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Criminale continuità del regime sionista

di Claudio Mutti - 12/09/2025

Criminale continuità del regime sionista

Fonte: Giubbe rosse

La commissione toponomastica di alcuni comuni italiani ha voluto immortalare le personalità della storia recente che hanno ispirato la loro azione a nobili ideali di pace, di non violenza e di amore per il prossimo; abbiamo così strade, piazze e parchi che recano i nomi di Papa Giovanni XXIII, di John Kennedy, di Madre Teresa di Calcutta, di Martin Luther King, del Mahatma Gandhi. Ma siccome esistono anche strade intitolate a Yitzhak Rabin, “politico israeliano, uomo di pace”1, vale la pena di ripercorrere per sommi capi l’edificante biografia di questa illustre personalità, divenuta un’icona della tolleranza e della pacifica convivenza umana.

Yitzhak Rabin iniziò la sua carriera nel Palmach, la forza di combattimento ebraica istituita nel 1941 dall’esercito britannico e dalla Haganah in vista dell’invasione della Siria e del Libano, che all’epoca erano sotto il controllo della Francia di Vichy. Nel luglio 1948, in qualità di vicecomandante dell’Operazione Dani, che coinvolse quattro brigate delle Forze Israeliane di Difesa, Yitzhak Rabin firmò l’ordine di espulsione della popolazione araba dalle città palestinesi di Ramleh e di Lydda; nel 1967, quando era capo di stato maggiore dell’esercito, fu altrettanto attivo nei massacri di prigionieri di guerra arabi; nel 1987, durante la prima Intifada, Rabin – allora ministro della Difesa ad interim – ricordò ai soldati dell’“esercito più morale del mondo” che il loro dovere era di “spezzare le ossa” ai giovani manifestanti palestinesi. All’indomani delle elezioni del giugno 1992, che gli consentirono di formare un governo laburista dopo quello di destra presieduto da Yitzhak Shamir, ex terrorista della Banda Stern, Rabin dichiarò di essere pronto a svolgere la parte del “moderato”, ma senza fare nessuna concessione sostanziale ai Palestinesi. Difatti, mentre fra il 1992 e il 1993 protraeva i negoziati che avrebbero portato agli accordi di Oslo, Rabin poté insediare mezzo milione di coloni ebrei nei Territori Occupati, accelerando la colonizzazione in maniera decisiva. Il numero annuo dei cantieri, che tra il 1993 e il 1994 era di 480, nel 1995 salì a 1800. Nel suo ultimo discorso pubblico, prima che un pio connazionale lo facesse assurgere all’empireo dei martiri della pace, Rabin fu esplicito: “Ai Palestinesi – disse – daremo qualcosa che sia meno di uno Stato”, vale a dire nessuna sovranità reale, nessun controllo delle frontiere, nessuna garanzia per il diritto al ritorno. Il suo progetto prevedeva che il regime sionista conservasse il dominio sulla Palestina dal Giordano al Mediterraneo.

Il 10 dicembre 1994 il primo ministro Yitzhak Rabin e il presidente dell’OLP Yasser Arafat ricevettero il premio Nobel per gli sforzi compiuti nel processo di pace nel Vicino Oriente e culminati con gli accordi di Oslo. Insieme con loro venne insignito del Nobel il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres, che un anno e mezzo più tardi, in qualità di primo ministro di un governo laburista, autorizzò l’operazione “Grappoli d’ira”, nel corso della quale l’aeronautica militare israeliana effettuò un’incursione a Qana contro una base dell’UNIFIL (la forza di interposizione delle Nazioni Unite in Libano), dove avevano cercato rifugio ottocento civili. Nel bombardamento (18 aprile 1996) furono uccise centodue persone e ne rimasero ferite centoventi.

Prima che a Yitzhak Rabin e a Shimon Peres, nel 1978 il premio Nobel per la pace era stato conferito al primo ministro del regime sionista Menachem Begin, firmatario degli accordi di Camp David. Nella lunga carriera di quest’ultimo, iniziata nelle file del Betar, spiccano due celebri imprese: l’attentato dinamitardo al King David Hotel di Gerusalemme (22 luglio 1946), che provocò novantuno morti di diverse nazionalità, e la strage di Deir Yassin (9 aprile 1948), eseguita dai terroristi ebrei dell’Irgun e della Banda Stern su mandato dello stesso Begin. Centosette civili palestinesi – uomini, donne, vecchi, e una trentina di bambini2 – furono sterminati in un’azione che contribuì a diffondere il terrore fra la popolazione locale e la spinse a cercare scampo nei Paesi arabi confinanti.

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Di fronte al genocidio commesso nella Striscia di Gaza e al senso di orrore che ne è dilagato nel mondo intero, gli stessi ambienti internazionali e gli stessi uomini di governo che per varie ragioni (etniche, politiche, affaristiche o ideologiche) sono stati sempre solidali con l’ebraismo internazionale e col regime coloniale sionista hanno avvertito, tranne alcune eccezioni di sostenitori indefettibili, la necessità di mettersi al riparo dall’ondata di riprovazione suscitata da Israele. Perfino due organizzazioni non governative israeliane, B’Tselem e Physicians for Human Rights Israel (PHRI), hanno pubblicato due distinti rapporti che accusano il governo di Netanyahu di genocidio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza3. La stessa Corte penale internazionale, d’altronde, ha emesso un mandato d’arresto contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e contro l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandoli di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra commessi nella Striscia tra l’8 ottobre 2023 (il giorno successivo all’Operazione Diluvio al-Aqsa) fino ad almeno il 20 maggio 2024.

La tardiva, imbarazzata e ipocrita dissociazione – ufficiale e formale – dalle azioni criminali di Netanyahu e della soldataglia israeliana, che secondo i filosionisti potrebbero mettere a rischio il consenso accumulato in ottant’anni dallo Stato ebraico e suscitare il pericolo di un risorgente “antisemitismo”, richiama inevitabilmente una pratica rituale descritta e prescritta nel Vecchio Testamento. Si legge infatti nel Levitico che il Sommo Sacerdote “prenderà due capri e li farà stare davanti al Signore all’ingresso della tenda del convegno e getterà le sorti per vedere quale dei due debba essere del Signore e quale di Azazel. Farà quindi avvicinare il capro che è toccato in sorte al Signore e lo offrirà in sacrificio espiatorio: invece il capro che è toccato in sorte ad Azazel sarà posto vivo davanti al Signore, perché si compia il rito espiatorio su di lui e sia mandato poi ad Azazel nel deserto. (…) Poi poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria, sarà lasciato andare nel deserto”4.

Così, mentre si vorrebbe fare di Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant il capro espiatorio e il capro emissario della situazione, Menachem Begin, Yitzhak Rabin e Shimon Peres vengono evocati come esemplari “uomini di pace”, più degni di Benjamin Netanyahu di rappresentare gli autentici ideali del sionismo.

Ma Benjamin Netanyahu detto Bibi non è certamente l’unico responsabile delle “iniquità degli Israeliti”; né il dramma palestinese ha avuto inizio coi crimini commessi dal suo governo, sostenuto dall’estrema destra sionista, dai messianisti e dai cosiddetti ultraortodossi. Lungi dal costituire un’eccezione aberrante in contraddizione con gli autentici ideali ispiratori del sionismo, Netanyahu rappresenta soltanto l’ultima fase di un progetto di estirpazione etnica che, concepito ben prima della nascita dell’entità sionista, è stato attuato in maniera sistematica da tutti i governi dell’unica democrazia del Vicino Oriente: non solo da quelli della destra nazionalista e religiosa, ma anche da quelli sostenuti da coalizioni di sinistra, ovviamente “moderata”.

Il Mapai (“Partito dei Lavoratori di Eretz Yisrael”), forza politica egemone per diversi decenni nella sinistra sionista, nacque nel 1930 dalla fusione del partito marxista Akhdut Ha’avoda (“L’unione del lavoro”) con Hapoel Hatzair (“Il giovane lavoratore”), l’altro grande partito sionista di sinistra. Un ruolo decisivo nell’operazione politica che portò alla nascita del Mapai fu svolto da quello stesso David Ben Gurion che, proclamando il 14 maggio 1948 l’indipendenza del cosiddetto “Stato d’Israele”, diede il via alla Nakba, la “Catastrofe”: oltre 700.000 autoctoni furono espulsi con la forza dal territorio palestinese, centinaia di villaggi furono rasi al suolo, intere comunità vennero cancellate dalla carta geografica. L’esodo forzato dei Palestinesi non fu una conseguenza della guerra arabo-israeliana del 1948, perché la loro espulsione, quando la guerra scoppiò, si trovava già ad uno stadio avanzato; la feroce pulizia etnica della Palestina rientrava invece in un piano strategico inteso a creare nella colonia sionista una maggioranza ebraica omogenea. L’espulsione dei Palestinesi dalla loro patria fu preceduta da innumerevoli massacri e stragi. Quella di Deir Yassin, eseguita dai terroristi inviati da Menachem Begin, è solo la più famosa. Nel 1948, anno di fondazione del regime sionista, altri eccidi meno noti ma altrettanto efferati furono compiuti a Tantura, a Dawaymeh, a Lydda, a Ramla, dove intere comunità vennero annientate. Si trattò di un’operazione metodica e sistematica, che aveva lo scopo di cancellare la presenza araba dalla Palestina e di ristrutturare la geografia etnica del Paese sulla base di criteri conformi al progetto sionista.

Nel 1950 fu il governo laburista di David Ben Gurion ad emanare la “Legge sulle Proprietà degli Assenti”, che trasferiva allo Stato o ad enti sionisti i beni appartenenti ai Palestinesi espulsi e impediva loro di tornare in patria. Tra i principali beneficiari di questa spoliazione ci furono i kibbutzim, le comunità agricole di ispirazione collettivista che si insediarono sulle terre dei villaggi palestinesi distrutti.

Un altro episodio emblematico della ferocia che caratterizzò i governi del “moderato” Ben Gurion fu il massacro di Kafr Qasim, avvenuto il 29 ottobre 1956: quarantanove civili palestinesi – uomini, donne e bambini – furono uccisi a sangue freddo dalla polizia sionista mentre stavano rientrando dal lavoro nei campi, ignari del coprifuoco imposto all’ultimo momento. L’eccidio, avvenuto durante la crisi di Suez, fu a lungo occultato dal regime, ma lasciò un segno indelebile nella memoria collettiva palestinese.

Un altro laburista, Levi Eshkol, eletto leader del Mapai per volontà del dimissionario David Ben Gurion, nel 1963 divenne primo ministro e ministro della difesa. Fu lui, il 5 giugno 1967, a ordinare l’aggressione contro l’Egitto, la Giordania e la Siria, aggressione ufficialmente giustificata, in un messaggio diplomatico rivolto a Stati Uniti, URSS e Francia, come difesa preventiva… contro un secondo Olocausto. La vittoria militare di Israele, che triplicò la sua superficie fino a controllare tutta la Palestina, fu accompagnata da nuove operazioni di pulizia etnica. “Nel Golan le popolazioni che non erano fuggite durante i combattimenti furono espulse nelle settimane successive, ad eccezione di alcuni villaggi drusi per riguardo dei Drusi d’Israele. I villaggi arabi del Golan vennero sistematicamente rasi al suolo nei mesi seguenti. Il Golan siriano fu etnicamente epurato del 90% dei suoi abitanti. In Cisgiordania i combattimenti erano stati accompagnati da un inizio di esodo della popolazione, in particolare dei rifugiati del 1948. Il primo contingente di esuli (circa 70.000 persone) proveniva dai campi profughi del Giordano. Durante le operazioni militari Israele aveva fatto di tutto per facilitare le partenze. Erano state compiute delle ‘azioni psicologiche’ finalizzate a terrorizzare le popolazioni e spingerle a partire. Una parte della città di Qalqilya era stata distrutta. Tre villaggi nel corridoio di al-Latrun erano stati completamente rasi al suolo. (…) Nella striscia di Gaza gl’Israeliani spinsero la popolazione verso la Cisgiordania ed eventualmente verso l’altra sponda del Giordano. Il 15 giugno, discutendo delle prospettive future, i dirigenti israeliani presero in considerazione anche i trasferimenti di popolazione da Gaza verso il Sinai”5. In ogni caso, l’esodo del 1967 interessò soprattutto le regioni vicine alla nuova linea del cessate il fuoco: la valle del Giordano perse l’88% della sua popolazione, il Golan ancora di più. In quell’anno il numero dei profughi salì a 250.000; o a 320.000, se si tiene conto dei “trasferimenti” all’interno dei territori occupati. Quanto a Gerusalemme, venne immediatamente raso al suolo il quartiere magrebino, col pretesto che si trattava di un aggregato di case vecchie. A partire dal 24 settembre 1967 il governo di Levi Eshkol autorizzò l’insediamento di colonie ebraiche in Cisgiordania e nel Golan.

Un altro laburista, Ehud Barak, in qualità di ministro della difesa guidò dal dicembre 2008 al gennaio 2009 l’operazione contro Gaza passata alla storia col nome di “Piombo Fuso”, durante la quale l’esercito israeliano fece uso di fosforo bianco contro la popolazione civile6.

Oggi perciò Netanyahu, al di là delle divergenze tra gli schieramenti di “destra” e di “sinistra”, non sta facendo altro che proseguire sulla linea tracciata da coloro che lo hanno preceduto nella guida della criminale entità sionista.

*Direttore di “Eurasia”.

1A Padova sono stati intitolati a Yitzhak Rabin un parco e una piazza; strade intitolate a Rabin si trovano a San Martino in Strada (Lodi), Gavardo (Brescia) Arzano (Napoli), Pignataro Maggiore (Caserta), a Bitritto (Bari), a Favara (Agrigento), a Palermo, a Nuoro.

2“Spararono (…) a un gruppo di bambini allineati contro un muro, che gli ebrei crivellarono di colpi ‘solo per divertimento’ prima di andarsene” (Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi editore, Roma 2008, p. 117).

3ANSA, Ong israeliane, a Gaza si sta commettendo un genocidio. Per prima volta rapporto interno segnala responsabilità Israele 28 luglio 2025.

4Levitico 16, 7-10 e 21-22.

5Youssef Hindi, Il conflitto israelo-palestinese, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2024, p. 91-92.

6 Sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano si veda il rapporto redatto al termine della Missione conoscitiva istituita dalle Nazioni Unite: Richard J. Goldstone, Il rapporto Goldstone sui crimini israeliani a Gaza, Effepi, Genova 2009.