Cosa non si fa per amore della libertà
di Andrea Zhok - 15/06/2025
Fonte: Andrea Zhok
Una rapida escursione sulle pagine dei principali giornali, telegiornali e talk show mostra come sia partito l’ordine di scuderia alle giumente da lavoro del giornalismo italiano:
“È il momento del dissidente iraniano!”
E così da ieri si fa a gara a intervistare fuoriusciti e dissidenti iraniani, a dare voce con sguardo compunto e addolorato alle loro sofferenze spirituali e materiali, nel sacro nome della Libertà.
Il pattern è sempre lo stesso dall’era dei dissidenti russi, agli esuli cubani, ai rifugiati libici, iracheni, siriani, ecc. ecc. È come andare in bicicletta, una volta imparato lo fai anche ad occhi chiusi. Si alimenta e facilita economicamente, con permessi di soggiorno speciali, ecc. il costituirsi di reti di fuoriusciti, che devono alimentare la narrazione per cui il paese X, che vorremmo smantellare, altro non è che l’ennesima incarnazione del Male da espungere. Simultaneamente si esercitano tutte le pressioni sanzionatorie esterne per rendere la vita nel paese d’origine il più miserabile possibile, in modo da far crescere il numero degli scontenti. Se tutto funziona a dovere, prima o poi l’opinione pubblica è cotta abbastanza da giustificare qualunque porcata purché sia a detrimento di quell’incarnazione del Male, dalla Baia dei Porci al bombardamento di Baghdad.
(Per inciso, ogni tanto mi domando cosa accadrebbe se qualcuno facesse lo stesso gioco con i 100.000 giovani che lasciano l’Italia ogni anno. Dubito sarebbe difficile trovarne qualche centinaio che applaudirebbe a reti unificate la prospettiva di un “regime change” in Italia).
Bisogna dire che è sempre ammirevole vedere quanto terribilmente a cuore ci stanno i diritti umani violati (a nostro insindacabile giudizio) nel paese X, quando X possiede risorse che non è disposto a cedere per una bustarella. Allora il cuore dell’informazione italiana batte forte, desideroso di salvare dall’oppressione e dall’illibertà questa o quella “categoria debole” nei paesi oppressori.
Cosa non si fa per liberare le donne afghane! Duecentomila morti e venti anni di occupazione e tutto perché sentivamo l’impellente dovere morale di esportare i nostri valori. Con evidente successo.
Per non parlare della liberazione della popolazione irachena da un figuro brutto brutto brutto, laico sì, ma malvagio come Saddam Hussein: tra 600.000 e un milione di morti per esportare la nostra superiore civiltà. Alla fine hanno perso il conto perché dello stato iracheno non è rimasta più pietra su pietra per poter fare un censimento.
E quando abbiamo liberato la Libia dall’oppressione sanguinaria di Gheddafi? Bei tempi, eroici. Ora abbiamo finalmente un paese libero, prospero, emancipato. No?
Ora, questo giochino si potrebbe continuare a lungo. Le poche storie che non sono finite in tragedie abissali sono quelle in cui i famosi “governi oppressivi”, come a Cuba o in Venezuela, non hanno subito un regime change forzoso e hanno trovato la propria strada, faticosa, come ogni strada nel mondo reale, ancora più faticosa perché sabotata dai sedicenti “liberatori”, ma una strada tuttavia.
Ma il punto qualificante in questa discussione, almeno per me, francamente, non è una questione di politica internazionale, ma una questione eminentemente culturale e tutta interna, all’Occidente, all’Europa, all’Italia.
Quello che mi lascia sempre insieme stupito e inquieto e vedere come questo giochino mentale continui non solo ad essere tentato, ma a riuscire presso un’ampia fetta della popolazione. Cioè, quello che mi chiedo è come sia possibile che qualcuno possa davvero pensare che se il paese X viola i diritti umani (ammesso e non concesso lo faccia, ammesso e non concesso lo faccia secondo la nostra interpretazione di quei diritti, ecc.), allora fargli la guerra sarebbe giusto, rovesciare il loro governo sarebbe lodevole, sostituirlo con pupazzi occidentali sarebbe salutare, sradicare la loro cultura sarebbe meritorio, ecc.
Ora, dovrebbe essere ovvio anche a un deficiente terminale che un’aggressione militare a freddo, con 200 cacciabombardieri, che ha distrutto con tanto di contaminazione radioattiva una centrale nucleare (Natanz), che ha colpito aeroporti, condomini e aree civili, uccidendo il primo giorno 12 militari e 66 civili, in nessun mondo possibile può rientrare nella rubrica “Gli stiamo esportando la civiltà”.
Eppure, anche se questo argomento non viene svolto apertis verbis (perché così apparirebbe nella sua follia), di fatto è precisamente la leva argomentativa che viene usata: “Vedete, se cacciamo quei bruti islamici ed esportiamo McDonald’s a Teheran, renderemo felici quegli esuli, tutta gente come noi, gente che non mette copricapi buffi, gente che non soffre di paturnie identitarie, cittadini del mondo, come noi!”
Infatti noi stiamo così bene con noi stessi, siamo talmente sereni e appagati, che – curiosamente - non riusciamo proprio a starcene in pace a godere delle meraviglie del nostro mondo, ma saltabecchiamo ovunque sul globo a spiegare agli altri come vivere (e il grosso delle spiegazioni glielo diamo coi B-52, si fa prima).
Con una metafora. Ecco un paesetto (7/8 del globo) in cui esiste ancora una maggioranza di famiglie vecchio stampo, un po’ rigide, talvolta bacchettone, con la loro fisiologica dose di adolescenti ribelli. E d’un tratto arriva una carovana di tossici disfunzionali, sul perenne orlo di una crisi di nervi, a spiegarti che loro sono felicissimi, proprio una favola, e lo sono perché hanno roba buona, addirittura eccellente, e che tu saresti uno squallido piccolo borghese a non permettere che tua figlia si emancipi e veda la luce, provando un po’ di quella roba ottima che ci rende tanto felici. Alle tue rispettose repliche che, mai e poi mai vorresti deprivarli di quella roba così magnifica, “Grazie, stiamo bene così, come accettato”, la carovana comincia a prenderti a sassate le finestre di casa, spiegandoti che tutti i tuoi problemi vengono dal non saper accettare il dono che ti fanno. Per poi passare a dar fuoco al giardino e infine al tetto di casa. (Questa è quasi letteralmente la Guerra dell’Oppio (1839-1842), antesignano storico di tutte le “esportazioni dei dritti e delle libertà”; e quella storia non è mai finita.)