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Al mio segnale scatenate l’inferno

di Roberto Pecchioli - 21/06/2025

Al mio segnale scatenate l’inferno

Fonte: Ereticamente

Ricordate Il Gladiatore, il film di Ridley Scott centrato sul personaggio di Massimo Decio Meridio, interpretato da un indimenticabile Russel Crowe? Il generale romano stimato dall’imperatore filosofo Marco Aurelio, costretto a combattere come gladiatore al Colosseo, pronuncia una delle frasi più iconiche del cinema, rivolto alla truppe all’inizio della battaglia: al mio segnale scatenate l’inferno! Un’altra affermazione del Gladiatore è: Roma è la luce, un grido d’amore e nostalgia per la grandezza della città, minacciata da figure ignobili come il nemico imperatore Commodo, bizzarro, crudele e depravato.   
Sembra davvero che le forze del male abbiano scatenato l’inferno, e nessun gladiatore viene in soccorso. Al sonno della civiltà lungo oltre mezzo secolo, seguito dalla convinzione di avere visto la fine della storia dopo l’implosione del comunismo reale, si è sovrapposto il tempo dei “diritti” individuali, dell’illusione del progresso e della liberazione dai vincoli. Poi la storia, anzi la realtà, ha presentato il conto. La luce si è spenta. Come pensare diversamente, dinanzi a un Occidente (così si fa chiamare, terra del tramonto, l’agglomerato degli Usa, dei suoi servi e vassalli e dello Stato sionista) in preda alle convulsioni della belva ferita che non vuole abbandonare la sua preda – il mondo – e pare disposto a scatenare l’inferno. Muoia Sansone con tutti i Filistei,  come nel biblico Libro dei Giudici. Crolli tutto purché noi – l’occidente giardino del mondo, faro di progresso, spada dei diritti umani, bastione della democrazia – continuiamo a dominare un mondo che non ci vuole, che non comprendiamo più e di cui siamo diventati un appendice in termini demografici, una civilizzazione che rifiuta gli eredi e vive dividendo i suoi nemici, esibendo – e apertamente utilizzando – armi di distruzione di massa.
I seguaci della Ragione l’ hanno abbandonata in nome del dominio, del riflesso condizionato della belva che non molla la preda  e pare disposta a far crollare, come Sansone, la casa comune. Dopo di me il diluvio, pensava Luigi XV dialogando con la sua disincantata favorita, Madame de Pompadour. Come spiegare in termini razionali l’impulso di morte, la violenza pura di chi distrugge sistematicamente,  a Gaza e altrove, ogni cosa o persona, che parla apertamente di uccidere capi di Stato esteri (lo fa Israele e lo ribadisce la centrale di Washington), che ammette pubblicamente, come il banchiere Merz messo a capo della Germania, che “Israele fa il lavoro sporco al nostro posto”. Da qualche parte in Europa, intanto, avanza l’esercito russo mentre all’Ucraina è imposto di resistere a ogni costo. Tanto la carne sacrificata, le città e le infrastrutture distrutte, sono le sue, non le nostre. Penseranno poi alla ricostruzione, a spese di ciò che resterà di un popolo fiero e ingannato ed a vantaggio delle entità economiche e finanziarie che speculano sulla tragedia.
C’è un aggressore e un aggredito, urla all’unisono l’Occidente collettivo a proposito dello scacchiere ucraino; principio che non vale in Medio Oriente, dove i Buoni, i Democratici, i Nostri (?) possono attaccare i vicini (Libano, Siria, Palestina, Gaza, Iraq) e i meno vicini (Iran) a piacimento, senza nemmeno il disturbo di dichiarare guerra secondo le regole internazionali. Israele ha il diritto di difendersi, è il disco rotto unanime del potere occidentale. Difendersi, appunto. Ma al segnale di qualcuno – perché qualcuno avrà pur dato il segnale – ha scatenato l’inferno. Un altro, un inferno in più nel giardino più simile a un labirinto di Borges che a un piacevole prato verde in cui è dolce vivere.
Raramente si è sperimentata una distanza così profonda tra i popoli e le oligarchie che li dominano. A parte Israele, con il suo carico di millenarismo bellicoso e di suprematismo biblico, nessuna popolazione occidentale vuole la guerra. E non solo per il disarmo morale cui è stata sottoposta dopo le due guerre mondiali. Gli europei – e anche gli americani, la cui fortuna è non aver mai sperimentato un conflitto dentro il proprio territorio dal 1865 – sono in immensa maggioranza contrari alle avventure di morte decise dalle oligarchie, al sicuro nei bunker, convinte di essere protetti dal denaro. Qualcuno combatterà per loro, il mondo è pieno di poveracci, si reclutano mercenari a prezzo di saldo e una parte rilevante delle generazioni ultime è zombizzata, incapace di distinguere tra reale e virtuale. Giochi di guerra come Monopoli di un presente in cui si scatena l’inferno, ma a distanza, e ci si accorge di ciò che si è fatto solo quando il giardino viene colpito e scorre anche il nostro sangue. 
Cultura della morte che è anche il suo rovescio, morte della cultura, ovvero ricerca, giudizio. Non ci riferiamo solo ai venti di guerra. Il linguaggio bellico, ormai sdoganato, accettato, come la distinzione tra “noi” e loro”, il ritorno del crinale originario amico-nemico di cui parlava inascoltato Carl Schmitt, conduce inevitabilmente agli atti della guerra. Forse i popoli convinti di vivere nel giardino, nell’Eden dei diritti, dei piaceri e della pace perpetua per le delizie dell’inclusione e della tolleranza, dovrebbero riflettere e porsi qualche domanda. Impossibile: nel tempo in cui ci sarebbero molte risposte, scarseggiano le domande.  Negli ultimi anni la popolazione dei Paesi europei (e non solo) è stata messa alla prova nella capacità di accettazione di un totalitarismo che non osa presentarsi come tale, basato su un relativismo radicale, tappa verso l’imposizione di nuove tavole della Legge, totalmente rovesciate rispetto a quelle che avevano guidato la civiltà per secoli e millenni.
Ci hanno estirpato il pensiero: per questo accettiamo tutto, digeriamo tutto, spettatori passivi di un immenso videogioco in cui la realtà è finzione e viceversa, senza confini definiti. Nel momento in cui non eccepiamo di fronte alle narrazioni (ossia alle interessate menzogne) del potere nelle sue articolazioni belliche, sanitarie, tecnologiche, finanziarie, transumane – cioè disumane – gli unici fremiti sembrano appartenere al mondo dei falsi diritti. Possiamo sposarci tra uomini, persino essere chiamati papà e mamma (genitori uno e due) senza l’incontro naturale tra i sessi; ci indigniamo se da qualche parte negano i gay pride, ma non battiamo ciglio dinanzi a genocidi, distruzioni, ingiustizie brucianti.
Applaudiamo come avanzata di civiltà il diritto di morire (il diritto di morire !) a richiesta  con il boia di Stato, siamo fieri che l’aborto diventi diritto universale, praticabile sino al momento del parto – la finestra di Overton, dopo la guerra, accetta l’infanticidio-  salvo commuoverci per la foca monaca o un cucciolo sul cornicione. Fine delle domande, sostituite dalle FAQ (Frequently Asked Questions): domande preconfezionate con risposta predisposta dal potere. Non prendiamo sul serio la concretissima possibilità della guerra – combattuta ovviamente per i valori dell’occidente – e intanto non ci accorgiamo della nostra estinzione.  Che importa, noi abbiamo la verità in tasca, noi “sappiamo”, ovvero, come la gnosi perenne, abbiamo la presunzione di conoscere quello che gli altri non sanno, non vedono, non capiscono. Neppure lo strano, unanime pensiero calato dall’alto ci insospettisce, anzi ci rasserena. Notava Eric Voegelin che nelle società tradizionali vigeva il controllo autoritario delle risposte; nelle società moderne pervase dalla gnosi vige il divieto di porre domande attraverso una consapevole,  deliberata, elaborata ostruzione della “ratio”.  Le domande cruciali concernenti l’esistenza personale e collettiva, il senso della vita e della morte, il sentimento religioso, vengono rimosse come quesiti oziosi. Molta parte del pensiero contemporaneo (pensiero che non pensa, secondo Heidegger) nega l’esperienza tangibile della realtà, perché essa attesta la dipendenza e caducità dell’uomo; di qui la necessità di abolire il reale, rifugiandosi nel virtuale e nell’artificiale.
L’uomo nuovo, seguace inconsapevole della società aperta, è ateo, materialista e utilitarista. Non ha rispetto per nulla e per nessuno di ciò che attiene al passato, vuol rifare da capo ogni cosa, secondo un modello – conscio o inconscio – di onnipotenza umana. In altre parole, è prigioniero di io demoniaco che si sostituisce a Dio e alla natura in un sacrilego progetto di ri-creazione dell’umanità e del mondo secondo le sue convinzioni e prospettive, radicalmente immanentistiche, sfrenatamente utilitaristiche. Tutto si basa su un meccanismo psicologico quasi banale: l’ inesauribile capacità degli esseri umani di raccontare a se stessi, prima ancora che agli altri, una verità di comodo, far tacere gli scrupoli di coscienza, nascondere la propria coda di paglia, vedere solo ciò che sono disposti a vedere.
Quindi, “noi” siamo l’Eden, gli altri il Male che lo minaccia. Strano non accorgersi che il Giardino Occidente è già occupato e non sarà l’inclusione, l’applauso per le diversità, la tolleranza – virtù delle civiltà morenti, parola di Aristotele – a farlo sopravvivere. Meglio credere che attorno a noi si svolga un gigantesco videogioco, che le fiamme, le distruzioni, le vite stroncate, il cambio di paradigma esistenziale, siano finzioni il cui termine avverrà con il fatidico game over.  A un segnale del potere, scatenate l’inferno. Tanto è un gioco, e noi viviamo  nel bosco del Sogno di Mezza Estate, tra il re Oberon e il folletto Puck. Ernst Juenger chiedeva al Ribelle di passare al bosco per sottrarsi all’invasione del male. Il problema è che l’inferno scatenato dal gladiatore malvagio ha invaso anche il bosco, diventato deserto. Guai a chi cela deserti, guai a chi, nel mondo invertito, chiama giardino il deserto e civiltà l’appello alla morte.