Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Eutanasia e suicidio assistito. La deriva silenziosa della nostra civiltà

Eutanasia e suicidio assistito. La deriva silenziosa della nostra civiltà

di Massimo Fioranelli - 19/11/2025

Eutanasia e suicidio assistito. La deriva silenziosa della nostra civiltà

Fonte: Massimo Fioranelli

Da anni il dibattito pubblico su eutanasia e suicidio assistito viene confezionato come un segnale di progresso. La fine dell’arretratezza culturale. L’ingresso in una modernità più matura, capace di riconoscere il diritto a decidere quando e come morire. È un racconto seducente, calibrato per apparire inevitabile. In realtà nasconde una trasformazione profonda che riguarda non solo il singolo individuo ma l’intera architettura morale della società.
Per comprendere davvero questo cambio di paradigma dobbiamo partire da una domanda semplice. Da dove nasce oggi la richiesta di eutanasia? Nasce dall’autodeterminazione? Oppure nasce da un sistema sociale che non regge più il peso dei suoi fragili, dei suoi malati, dei suoi anziani? Lo sguardo lucido mostra una verità che molti preferiscono ignorare. L’eutanasia non è la risposta moderna ad un bisogno antico. È il prodotto di una società che ha smesso di occuparsi degli ultimi. Che non investe più nelle cure palliative, nell’assistenza domiciliare, nella medicina territoriale, nell’accompagnamento al fine vita. Quando la cura si indebolisce, la morte diventa una scorciatoia presentata come liberazione.
Non è un caso se le spinte legislative arrivano sempre insieme a un arretramento dello Stato sociale. Quando mancano strutture, medici, infermieri, psicologi, volontari, risorse economiche, tempo umano. Quando la solitudine del malato diventa un fatto privato e non più una responsabilità collettiva. È in quel vuoto che la morte programmata viene raccontata come gesto di pietà. Una soluzione rapida, ordinata, pulita. Una soluzione che permette allo Stato di dichiarare concluso un capitolo che non sa più gestire.
Dietro l’idea del suicidio assistito si muove un disegno più grande. Un disegno che appartiene alla logica del globalismo contemporaneo, che vede nella vita un bene amministrabile e nella morte un atto regolabile attraverso procedure standard. È il trionfo della mentalità tecnica. La vita diventa un dossier, la sofferenza un parametro, la morte un servizio. Siamo a un passo da una società in cui il valore della persona sarà definito dalla sua efficienza e dal suo costo. È questa la vera minaccia. Non la libertà, ma la trasformazione dell’essere umano in un elemento di bilancio.
Nel dibattito pubblico ricorre un’espressione ingannevole: “buona morte”. Una formula che sembra rassicurante. Ma la buona morte non esiste. Esiste il buon accompagnamento. Esiste la medicina che si chiede come alleviare il dolore, come sostenere l’angoscia, come aiutare una famiglia smarrita. Esistono medici che sanno entrare nel silenzio di un paziente e restare accanto a lui con responsabilità e umanità. Tutto questo però richiede risorse, attenzione, tempo. Richiede uno Stato che considera la fragilità non un intralcio ma una parte della vita da proteggere.
Il suicidio assistito non richiede nulla di tutto questo. Bastano un protocollo, una stanza, una firma. È la risposta più semplice in un sistema che non vuole più interrogarsi sulle proprie mancanze. La libertà individuale viene invocata come scudo. Ma quale libertà è possibile nel deserto dell’abbandono? È libero chi sceglie la morte perché non riceve più cure? È libero chi non ha nessuno accanto? È libero chi non è sostenuto da un sistema sanitario in grado di accompagnarlo fino all’ultimo istante?
La retorica delle scelte individuali nasconde un contesto strutturale. Nasconde la solitudine. Nasconde l’impoverimento progressivo della sanità pubblica. Nasconde il fatto che molti malati considerati “senza speranza” non chiederebbero la morte se avessero a disposizione un’assistenza adeguata, una cura competente, un sostegno psicologico, la presenza di un familiare non costretto a implorare congedi impossibili. La richiesta di morire è spesso la richiesta di non essere lasciati soli.
Il compito della medicina non è dare la morte. Non lo è mai stato. La sua missione è curare, sostenere, lenire. Anche quando non può guarire. La medicina che accompagna rende la morte un momento umano, non tecnico. Restituisce dignità alla persona e alla sua famiglia. Permette di attraversare la malattia senza abbandono, senza paura, senza essere trattati come problemi da risolvere.
La deriva che si sta affermando non riguarda solo l’atto finale. Riguarda l’idea stessa di società. Una comunità che comincia a legittimare l’eliminazione dei più fragili è una comunità che ha perso la sua direzione morale. Che ha rinunciato all’essenza stessa della civiltà, nata per proteggere chi non può proteggersi da solo. Se la vita diventa negoziabile, tutto diventa negoziabile. La malattia, la disabilità, la vecchiaia diventano categorie amministrative. La compassione diventa gestione. La dignità diventa un criterio misurabile.
Non è progresso. È un arretramento. È la rinuncia a ciò che ci definisce come esseri umani.
Difendere la vita non significa imporre sofferenza. Significa impedire che la sofferenza diventi un pretesto per smantellare lo Stato sociale. Significa proteggere chi è fragile. Significa costruire una società capace di accompagnare e non di eliminare. Significa rifiutare l’idea che la morte possa essere la soluzione standard a problemi complessi che richiederebbero investimenti, responsabilità e cura.
Eutanasia e suicidio assistito non sono l’orizzonte della libertà. Sono il punto in cui una civiltà stanca decide di ritirarsi, consegnando i suoi deboli a un destino presentato come scelta. Una scelta che, troppo spesso, nasconde il vuoto che noi stessi abbiamo creato.
Una società che abbandona i fragili è una società che abbandona se stessa. E il prezzo, alla fine, lo pagano tutti.

Massimo Fioranelli  (Cardiochirurgo)