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Apologia della capra

di Livio Cadè - 16/05/2021

Apologia della capra

Fonte: Ereticamente

I. Elogio dell’ignoranza

“Getta il sapere e non avrai tristezza“.

Si suol dire “ignorante come una capra”. Credo che alla capra poco o nulla importi di questo stupido pregiudizio. Ma a coloro che vi credono va ricordato un episodio della Patrologia Latina ove si narra della capra che salvò un santo eremita del deserto. Costui, non sapendo distinguere le erbe buone da quelle velenose, sarebbe morto se una capra, che per antico istinto sapeva riconoscere le piante non mangiabili, brucando in silenzio non gli avesse insegnato a riconoscerle. Il sant’uomo fu dunque soccorso dalla sapienza di una capra.

La nostra civiltà vive nel culto del sapere. Ma il nostro sapere è a volte nemico di una naturale saggezza e di una vera sapienza. Quella che chiamiamo conoscenza è spesso ignoranza, e viceversa. In tal senso Lao-Tze dice: “rinnega la conoscenza e il popolo cento volte ne trarrà giovamento”, massima che troverebbe oggi ben pochi seguaci. Tutti sembran infatti d’accordo nel dire che l’ignoranza è un male. Tuttavia è chiaro che siamo tutti ignoranti, in quanto ogni conoscere ha dei limiti e i campi del conoscere sono infiniti.

Parlando di sapere, oggi si intende di solito la competenza scientifica, conoscenza del mondo par excellence, ritenuta ormai motore imprescindibile dell’evoluzione sociale. Sono invece svalutate altre forme di conoscenza: saperi tradizionali, saggezza popolare, intuizione spirituale ecc. A questi saperi stabili, abbarbicati nel profondo dell’esperienza umana, si è sostituita una conoscenza priva di radici, di carattere incerto e volatile.

Tale conoscenza, essendo amministrata da una ristretta cerchia di esperti, lascia l’uomo medio in uno stato di perenne minorità e lo consegna alla tutela di un nuovo clero scientifico. Ma mentre il pensiero della Chiesa poggiava su basi ferme, quello della scienza, da Galileo in poi, ha sempre mostrato natura provvisoria. Nel suo tendere verso un progresso infinito determina una continua precarietà, e ci costringe a spingere i massi del sapere come in un supplizio di Sisifo.

Guardando alla storia, si può dubitare che questa conoscenza abbia contribuito alla nostra felicità e alla creazione di un mondo migliore. Si potrebbe anzi credere il contrario. I più tuttavia sostengono l’innocenza e la verginità della scienza. Sembrano ignorare che oggi la conoscenza non è, come poteva essere per i greci, pura teoria e contemplazione intellettuale ma, sulla traccia di Bacone,  ricerca del potere che nasce dal sapere, strumento di dominio sulle cose. Una conoscenza che fosse disinteressata comprensione del reale, filosofica meditazione sul senso della vita, ci sembrerebbe una perdita di tempo. Il sapere deve essere finalizzato a scopi pratici, tradursi in una tecnica, generare un profitto. Perciò il tempio della scienza si è riempito di mercanti e prostitute.

Il culto della conoscenza è andato di pari passo con le nostre follie distruttive. Ma questo non ci turba né ci rende perplessi. I viaggi spaziali, l’energia atomica, l’ingegneria genetica, Internet e numerosi altri miracoli sembrano rassicurarci sul valore della scienza. Secoli fa era inconcepibile mettere in dubbio la bontà di Dio, oggi sarebbe blasfemo non vedere nella scienza il Bene supremo. Criticare i suoi metodi e i suoi dogmi è un’eresia che minaccia l’ordine razionale del mondo. Infatti, secondo la nuova teologia, solo la conoscenza scientifica può salvare l’uomo dall’assurdità e dai pericoli del vivere.

Io invece accuso la conoscenza scientifica di aver reificato l’essere, completando la dissacrazione della natura iniziata dalla Chiesa. Se la metafisica e la religione offrivano una visione integrale dell’uomo, la scienza ha messo al suo posto una babele di linguaggi frammentari, che rendono caotico e incomprensibile il mondo in cui viviamo. Inoltre, avendo natura amorale, la scienza corrode i fondamenti etici della società che la elegge a modello di pensiero. Ha complicato la realtà con analisi maniacali, rendendola un labirinto senza uscita, ha stimolato la lussuria della ragione e soffocato lo spirito. Perciò, sapendo di infrangere un tabù, invoco il ritorno a una semplice e temperante ignoranza.

Lo faccio nella speranza che una civiltà futura si liberi da questo avviluppo di saperi scientifici, che s’arrampicano su ogni ramo della vita come soffocanti edere. Spero che la tendenza distruttiva del sapere scientifico si ritorca su di sé, suicidandosi. Questo forse permetterà l’avvento di una nuova coscienza. Il vento ne sparge per ora pochi semi, qua e là, e chissà se attecchiranno. Sarà un’ignoranza pacifica e saggia, conoscenza di sé e della vita che non si preoccupa di sapere ciò che può tranquillamente ignorare.

II. I due saperi

“La massima conoscenza è sapere che siamo circondati dal mistero”, diceva Schweitzer. Questo non significa abbandonare un sapere scientifico che ci orienta nella vita con ragionevole coerenza, che ci fornisce anti-depressivi, navigatori satellitari, previsioni del tempo e altri beni essenziali. Tuttavia, ho una grave reazione avversa quando sento la canonica formula “è scientificamente dimostrato” usata come sinonimo di “verità inoppugnabile”. Ma tutti sembrano così felicemente irretiti in questa certezza che è temerario metterla in discussione.

Io vedo un altro e più certo sapere, che nasce spontaneamente in noi, senza bisogno che qualcuno ce lo ingozzi dall’esterno. È un contatto diretto col reale, senza mediazioni e artifici culturali, una conoscenza non analitica e descrittiva ma essenzialmente sensibile, sentimentale, intuitiva – parole da prendere qui in senso molto ampio.

È un sapere non comunicabile a parole e non riconducibile a schemi teorici. Purtroppo non è certificato da alcun esame scolastico, e questo lo rende vittima di un diffuso discredito. Lo si ritiene incapace di spiegare la  realtà e, definendolo ‘soggettivo’, lo si accusa di una sostanziale inattendibilità. È, al contrario, l’unico sapere veramente obiettivo e concreto. Qualità di cui è privo, nonostante l’opinione comune, il nostro sapere oggettuale, rivolto all’analisi di oggetti fisici o mentali e frutto di un processo di astrazione.

La differenza tra i due saperi è grosso modo la distanza che corre tra il mangiare un cibo o leggerne la ricetta. Il sapere soggettivo condivide a giusto titolo l’etimo della parola sapore. È assaporare la certezza, sentire il tipico gusto dell’evidenza di un’esperienza sensoriale, affettiva o intellettuale. Le nostre teorie scientifiche non hanno carattere di certezza ma di ipotesi e congetture. La stessa necessità di apporvi continue correzioni dimostra che non offrono una conoscenza sicura.

Nel sapere soggettivo l’unica autorità siamo noi. Si fonda perciò sulla fiducia in sé stessi. Nell’altro è necessario contare sull’apprendimento impersonale di dati storici o naturali, o sulla sottomissione all’autorità di maestri e guru. Eckhart dice che alcuni seguono Dio come il cane segue chi porta le salsicce. Così tanti oggi si accodano ai vivandieri del sapere. Nei loro dubbi cercano risposte non da sé ma dagli altri. Abdicano al proprio giudizio con serena rassegnazione, affidandosi al parere degli esperti.

Nonostante le sue pretese di verità, il sapere oggettuale non può mai essere conoscenza piena di qualcosa. Infatti, il suo conoscere è relazione tra un oggetto a e i pensieri (b, c, d …) di un osservatore. Ma ogni relazione così stabilita diventa un nuovo oggetto da porre in relazione con i precedenti. Si crea così una nuova relazione ecc. La conoscenza di un oggetto evoca un’infinità di contenuti e relazioni conoscibili. Perciò, come Achille non raggiunge mai la tartaruga, il sapere oggettuale arranca senza speranza dietro la certezza.

I suoi limiti coincidono con quelli di una coscienza che si rivolge all’oggetto escludendone altri dal suo campo di attenzione. Un sapere cosciente non può quindi comprendere la realtà nel suo insieme ma solo afferrarne immagini separate. Solo il nostro inconscio può accogliere un sapere infinito, il che equivale a un’infinita ignoranza. La nostra coscienza condivide i limiti di oggetti parziali, il nostro inconscio coincide con un soggetto totale e non determinabile. Perciò possediamo certezze inconoscibili, che non sappiamo spiegare. A volte lo chiamiamo istinto, virtù di cui, a differenza di una capra, conserviamo solo un pallido residuo, e di quel poco rimasto diffidiamo.

Il nostro comune approccio alla vita tende a spezzare l’unità del reale, a concepirlo come somma di oggetti che si offrono allo sguardo conoscitivo del soggetto. L’oggetto e l’occhio che lo guarda divengono entità separate, divise da una distanza incolmabile e da una radicale estraneità. Solo dove ancora non emerge questa separazione, percepiamo il reale nella sua integrità. L’esperienza interiore, nella sua immediatezza, coincide quindi con una sorta di oggettività trascendentale. Parafrasando Eckhart, potremmo dire che “l’occhio con cui io vedo la realtà è lo stesso con cui la realtà mi vede”. È in questo modo che riconosciamo l’evidenza della nostra esistenza e dei nostri stati mentali.

Il sapere oggettuale prova una scettica diffidenza per l’anima, questa nascosta radice che non appartiene al mondo dei fatti e degli oggetti. La nega perché non la può delimitare in un luogo, in un tempo o in una quantità. Ogni tentativo di rappresentarcela in modo oggettuale ci allontana dalla sua comprensione. E se la poniamo a una certa distanza, come un oggetto conoscibile, cadiamo in quella illusoria ‘conoscenza di sé’ che è solo un’interpretazione arbitraria di fenomeni psichici. È infatti assurdo porre una distanza tra noi e noi stessi.

Il conoscere oggettuale comporta quindi una fondamentale alienazione, un allontanarsi dal cuore che provoca un oblio dell’essere. Questa tendenza centrifuga sradica l’uomo dalla sua spontaneità naturale e lo rende schiavo di condizionamenti esterni. Al punto che, per sapere se fuori piove, non guarda dalla finestra ma consulta il meteo, o si sottopone a esami medici per sapere se sta bene.

III. Scienza e declino umano

L’aver declassato il sapere soggettivo a forma fallace e inaffidabile di conoscenza, sostituendolo con la presunta sicurezza del sapere scientifico, è carico di tristi conseguenze. Possiamo scorgervi l’origine della moderna barbarie, gli effetti patologici di un’idolatria dei fatti oggettivi, dei dati e delle misurazioni. Il ‘pensiero scientifico’ è in fondo la metamorfosi di un dogmatismo religioso, di cui ha ereditato i tratti fanatici e assolutisti. Da questa eclissi di prospettive sacre e dall’affermarsi di forme puramente secolari del sapere nascono forme di esistenzialismo disperante, di nichilismo e di angoscia sociale.

Pensiero tanto più pericoloso in quanto comprime le prospettive personali in un blocco monolitico, valido e vincolante per tutti. “Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est“, formula che sanciva la cattolicità della Chiesa, diventa ora ratificazione di un cattolicesimo scientifico, verità assoluta e universale cui ognuno deve adeguarsi. Una coscienza massificata e avvezza alla credulità, ormai priva di denti, cerca qualcuno che mastichi e digerisca la realtà al posto suo, e finisce così con l’essere lei stessa divorata.

Emblematico è il caso del sedicente sapere che oggi cancella la nostra libertà soggettiva. Una commissione di esperti ci ha rinchiuso in uno Stato sanitario-poliziesco pretestuosamente giustificato da ragioni scientifiche. Dipendiamo da questo sinodo di sapienti che ogni giorno catechizzano l’umanità e la minacciano. E che forse comprendono  la vera natura del corpo umano quanto una scimmia il neoplatonismo. Un commercio di indulgenze basato sulla paura dell’inferno sarebbe più scientifico delle norme che ci vengono imposte. Eppure pochi se ne avvedono. E quei pochi combattono il falso sapere con le sue stesse armi, opponendo ai suoi dati-fatti-numeri, altri dati-fatti-numeri, intrappolati nel cerchio magico della razionalità.

Ma basterebbe la sapienza di una capra per non farsi turlupinare. Riconosceremmo la falsità con un’immediata e naturale intuizione, come sentiamo il freddo o il dolore, come una capra distingue d’istinto un’erba velenosa. Abbiamo già detto che il sapere è sapore; è quindi inutile opporre ai dati altri dati se la coscienza ha perso la capacità di assaporare la verità. La conoscenza di alcuni fatti può forse aprirci gli occhi. Ma è inutile aprire gli occhi a un cieco.

Un aspetto cruciale del sapere scientifico è proprio la sua impotenza a cogliere tutto ciò che dà sapore, senso e valore alla vita. Ostenta perciò una razionale indifferenza per gli eterni e fondamentali problemi dell’uomo: Dio, l’anima, l’amore, la bellezza ecc. “Non sono di mia competenza”, dirà, lavandosene le mani. In realtà, nel momento in cui diviene forma mentis dominante di una civiltà, il disinteresse della scienza per i bisogni profondi della psiche umana, questo suo sapere senz’anima, proietta un’ombra minacciosa sul mondo.

L’uomo si sentirà progressivamente estraneo alle questioni spirituali. Oppure, le farà oggetto di uno studio scientifico, profanandone la natura e trasformando anche Dio, l’anima ecc. in oggetti. All’esperienza concreta dello spirito preferirà le astrazioni di un sapere oggettuale. Ma tali astrazioni non possono saziare la sua fame interiore e lo condannano a una voracità mai soddisfatta.

IV. L’importanza d’esser sconosciuti

Il sapere soggettivo è già unito agli oggetti in modo misterioso e involontario, e questo lo preserva dalla funesta avidità dell’altro sapere. Possiamo allora guardare alle stelle come ai nostri pensieri e, pur non sapendo, sapere che tutto intimamente ci appartiene, senza cercare di afferrarlo. Daisetz Suzuki riassume questa antitesi con un paragone poetico. Un haiku di Basho, poeta zen, rispecchia l’essenza contemplativa e mite del sapere soggettivo:

“Quando guardo attentamente

vedo il nazuna in fiore

presso alla siepe”.

I versi di Tennyson, poeta vittoriano, tradiscono invece la violenza di un sapere analitico, che cerca di cogliere il senso del reale sradicandolo dalle condizioni stesse della sua vita:

“Fiore che spunti dal muro screpolato

Io ti colgo dalla fessura

Ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano

Piccolo fiore – ma se potrò capire

ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,

saprò che cosa sono Dio e l’uomo”.

Immagino che il fiore di Tennyson sia appassito tra le pagine di un libro, senza svelare al poeta alcun segreto sulla vita. Del resto, tutti noi veneriamo tali libri, dalle cui pagine occhieggiano fiori morti e senza profumo. Fin dall’infanzia siamo imprigionati in un’educazione scolastica che devitalizza la nostra coscienza; arido esercizio che appiccica di forza alla memoria nozioni e informazioni oggettive, concetti formali senza relazione con la nostra vivente soggettività. Manca una formazione spirituale, paideia che riconduca l’uomo a sé stesso. Terapia dell’anima che ci insegni non tanto a imparare quanto a dimenticare quel che abbiamo appreso attraverso un sapere alienante.

Serve l’umiltà di riconoscere e rispettare la Verità inconoscibile che dimora nel fondo di noi stessi. Nessuno dubita di esistere, ma alla domanda “chi sono?” si può rispondere solo additando un mistero inesprimibile. Se l’essere diviene una cosa conosciuta, se ne abolisce la dignità. L’uomo deve restare un segreto anche per sé stesso. Ogni volta che si fa oggetto di un sapere si degrada. Attraverso un sapere oggettuale ogni realtà vivente viene cosificata e chiusa nelle maglie di un controllo tecnico-scientifico. Si arriva così alla meccanizzazione della vita. La macchina è infatti l’oggetto per eccellenza: utile, prevedibile, controllabile.

Tutto ciò non può accadere senza distruggere l’innata libertà dell’uomo. Il rapporto col sapere ha dunque un ruolo decisivo nell’orientare una civiltà e decidere il suo destino. Un pensiero prevalentemente razionale conduce a una società materialistica, utilitaristica e decadente, composta da individui sempre più simili ad automi. Un sapere soggettivo e spirituale ci riconcilia con la nostra natura, ci induce ad amare i fiori senza strapparli, ad abbandonare le nostre pretese di dominio sul mondo.

Per liberarsi dal peso delle cose conosciute, l’uomo deve riscoprire la commozione che lo lega alla vita. Allora rinasce in lui l’impulso a esprimere questa forza profonda e misteriosa del sacro, dell’arte, dell’eros. Attraverso la sua soggettività nasce in lui un’ispirazione che lo rende partecipe di una bellezza senza tempo, abisso in cui nessun sapere razionale può calarsi. Non metodico studio per superare brillantemente un esame, ma lampo che rischiara all’improvviso l’oscurità della notte, mostrando paesaggi e sentieri. Antidoto a quell’apprendere saccente e verboso che ci schiaccia nella dimensione della res conoscibile. Allora il nostro sapere coincide finalmente col nostro essere e non con la nostra cultura. Non somiglia a una vana erudizione; ricorda più il sano istinto di una capra.