Alle radici profonde del pensiero ecologista
di Sandro Marano - 22/12/2025

Fonte: Barbadillo
Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, nella sua opera prima, Meditazioni del Chisciotte (1914), aveva magistralmente tratteggiato l’opposizione e insieme la complementarietà della cultura mediterranea rispetto alla cultura nordica, mettendo in rilievo il legame tra paesaggio naturale e filosofia: «il Mediterraneo – scriveva – è un’ardente e perpetua giustificazione della sensualità, dell’apparenza, delle superfici, delle impressioni fugaci che le cose lasciano nei nostri nervi commossi». E nella stessa opera aveva riassunto il principio guida della sua filosofia in una frase divenuta celebre (suscettibile, tra l’altro, di un’interpretazione in senso ecologista): «io sono io e la mia circostanza, e se non salvo questa non salvo neanche me stesso».
Le filosofie dell’ecologia profonda (l’ecosofia di Arne Naess, la riscoperta della Natura di Rupert Sheldrake, lo Stato organico ed ecologico di Rutilio Sermonti, la visione ecocentrica di Guido Dalla Casa, ecc.) si pongono tutte come geofilosofie, cioè come filosofie legate alla terra, all’ecosistema, al paesaggio naturale.
Non c’è dubbio infatti che il mondo naturale, insieme, e forse prima ancora del mondo sociale, sia uno degli ingredienti fondamentali della nostra personalità. E qui vorrei condividere un piccolo aneddoto. Durante una conversazione da me tenuta in una scuola media sulle tre R (riduzione, riuso, riciclo) uno degli studenti presenti mi pose una domanda apparentemente semplice: “Come sei diventato ecologista?”. Risposi, dopo averci pensato qualche secondo, che ero diventato ecologista perché avevo avuto la fortuna di fare un confronto tra la periferia che ricordavo nella mia infanzia, ricca di colture, di vigneti, di odori, tra cui irresistibile era quello d’una fabbrica di cioccolato e caramelle, e quella stessa periferia al giorno d’oggi dove si susseguono senza soluzione di continuità palazzi, strade e radi e tristi alberelli. Grazie a quel confronto tra il mondo naturale della mia infanzia e il mondo artificiale della mia maturità potei capire l’importanza e la necessità d’una battaglia ecologista per la salvaguardia della Natura vivente.
Partire dai dati naturali (questa terra, questo cielo, questi alberi, il proprio essere maschile o femminile, e così via) significa, d’altronde, avere consapevolezza dei propri limiti, non scambiare l’io sono con l’io voglio, rispettare e non prevaricare sull’altro da sé (l’ecosistema). Significa, in poche parole, amare la propria terra.
Sennonché la tradizione filosofica a partire da Socrate, fatte salve poche eccezioni tra le quali possiamo annoverare Vico (la sapienza poetica) e Nietzsche (la fedeltà alla terra), ha per lo più trascurato o deliberatamente messo da parte questo legame tra pensiero e paesaggio naturale. Nel Fedro Platone mette in bocca a Socrate queste parole: «Io ho la passione dell’imparare, ma la campagna e gli alberi non mi insegnano nulla, mentre imparo dagli uomini di città».
Chiosa a questo proposito Veneziani in una straordinaria pagina del suo Nostalgia degli dei: «Il pensiero della metropoli, l’umanesimo, sono racchiusi in quelle poche parole riferite da Platone. Comincia così la filosofia, il viaggio urbano della modernità in pectore, la svolta antropocentrica che disancora l’uomo dai luoghi […] Comincia col filosofo senza patria, apolide, apatride, il disincanto del cosmo. Non c’è un tempio né una patria a cui tornare, perché l’unico tempio […] è il tempio interiore». E prosegue: «Eppure esiste un legame non accidentale tra pensiero e paesaggio. La luce del pensiero greco riflette la luce del paesaggio mediterraneo, i suoi ulivi ondeggianti al vento, la preponderanza del suo mare, il bianco e l’azzurro che s’intarsiano al sole […]. Ma il genius loci, a ben vedere, spira anche nel pensiero moderno. Non capiremmo l’aspirazione al cielo inconoscibile, la romantica invocazione della Notte, il richiamo tedesco al Noumeno e all’invisibile se non conoscessimo i cieli ombrosi e cupi della Germania».
È dunque nella svolta antropocentrica, che guida il pensiero da oltre due millenni, il seme dell’utopismo e della distruzione della Natura. La grande lezione di Nietzsche, su cui poi si soffermerà Martin Heidegger elaborando la storia della metafisica e il concetto di oblio dell’essere, è nell’aver rintracciato, già ne La nascita della tragedia, la genesi della crisi del mondo moderno nell’impostazione filosofica data da Socrate, non a caso da lui considerato il massimo esponente della decadenza del mondo greco. La ragione con Socrate si faceva astratta, estranea alla vita. E una ragione, che pretendeva di correggere l’esistenza e credeva al bene e al male come al bianco e al nero, non poteva non essere intimamente rivoluzionaria, culminando, con l’età moderna, nel mito del progresso e della scienza.
Osserva in Che cos’ è la filosofia? Ortega y Gasset: «Nel suo significato più intimo, “spirito rivoluzionario” significa non solo preoccupazione di migliorare, cosa che del resto è sempre eccellente e nobile, ma credere che si possa, senza limiti, essere quello che non si è, e che basti credere in un ordine del mondo o della società che ci sembrano ottimi, perché dobbiamo realizzarli, non avvertendo che il mondo e la società hanno una struttura essenzialmente incangiabile, la quale limita la realizzazione dei nostri desideri […]. Allo spirito rivoluzionario che tenta, utopisticamente, di fare in modo che le cose siano ciò che mai potranno essere o dovranno essere, è meglio sostituire il grande principio etico che Pindaro liricamente definisce: cerca di essere quello che sei».
Preziose sono dunque le filosofie dell’ecologia profonda perché cercano di restituire al mondo la sua integrità.

