, La teoria delle catastrofi, Garzanti, Milano 1982). Tali svolte non sono mai puntuali e contemplano sempre una maturazione precedente; postularne l’esistenza e trattarle come concetti storici è però un’ineliminabile esigenza epistemologica per chi tenti di enucleare dalla storia significati, tendenze, fasi (relativamente) omogenee, cicli di sviluppo, eccetera.

Esiste un altro problema. Fatta la considerazione che l’introduzione del cristianesimo in Europa ha costituito un ribaltamento di cui solo oggi possiamo valutare appieno la portata, e che tale svolta ha comportato un cambiamento di prospettiva che ha gradualmente intriso di sé il modo di pensare, i concetti, il linguaggio, bisogna ancora rendersi conto di come le nostre strutture mentali e le nostre categorie siano direttamente ereditate da questa «rivoluzione semantica», qualunque possa essere il nostro personale orientamento filosofico. Il campo in cui tale fatto è più evidente è il campo religioso, senza dubbio: concetti quali quelli di religione, di divinità, di sacro, di pietà, di virtù, di anima vengono trasformati quasi fino a diventare irriconoscibili; ma ciò avviene più o meno in tutti i campi dello spirito umano. Diventa poi naturale rileggere i concetti secondo il significato che successivamente e solo successivamente hanno acquistato e secondo la sensibilità dell’epoca del lettore (13). L’interpretazione «ingenua» che un lettore concreto, storicamente e culturalmente situato, tende a dare di un testo, non solo giuridico, ma di qualsiasi tipo, può così essere indicativamente definita come interpretazione «oggettiva-evolutiva-fondamentale-teleologica-sistematica» (14).





Note

(1) FRIEDRICH NIETZSCHE, Genealogia della morale, nelle opere complete pubblicate in italiano da Adelphi, a cura di Giorgio Colli e di Mazzino Montinari [versione originale Web].

(2) ALAIN DE BENOIST, Nietzsche, morale e «Grande Politica», Il Labirinto, Sanremo 1980.

(3) Citazione ripresa da Guillaume Faye, «Genèse d’une idéologie», in Eléments, n. 37, marzo 1981.

(4) Vita e Pensiero, Milano 1977.

(5) È questa in fondo la tesi di PHILIPPE DE LA CHAPELLE, La déclaration universelle des Droits de l’Homme et le catholicisme, Pichon & Durand-Auzias, Parigi 1967.

(6) Natura e ragione, Pas-Veriag, Zurigo 1971.

(7) La legge della ragione, Bologna 1964; La révélation chrétienne et le droit, Parigi 1961. In questo senso anche ERNST TRÖLTSCH e lo SPANNEUT: «Ce n’est manifestement pas dans l’Ecriture que les Pères ont puisé cette morale de la nature, mais dans la pensée contemporaine» (Le Stoicisme des Pères de l’Eglise, Parigi 1957).

(8) Così il VILLEY («Le droit naturel chez Gratien», in Studia Gratiana, Bologna 1955, vol. III).

(9) Diritto naturale cristiano, Roma 1970.

(10) Cfr. PLINIO CORREA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e controrivoluzione, Cristianità, Piacenza 1977.

(11) HENRI MARROU, «Le christianisme en face de la civilisation greco-romaine», in Histoire Universelle des missions Catholiques, Editions de l’Alcanthe, Monaco 1956, tomo I; W. PANNENBERG «Zur Theologie des Rechts», in Zeitschrift für Evangil-Ethik, gennaio 1963.

(12) Lo ricorda tra gli altri, a proposito del diritto naturale, C.H. DODD, «Natural Law in the Bible», in Theology, n. 3, 1946.

(13) È soprattutto MARTIN HEIDEGGER ad affrontare il problema del linguaggio come problema del «senso» profondo di linee di evoluzione storica. Il rapporto tra cristianesimo e paganesimo sotto l’angolazione dello scontro tra mentalità irriducibili è stato oggetto di un’analisi brillante anche se molto sintetica nel libro di LOUIS ROUGIER, Le conflit du christianisme primitif et de la civilisation antique, GRECE, Parigi 1974.

(14) Usiamo qui della classificazione proposta da LUIGI LOMBARDI VALLAURI nel suo Corso di filosofia del diritto, Cedam, Padova 1978, a proposito dell’interpretazione delle norme giuridiche, cui rimandiamo per le relative definizioni.

*Stefano Vaj, noto professionista milanese e docente all'Università di Padova, si occupa di metapolitica, visione del mondo e filosofia del diritto e delle scienze sociali dalla fine degli anni settanta. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui Legalità e legittimità nell'ordinamento giuridico italiano (ContrOpinione), Il diritto alle differenze culturali (l'Uomo libero), Alle radici dell'Europa (l'Uomo libero), Biopolitica. Il nuovo paradigma [versione Web] (Barbarossa), Per l'autodifesa etnica totale (l'Uomo libero), La giustizia latitante (l'Uomo libero). E' già responsabile italiano del Sécretariat Etudes et Recherches del Groupement de Recherche et Etudes pour la Civilisation Européenne (GRECE) e segretario del circolo milanese Quarto Tempo. Il testo che segue è la premessa al suo saggio in titolo. Il libro, già pubblicato per i tipi della LEdE-Akropolis, Roma 1985, è fruibile on line su www.dirittidelluomo.com. ed è postato qui per gentile disponibilità dell'autore, della casa editrice e del sito sopra ricordati.(m.r.)