Europa, identità e differenza
di Alberto Giovanni Biuso - 23/06/2025
Fonte: GRECE Italia
Identità e Differenza costituiscono uno dei fondamenti dell’essere di tutte le cose. Le strutture naturali e politiche più interessanti e durature sono anche quelle che esprimono o accolgono tale principio, che non è un concetto mentale ma è un dispositivo ontologico.
L’interesse, la durata e la forza della struttura antropologica, culturale e politica che chiamiamo Europa si fonda anche su tale dispositivo. L’Europa infatti è sempre stata una civiltà plurale e stratificata, all’interno però di una configurazione ben riconoscibile e delineata. «Tous les Européens ne sont peu-être pas européens de la même manière» e tuttavia sono sempre riconoscibili come europei (O. Eichenlaub, in Cahier d’études pour une pensée européenne – Europe, Numéro 1, 2024, p. 38).
Una identità forte è infatti necessaria semplicemente per costituire una realtà non del tutto effimera e pronta a dissolversi al minimo mutamento. Ma l’identità da sola rischia di sclerotizzarsi in un essere senza divenire.
La differenza è dunque fondamentale per la legittimazione e l’espansione delle forze e delle tendenze più varie, le quali rafforzano la struttura che se ne fa portatrice. Ma la differenza da sola costituirebbe una ragione di sicura dissoluzione, come accadrebbe con una identità esclusiva. Anche se le modalità sono diverse, il risultato è pertanto lo stesso.
Nella dimensione antropologica questo significa che è «la diversité des peuples et des cultures qui conditionne la richesse et la beauté du monde. Face à toute forme d’universalisme ou d’assimilation universalisante, l’Europe doit privilégier pour elle-même une position différentialiste fondée sur le relativisme culturel, tel qu’il peut être identifié, à différents degrés, depuis Johann Gottfried von Herder jusqu’à Claude Lévi-Strauss» (W. Aubrig & O. Eichenlaub, 104).
Le grandi tappe della storia europea si sono dispiegate a partire da tale gioco di identità e differenza, di continuità e di mutamento, di tradizione e di innovazione, di costanza e di invenzione (ed è un elenco che potrebbe essere ampliato): «L’expansion celtique, l’aube grecque de la pensée, l’essor de l’imperium romain, la renovatio imperii carolingienne et germanique, le retour aux sources pérennes du génie antique à l’époque de la ‘Renaissance’, le réveil de la conscience identitaire des peuples européens au milieu du XIXe siècle» (Éditorial, 3).
La dinamica che chiamiamo Europa è a sua volta parte di uno spazio assai più ampio, l’Eurasia, della quale i territori che vanno dal’Atlantico a Mosca costituiscono soltanto la zona occidentale. E questo durante i secoli ha fatto sì che le comunità a occidente abbiano a loro volta vissuto una costante dinamica di identità e differenza con i territori che oggi chiamiamo Russia e Turchia. L’articolazione dei rapporti tra tali spazi è stata sempre conflittuale e sempre anche inevitabilmente solidale. E questo anche perché «en intégrant la Russie, l’Europe est bien trop grande; mais en l’omettant, elle est incomplète. Entre ces deux options, la Russie n’est ni en Europe ni hors de l’Europe; elle est à cheval entre l’ensemble européen et l’ensemble asiatique, dont elle concrétise la jonction géographique. C’est un confin européen, et à ce titre, un élément déterminant constitutif de l’Europe en elle-même» (O. Eichenlaub, 41). Esatto: il confine sempre aperto con gli spazi, i territori, la civiltà della Russia è uno dei più forti elementi di identità che costantemente percorre la storia dell’intera Europa.
Ciò che oggi chiamiamo Turchia rappresenta un territorio che ha visto sia lo scontro sia gli scambi fecondi tra i popoli greci e quelli persiani, tra l’impero romano e quello iranico/sassanide, tra i cristiani bizantini e gli islamici ottomani. Città a noi ben note come Efeso, Alicarnasso, Troia, Colofone, Mileto, si trovano oggi tutte nel territorio della Repubblica turca. Anche per questo «la Turquie regroupe una grand partie du patrimoine auquel on se réfère quand on évoque l’héritage grec» (O. Eichenlaub, 41).
Il gioco culturale e antropologico di identità e differenza ha avuto uno dei suoi massimi risultati negli accordi del 1648 che posero fine ai massacri religiosi e politici dell’Europa moderna. Tre dei princìpi fondamentali delle Paci di Westfalia sono gli stessi che possono contribuire (anche oggi) non soltanto a concludere le guerre ma anche e specialmente a non prepararne di nuove.
Essi sono: 1. l’equilibrio tra le potenze, che impedisca a una di esse, diventata troppo forte, di porre a repentaglio la sicurezza e la libertà delle altre; 2. il divieto di ingerenza negli affari interni degli altri stati, qualunque sia il motivo, anche il più moralmente nobile (come portare la vera religione, regole giuridiche più moderne, diritti umani, lo sviluppo tecnologico, il benessere, l’equilibrio ecologico, e così via); 3. il dimenticare i conflitti precedenti e non rivendicare di continuo i torti subiti da una delle parti, poiché in amnestia consistit substantia pacis (W. Aubrig, 65).
La fine della pace e della libertà in Europa a partire dalla Prima guerra mondiale è stata prodotta esattamente dall’abbandono di tali princìpi, sostituiti dall’universalismo moralistico ed escatologico della potenza pro tempore più forte, che si introduce di continuo negli affari interni degli altri Stati e delle altre comunità.
L’Europa è in questo modo annegata nell’universalismo e nella globalizzazione, delle quali la struttura che si definisce Unione Europea costituisce una conseguenza. Una conseguenza distruttiva per l’Europa, essendo essa una organizzazione progettata dagli Stati Uniti d’America sin dalla fine della Seconda guerra mondiale (Altiero Spinelli si incontrò più volte con esponenti del governo statunitense e anche della CIA). Come ha ben mostrato la storiografia, infatti, «l’Amérique du Nord n’a jamais été pensée par ses fondateurs comme une colonie européenne ; mais l’Europe, sous de nombreux aspects, est bel et bien spirituellement colonisée par les États-Unis, dont la stratégie d’expansion impériale port le nome d’Occident» (W. Aubrig & O. Eichenlaub, 103).
L’identità e la differenza dell’Europa hanno dunque poco a che fare con l’occidente anglosassone e molto invece con la storia dell’Eurasia. Se c’è qualche possibilità di sopravvivenza dell’Europa (personalmente sono piuttosto scettico), essa ha come condizione anche il riavvicinamento alla Russia, cioè a una parte fondamentale della propria vicenda.
Il paesaggio politico e antropologico di fronte al quale invece ci troviamo negli anni Venti del XXI secolo è un paesaggio occidentalista e atlantista. Non è neppure «un monde de ruines», le quali costituiscono ancora l’espressione e la testimonianza di una identità, ma è semplicemente e tristemente «un monde de décombres» (A. Berger, 206). Ricostruire da queste macerie, dopo il suicidio dell’Europa nella Prima guerra mondiale e gli enormi danni dell’occidentalismo che ne è seguito, non sarà facile. Ma almeno dobbiamo sapere che altri itinerari portano solo alla catastrofe.