La National Security Strategy americana: cambia il direttore d’orchestra, non la musica
di Salvo Ardizzone - 11/12/2025

Fonte: Italicum
La non notizia è che la National Security Strategy americana, pubblicata pochi giorni fa, ricalca esattamente ciò che Trump ha detto in campagna elettorale e mette già in atto quando può. Quanto potrà metterla in pratica, con buona parte dell’Amministrazione che gli rema contro e i neocon, incistati in ogni centro di potere,pronti a fare sfracelli è altro discorso.
Il documento è in linea con quanto già anticipato a settembre da Washington Post e Politico: è una dichiarazione di guerra contro i nemici interni, identificati nei liberal e nella loro ideologia, indicati come la causa d’ogni male che affligge l’America e giudicati il vero pericolo da combattere in ogni modo; in pratica, ogni pecca del Sistema Usa è scaricata su di loro.
Altri punti salienti sono il rifiuto dell’egemonia globale, ritenuta un costo troppo alto che ha condotto gli Stati Uniti sull’orlo dell’abisso, e la focalizzazione sull’emisfero occidentale che va totalmente controllato, con le buone o le cattive poco importa, e da cui vanno espulse le influenze di altre potenze, presenti o anche solo possibili. È un espresso riferimento alla Dottrina Monroe, con dichiarato Corollario Trump, con ciò definendo la strategia enunciata. E con ciò si spiegano le mire su Groenlandia, Canada, Panama e la pressione militare sul Venezuela.
Questo apre a una visione del mondo policentrica, la presa d’atto che esistono ormai altri poli con cui spartirsi il mondo in sfere d’influenza e fare business. Ma, attenzione: a leggere bene le 33 pagine, non v’è alcun rigetto del tradizionale approccio predatorio americano. È una plateale contraddizione perché, se da un canto rimprovera alle precedenti Amministrazioni colpi di stato e cambi di regime, e fa della sovranità nazionale un mantra, ciò non vale quando è in gioco qualcosa che gli Usa giudicano di proprio interesse, è ciò è particolarmente chiaro nelle Americhe. Né nel resto del pianeta va meglio: persiste intatto il concetto che per tutelare gli interessi Usa il mondo debba girare coerentemente a essi.
La visione centrale nel documento è il deal, l’accordo, ma beninteso: quanto più sbilanciato possibile sulla propria convenienza, ricorrendo a ricatti, pressioni finanziarie, commerciali, politiche, securitarie, esercitati su base strettamente bilaterale, ovvero Stati Uniti vs singola nazione, su cui gettare tutto il peso dell’America. Possibilmente bluffando, senza farsi alcuno scrupolo e senza porsi il problema d’esser costretti a precipitose retromarce.
Per questo Trump rispetta chi sa mostrarsi duro e disprezza chi si dimostra debole, strappandogli tutto ciò che può. Del resto, lo si è visto col trattamento diametralmente opposto riservato a Cina, Russia, India, Turchia, e persino all’Ungheria, e quello destinato alla UE e ai suoi campioni. E allo stesso modo si spiega l’insofferenza per le istituzioni internazionale (G7, G20 o altro) viste come limitazione o impaccio.
È una prassi già largamente mostrata nel primo anno della sua Presidenza, ovvero un rovesciamento delle messianiche visioni di dominio globale che guidano i neocon e che hanno permeato fino al midollo quadri e dirigenti dell’establishment Usa.
In funzione di ciò, le tradizionali priorità americane sono capovolte, con drastica diminuzione del peso assegnato al teatro europeo (ma su questo torneremo), ridimensionamento del Medio Oriente, visto con sempre maggiore insofferenza come una zavorra, e la riconferma della marginalità attribuita all’Africa, da cui strappare ciò che si può senza un impegno serio, al più focalizzato sull’ostacolare i concorrenti. Se poi Trump riuscirà a sganciarsi da quei teatri, in primis da Medio Oriente e da Israele, divenuto sì scheggia impazzita ingovernabile, ma pur sempre Stella Polare di neocon e lobby, è ancora una volta altro discorso.
In base all’impostazione della Security Strategy, l’accordo con la Russia è nelle cose, tanto da far parlare con insistenza d’un possibile reciproco patto di non aggressione, e per tre ordini di ragioni: il primo è costituito dagli interessi colossali nello sfruttamento dell’Artico e delle immense materie prime russe. Il secondo è che, accordandosi con Mosca, Washington allenta l’abbraccio della Russia con la Cina, e questo non spiace neanche al Cremlino, che così avrebbe altre carte da giocare. Il terzo, che facilita tutto, è che Trump e Putin si prendono. Sono fatti per andare d’accordo. Inoltre, e non guasta affatto, i due nutrono un comune disprezzo, del resto del tutto giustificato, per i paesi dello spazio europeo, e un loro accordo per meglio sfruttarli va da sé, al di là dello scomposto agitarsi delle euro-leadership.
Una notazione: molti hanno visto in questa assai probabile intesa una sorta di nuova Yalta. Non sono d’accordo. Allora Mosca e Washington si spartirono il mondo, prospettiva del tutto irrealistica in un pianeta divenuto policentrico. Per cui: definizione di reciproci interessi e rispettive sfere d’influenza, sì, è assai probabile, e del resto Storia insegna che l’Europa ricade nella cosiddetta sfera occidentale di cui Trump rivendica il totale controllo, mentre la Russia rivendica la primazia sull’ex spazio sovietico e l’influenza in altre parti del mondo trascurate dagli Usa (vedi Africa). Ma tutto ciò tenendo in conto degli interessi degli altri poli e con eventuali concessioni fatte a essi in altre aree del pianeta, pena il sorgere di conflitti che nessuno vuole. Un esempio possibile: il Venezuela, oggetto d’interessi cinesi e russi, potrebbe essere lasciato sostanzialmente solo dinanzi agli Usa, in cambio di comprensione per gli interessi di Pechino e Mosca altrove. Se poi l’America dovesse impantanarsi in un intervento scriteriato, non sarebbero loro a dolersi.
Con l’Indo-Pacifico e la Cina è tutt’altra questione. A Washington sanno tutti che il fulcro del mondo s’è spostato lì da tempo e temono che Pechino possa egemonizzarlo. Trump ha provato a fare la voce grossa, ma ha dovuto battere in ritirata perché la Cina è ormai fuori scala: ridicolo pensare di bullizzare chi ha le chiavi dell’economia globale. Al massimo può tentare di contenerla, ammesso che ci riesca e non gli si ritorca contro.
Per questo, a tal proposito, la Security Strategy è conciliante nella forma, non può fare altro, ma tutt’altro che rassegnata ad abbozzare nella sostanza. Il fatto è che, sdoganando il concetto d’esclusiva sfera d’influenza, indirettamente giustifica e legittima le aspirazioni di Pechino su Taiwan e sul Mar Cinese, senza però rinunciarvi apertamente.
Istruttiva in tal senso è la vicenda della nuova premier giapponese, Sanae Takaichi: sul filo della narrazione americana, in un recente discorso nella sostanza ha dichiarato che, se Pechino minacciasse seriamente Taiwan, Tokio vedrebbe in pericolo i suoi interessi nazionali e muoverebbe i suoi assetti militari. Con ciò suscitando le durissime reazioni della Cina - che ritiene l’isola una questione interna e linea rossa irrinunciabile – senza che dall’Amministrazione Usa venisse una parola in suo sostegno. In pratica, la Casa Bianca vuole che i suoi alleati/sudditi dell’Indo-Pacifico s’impegnino a contenere e contrastare il Dragone, ma guardandosi dall’impegnarsi accanto a loro. Almeno per ora.
Del resto, i legami economici e commerciali che Pechino ha stretto con i paesi dell’Asean e con l’intero Indo-Pacifico sono enormi e, francamente, è impensabile che qualcuno decida di sacrificarli suicidando le proprie economie. In questo quadro, neppure l’India, storica avversaria della Cina. A maggior ragione quando Washington si pone in termini di puro, cinico tornaconto.
E ora vengo a ciò che più importa a chi abita in Europa, perché l’attacco nei confronti delle leadership europee, contenuto nella Security Strategy, è di una dimensione e violenza del tutto inusitata per un documento ufficiale. A ben guardare, sembra dettato da J.D. Vance, che nel febbraio scorso aveva anticipato molti di quei concetti alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco.
E qui, prima di proseguire, mi è obbligo fare una notazione: il concetto di Occidente oggi diffuso, non ha alcuna relazione con quello di Spengler e Schmitt. È pura invenzione americana, è America debordata da questa parte dell’Atlantico nelle versioni liberal o conservatrice. Fu uno scippo di termine per dare una bandiera a sé e all’impero che gli Usa stavano fondando dopo il 1945. Con Trump l’America lo dismette insieme all’impero che fu, tornando all’America nazione centrata su se stessa, ripudiando le leadership europee che essa ha allevato e selezionato per tre generazioni. Con quale sconcerto fra queste è facile comprendere.
È da notare che quelle leadership, rimaste orfane di tutela e impero, sono oggi criticate, anzi, demonizzate, perché hanno fatto esattamente quello che gli hanno imposto i precedenti inquilini della Casa Bianca. Sempre sacrificando gli interessi nazionali degli stati europei nell’interesse Usa.
Molti diranno e dicono che Trump è il leader globale dei sovranisti e lo applaudono come un liberatore ma, a parte che accostare sovranismo e globalismo fa a pugni, si stenta a comprendere che Trump è americano e prova a fare ciò che ritiene gli interessi del suo blocco di potere in particolare e degli Stati Uniti in generale. Punto.
Del resto, al di là della vulgata mainstream, l’Europa non è mai stata un soggetto politico e meno che mai lo è adesso. Piaccia o no è un termine geografico che nella storia ha avuto un’estensione assai variabile. Soprattutto a est. E i soggetti politici che ricadono in quest’area, dal 1945 non hanno sovranità compiuta, subordinati prima a due co-egemoni, poi a un unico egemone che li ha manovrati a sua discrezione. E, malgrado la National Strategy critichi apertamente i pesantissimi interventi, condizionamenti, pressioni e ingerenze d’ogni tipo operati dalle Amministrazioni del passato, poi dedica sette punti alle azioni che si ripromette per mettere in riga le nazioni europee. Al di là delle parole, a esse è ingiunto di allinearsi al verbo dell’Amministrazione Trump; verrebbe da dire: cosa c’è di nuovo? È sempre accaduto. E accadrebbe ancora se, per ipotesi, una nuova Amministrazione di segno inverso dovesse succedere all’attuale.
Del resto, se c’è un continuum, è che gli Usa hanno sempre usato gli europei come sudditi, meglio, servi: per restare ai tempi recenti, l’Amministrazione Biden li ha cacciati in una guerra con la Russia, affossando le loro economie e favorendo la loro deindustrializzazione per l’interesse degli Usa (vedi l’Inflation Reduction Act, mirato sulle industrie europee, e le vendite di energia a costi spropositati). L’Amministrazione Trump è andata ancora oltre: ricordate gli impegni per l’acquisto di 750 Mrd di energia americana con quel che costa, imposti insieme a 600 Mrd d’investimenti negli Usa – beninteso, gestiti da loro – e il diktat sul 5% del PIL in spese per armamenti, naturalmente destinati in larga parte a industrie americane? Se questi sono gli amici…
Tanto altro ci sarebbe ancora da dire ma, per necessità di sintesi, vengo all’ultimo punto che voglio toccare: il futuro della NATO. S’è detto e ripetuto che la Security Strategy segna la fine dell’Alleanza Atlantica. Non sono d’accordo. Da quanto si legge, emerge a chiare lettere che chi vorrà rimanere ancorato all’emisfero occidentale, senza incorrere nei fulmini degli Usa, dovrà contribuire alle iniziative dell’ex Egemone globale scaduto a Egemone dell’area.
È la NATO “latente”, da attivare quando gli interessi degli Stati Uniti – considerati quelli di tutto l’Occidente - lo richiedano. Punto. Qui non si parla tanto di NATO militare, mezzi uomini e assetti con i loro comandi, ma di quella politica che li muove ed è sempre stata sintonizzata su Washington. Ancora una volta nulla di nuovo, se si considerano le avventure dell’Alleanza in Kosovo, Afghanistan, Libia e via discorrendo, sempre al seguito degli Usa. È solo cambiato il direttore d’orchestra, non la musica. Agli orchestrali europei, rimasti inclini al direttore di prima, farsene una ragione.
Ultimissima notazione in merito alla guerra in Ucraina: alla luce di quanto detto, è destinata a rapida liquidazione. Piaccia o no alle leadership europee, rimaste fisse sul concerto precedente. Rimane all’Occidente - e agli Usa che continuano a dirigerlo - tentare d’applicare un concetto ben chiaro ai suoi competitor, in questo caso la Russia, assai poco a sé: l’importante è vincere la pace, e pace stabile, da proiettare nel tempo a beneficio dell’intero corpo sociale, non di una sua parte, di una fazione. Pena, alla lunga, il logoramento e l’implosione, di cui già s’avvertono tutte le avvisaglie. È attitudine estranea agli Stati Uniti, semmai l’hanno imparata, della qualcosa dubito. Ormai da generazioni obliata nelle terre d’Europa, causa tre generazioni di servaggio.
Articolo tratto dalla rubrica Il Filo Rosso, condotta dall’Autore sul canale YouTube Il Vaso di Pandora

