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Correvano i dì della memoria

di Livio Cadè - 31/01/2021

Correvano i dì della memoria

Fonte: Ereticamente

“Non ho forse ragione di dolermi per ciò che l’uomo ha fatto dell’uomo?”

(Wordsworth)

Chi si ponesse criticamente di fronte al Giorno della Memoria per denunciarne gli stereotipi retorici, la meccanica iterazione di frasi, i concetti inamidati, l’ostentazione di sentimenti, ne vedrebbe solo la superficie, cioè la sua natura di catechesi storica e politica, e non ne coglierebbe il senso profondo, che è quello di una liturgia, di un sacro Mistero. Noterebbe solo la sequela di panegirici o di condanne sociali e non il rigoroso palinsesto di un ufficio religioso, come una Messa in cui all’Introito segue l’atto penitenziale, il Gloria, l’omelia, l’offertorio, l’eucaristia, la benedizione e il liberatorio commiato.
Nelle celebrazioni di quest’anno forse la mascherina si unirà ad altri simboli della sofferenza umana, in un affratellamento ideale in cui baci e abbracci ecumenici saranno purtroppo proibiti. Forse l’espandersi di un Male psichico e storico verrà assimilato al contagio virale. Ci troveremo a ricapitolare per l’ennesima volta i numeri delle vittime, i luoghi, le circostanze, i fatti. Antichi e nuovi negazionismi verranno colpiti da un’analoga scomunica. Dovremo esibire pietà, sdegno, esecrazione e formulare sacri voti di libertà e democrazia: mai più barbarie, prosciugheremo i fiumi di sangue della Storia e faremo scorrere fiumi di latte e miele.
Sarà il solito intrecciarsi di agiografie, demonologie e martirologi.  I venerabili sopravvissuti allo sterminio, sempre più incartapecoriti, ci sfileranno davanti come in una devota ostensione di reliquie. Immersi nella sacralità del dolore, che purifica, attingeremo uno stato di innocenza e nobiltà. È un Rito che predispone i cuori alla fede, alla devozione e al pentimento. Dolersi dei suoi formalismi, dei suoi frusti e inderogabili luoghi comuni, sarebbe come lamentarsi per la ieratica fissità del Credo di Nicea. Questa rigidità è tipica di ogni dogma o verità rivelata. Sottoporla a critica razionale  significherebbe profanarne la natura mistica.
Si potrebbe obiettare che vi sono molti altri olocausti da ricordare. I massacri perpetrati ai danni di milioni di contadini ucraini o di nativi americani, di armeni, curdi, aborigeni australiani, le vittime dei khmer rossi, i dieci milioni di congolesi uccisi da Leopoldo II, i sei milioni di sudanesi massacrati dagli inglesi, le foibe, i roghi dell’Inquisizione, le stragi in Vandea, le guerre di religione, le campagne napoleoniche e garibaldine, le decine di milioni di cinesi vittime del maoismo, il genocidio del popolo tibetano o dei Tutsi nel Ruanda, le tante vittime degli stessi ebrei ecc.
Dunque ogni giorno dovremo dilungarci in commemorazioni sussiegose, far discorsi contriti sulla crudeltà e la follia umana? Recitare interminabili litanie di vittime e carnefici, giurando di astenerci per sempre dal male, ormai redenti e illuminati da un tragico passato? Confuse in una dolorosa moltitudine, tali ricorrenze perderebbero ogni significato e valore. La gente si trascinerebbe con malcelato tedio da una cerimonia all’altra, seguendo gli stanchi e coatti corifei.
Le scolaresche sarebbero precettate a compiere viaggi pedagogici in Cina, Cambogia, Vietnam, Australia, ex Unione sovietica, Africa, America del Nord e del Sud, a visitare ospedali, carceri, antiche camere di tortura ecc. Una liturgia della memoria tanto scrupolosa sarebbe una reductio ad absurdum. Le infamie da ricordare ed esecrare sarebbero così numerose che probabilmente le dimenticheremmo tutte.
Occorreva perciò scegliere un caso e renderlo summa dell’ingiustizia universale, vicario d’ogni altro dolore. Riassumere tutto in una Sacra Rappresentazione in cui si compiangesse la sofferenza di un popolo, icona assoluta della vittima, e insieme si aborrisse l’inumana ferocia dei suoi persecutori, sintesi di ogni prevaricazione e violenza. E così si è fatto. Il motivo della scelta è per altro insondabile, imperscrutabile come la ragione per cui un popolo è eletto da Dio.
Questo culto mnemonico mobilita la commozione popolare e definisce un’identità collettiva. Come un solerte segretario ci ricorda da che parte stanno il Bene e il Male, salvandoci dallo restar smarriti tra i dubbi e le perplessità della storia. L’ufficialità, l’unanimità delle emozioni, ci illumina e ci guida con la forza di un riflesso condizionato, e ci permette di prender posto tra i Giusti.
Il Giorno della Memoria separa le pecore dai capri. Con un giudizio universale e inappellabile divide vittime e colpevoli. Ci si chiede di compatire e condannare, e questo ci fa sentire tutti più virtuosi. Eppure, se cercasse nel fondo dell’anima, ogni uomo troverebbe una complicità col Male che dovrebbe renderlo cauto nel giudicare. Ma un sacro Mistero non può concedersi il dubbio su sé stesso. Perciò, come si brucia la Vecchia per propiziare il ritorno della primavera, si dà alle fiamme qualche emblematico Barbablù della storia per esorcizzare i fantasmi della nostra coscienza.
Riconoscendo la malvagità del prossimo, proiettiamo il Male fuori di noi e ce ne sentiamo liberati. Così la nostra società assolve sé stessa mediante la confessione dei peccati altrui. La memoria ufficiale diviene un fonte battesimale dove immergersi e sciacquarsi da una colpa originale. Esclusi dal lavacro collettivo, gli immondi, i mostri del passato, subiranno il rituale anatema, mentre noi, i purificati, formeremo l’assemblea dei Giudici e dei Santi.
Il piano della realtà si inclina e la storia scivola in una dimensione mitologica. L’ebreo, il nazista, il lager, i liberatori, diventano simboli di un dramma cosmico, di un’epopea metafisica; strumenti di un rito apotropaico che vorrebbe fugare gli spettri di guerre, torture e genocidi con parole e formule magiche. Così, risentiremo i triti sermoni, le frasi edificanti dietro cui si nasconde l’eterno opportunismo della politica, il suo incurabile cinismo. E dietro di loro, l’inemendabile natura umana.
Le forze distruttive che abitano l’uomo non verranno certo imbrigliate coi lacci di prediche ed esortazioni moraleggianti. Il nostro teorico amore per la pace sarà prima o poi contraddetto dalla pratica. La storia è da sempre un ribollire di empietà e violenza. Se l’uomo fosse buono e saggio per natura, la vita su questo pianeta avrebbe avuto un altro corso. Invece l’uomo è ambiguo, pietoso e crudele, avido e generoso, magma di forze contraddittorie, un mistero a sé stesso. Forse è questo che dovremmo ricordare.
Dovremmo dedicare un giorno alla memoria di un uomo che è nemico dell’uomo, nemico a sé stesso; che usa Dio e il Bene come pretesto per la guerra, il genocidio, la conquista, la distruzione del creato; che sentendosi popolo eletto o razza superiore si ritiene chiamato a dominare il mondo. E insieme dovremmo ricordare che lo stesso uomo era in origine un progetto d’amore. Quest’uomo non è né un nazista né un ebreo. Siamo noi. Se ci togliessimo le nostre lenti manichee, vedremmo che vincitori e vinti, vittime e colpevoli, son fatti della stessa stoffa. Ma noi pesiamo il passato con una bilancia contraffatta, accettando negli uni ciò che troviamo imperdonabile negli altri.
“Non dimenticare, per impedire che la storia si ripeta” è solo un’utopia puerile e non impedirà che la storia compia i suoi eterni ritorni. Chi può essere tanto ingenuo da credere che il ricordo dei mali passati ci preservi da quelli futuri? Dovremmo supporre che la gente da sempre soffra di gravi amnesie e che, scordando gli orrori del passato, vi ricada per un banale vuoto di memoria. Solo un’ipotesi tanto stupida può giustificare il vano esercizio scolastico che ci viene imposto: scrivere mille volte mai più! sulla lavagna della coscienza comune, come diligenti scolaretti. E illuderci che un tale espediente cambi il destino degli uomini.
In realtà, ci piace evocare il male perché ne siamo attratti. Ci affascina la violenza che conferisce potere sugli altri. Ovviamente, dal suo pulpito, qualche politico dirà che ogni violenza, di qualunque colore, va rigettata. E noi applaudiremo, aderendo toto corde a un così nobile principio. Perciò, quando la violenza ci apparirà necessaria, non la chiameremo col suo nome ma diremo che è dovere, responsabilità morale, obbligo di coscienza. E ne faremo una legge.
Con una logora e prevedibile retorica celebreremo ancora una volta l’apologia di noi stessi e del nostro sistema, che è il migliore dei sistemi possibili nei mondi possibili. Diremo che la pazzia e la cattiveria umana sono aberrazioni di cui soffrono solo tenebrose nature anti-democratiche ergo psicopatiche. L’autocompiacimento per i nostri sani sentimenti liberali si amplificherà in empatiche risonanze e ci offrirà una consolante catarsi.
La Messa è finita, andate in pace e in democrazia. Solo qualche scettico potrà sospettare che in tale tripudio di bontà e ipocrisia il fantasma della violenza passata serva a distrarci da quella presente. O che, ricordando le colpe di un regime da tempo sepolto, si vogliano obliterare i misfatti di un regime vivo e operante, favorendo altre e più opportune smemoratezze.