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Fake News, una nuova caccia alle streghe

di Enrica Perucchietti - 08/12/2020

Fake News, una nuova caccia alle streghe

Fonte: Nazione futura

Enrica Perucchietti, giornalista e scrittrice, torna in libreria con Fake News. Come il potere controlla i media e censura l’informazione indipendente per ottenere il consenso. Un libro che descrive il mondo distopico in cui ci siamo trovati catapultati in questi ultimi mesi. Analisi, descrizioni, commenti e riflessioni per smascherare il potere che controlla l’informazione e oscura il dissenso.

  • Fake News intende smascherare il potere che controlla i media e censura l’informazione. Crede che la battaglia contro le fake news si presenti come una nuova caccia alle streghe?

Sì, ritengo che l’attuale battaglia contro le cosiddette fake news sia in realtà una articolata caccia alle streghe che ha come obiettivo la repressione del dissenso. Entrata nel vivo negli ultimi tre anni, essa ha raggiunto il suo apice durante il lockdown, con la censura in Rete di contenuti che l’algoritmo di turno non riteneva convergenti con la narrativa ufficiale sul Covid-19. Da una parte questa moderna caccia alle streghe strumentalizza la questione del cyberbullismo, dell’odio e della disinformazione sul web, per portare all’approvazione di una censura della Rete, arrivando a ipotizzare, dal DDL Gambaro alla Commissione parlamentare  d’inchiesta sulle fake news, l’introduzione di nuove leggi o di forme di ammenda e di prigionia per coloro che divulghino notizie «false, esagerate, tendenziose, che riguardino dati o fatti manifestamente infondati o falsi»; norme che richiamano alla mente il reato d’opinione (una moderna forma di psicoreato orwelliano), con il quale non si vuole colpire tanto la notizia infondata quanto piuttosto il dissenso in generale.

  • La classe politica preconfeziona le notizie per guadagnarsi il consenso e oscurare il dissenso?

La propaganda è sempre stata, anche in democrazia, uno strumento per plasmare l’opinione pubblica ed eterodirigere il consenso. La politica, e più in generale il potere, ha interesse a indirizzare l’informazione che soprattutto negli ultimi mesi è diventata a tratti indistinguibile dalla propaganda. Un esempio recente è il D.L. 34/2020 (cd. “Decreto Rilancio”) che ha previsto all’art. 195, lo stanziamento di 50 milioni di euro per l’erogazione di un contributo straordinario in favore delle emittenti radiotelevisive locali (quindi spot) che si impegnano a trasmettere messaggi di comunicazione istituzionale relativi all’emergenza sanitaria all’interno dei propri spazi informativi. Possiamo immaginare come molti editori, pur di accedere a questi finanziamenti, arriveranno ad accettare di trasmettere gli spot istituzionali e ad allineare la propria linea editoriale in una versione filo-governativa. Ciò a propria volta porterà a plasmare l’opinione pubblica orientando il consenso nella direzione prestabilita dall’alto (in questo caso dal Governo). L’informazione di massa che si diffonde tramite i media mainstream e che beneficia di investimenti è costretta a sottostare a specifiche linee editoriali e alla volontà (o al capriccio) degli sponsor. Inclusa, ovviamente, la censura.

  • Si sta diffondendo quella che le lei definisce “la psicosi antirazzista”. Di cosa si tratta?

Rientra nel progressismo politicamente corretto che da anni sta cercando di riprogrammare le coscienze. Invece di sensibilizzare i cittadini su temi delicati, cerca di convertire le masse con la violenza, la psicosi e l’isteria, rifiutando qualunque tipo di confronto. Si è creata cioè una forma di psicopolizia arcobaleno e politicamente corretta che non tollera deviazioni dal pensiero unico che è feroce quanto implacabile. Pensiamo per esempio al Black Lives Matter: il movimento nato in seguito all’uccisione di George Floyd ha decretato la messa al bando di film perché considerati razzisti, sessisti, omotransfobici, («Variety», la rivista-culto americana per gli appassionati di cinema di tutto il mondo, ha pubblicato una lista di dieci film giudicati “pericolosi” da Via col Vento a Forrest Gump), opere letterarie (da Dante a Lovecraft), termini ritenuti razzisti e l’abbattimento iconoclasta di statue. Ciò ha generato una vera e propria psicosi che ha investito ambiti inaspettati, modificando ancora una volta la lingua e vietando l’utilizzo di termini tabù. L’Oréal, la multinazionale della cosmesi, ha deciso di cancellare la parola “bianco” e “sbiancante” dai suoi prodotti: la decisione arriva dopo quella della filiale indiana del gruppo Unilever che ha scelto di ribattezzare la sua crema sbiancante per la pelle commercializzata con il nome di “Fair & Lovely”, per puntare a un modello più “inclusivo”. Anche la Johnson & Johnson ha confermato ai media che non venderà più il siero sbiancante “Fine Fairness” della Neutrogena, ma lo sostituirà con un idratante dell’indiana Clean & Clear, che si chiama “Clear Fairness Cream”. Il delirio antirazzista ha investito anche Git-Hub, la community degli sviluppatori informatici, popolata da programmatori di Apple, Microsoft, Google, Twitter, Facebook e sulla quale si caricano codici sorgente e si dibatte di vari temi su appositi forum di discussione. Dal quartier generale è partita la decisione di abolire il termine tecnico “master”, impiegato nei software, perché troppo attinente allo schiavismo.

  • Donald Trump potrebbe essere un case study, in quanto vittima di censura da parte di Twitter, soprattutto nel suo momento politico più delicato: la campagna elettorale. Come analizza il caso Trump nel contesto della comunicazione?

Si tratta di un caso emblematico e gravissimo in termini di libertà di pensiero e informazione, in quanto – piaccia o no il personaggio – Trump è stato vittima di montature, campagne denigratorie, scandali montati ad arte e pilotati, persino della censura dei social network e delle emittenti televisive. La censura è servita per impedire a ogni costo che certi messaggi del Presidente uscente potessero penetrare e diffondersi nell’opinione pubblica: se questo avviene con l’inquilino della Casa Bianca, come si può pensare che il cittadino medio ne sia immune?

  • A circolare con facilità sul web sono le bufale, raramente riconosciute dall’utente medio. Sarebbe buona abitudine fare fact-checking?

Se la verifica dei fatti fosse obiettiva e non fosse soltanto un mezzo per attaccare, denigrare e perseguitare l’informazione indipendente, sarebbe una buona pratica, auspicabile. Per questo ho aderito al progetto di Matteo Gracis del sito nobufale.it, il cui obiettivo è verificare le notizie, comprese però quelle trasmesse dai media di massa, che sono i primi a prendere cantonate, a non verificare le notizie e diffondere fake news.

  • Stiamo rivivendo un secondo 1984?

Stiamo rischiando di risvegliarci in un contesto molto simile. In pochi mesi ci siamo trovati catapultati in una vera e propria distopia, un sistema totalitario, prodotto dall’incrocio tra ideologie egualitarie, capitalismo tecnologico e controllo farmaceutico, tra monitoraggio dei cittadini, dispiegamento di droni, multe selvagge, proposte di braccialetti hi-tech per il distanziamento sociale, distanziamento verticale sui mezzi pubblici, psicopolizia , neolingua con l’invenzione di termini ad hoc per marchiare i dissidenti (NO MASK , negazionista, ecc.), censura sul web, trattamenti sanitari obbligatori, delazione, shitstorm sui Social Network contro coloro che osavano criticare le misure del governo, ecc. La paura per l’emergenza sanitaria ha portato alla costituzione di una specie di psicopolizia in cui i cittadini hanno vestito con solerzia i panni dei delatori, pronti a segnalare chiunque secondo i loro parametri non rispettasse le norme. Si è così creata una sorta di caccia all’untore di manzoniana memoria (ricordate La colonna infame?) con la segnalazione virale dei comportamenti ambigui e la creazione su Facebook di gruppi ove denunciare gli eventuali trasgressori dei divieti. I “dissidenti”, ossia coloro che hanno criticato l’eccesso delle restrizioni, sono stati insultati, denigrati, minacciati, rei appunto di pensare male, come se con il loro pensiero critico potessero mettere a rischio, anzi “infettare”, l’intera collettività. Possiamo ben dire che, annebbiati, anzi schiacciati dal peso della paura, la ricerca della sicurezza abbia portato sempre più persone ad accettare di affidarsi a misure autoritarie e repressive pur di tornare a sentirsi appunto sicuri. Il potere, che non si indentifica con la politica ma semmai la sfrutta e la dirige da dietro le quinte, approfitta dei momenti di crisi per orientare l’opinione pubblica in modo sempre più sofisticato, imponendo inoltre un principio di autorità: in un orizzonte in cui tutto rischia di confondersi e sparire sotto il peso delle immagini, in cui tutto diventa “relativo” e virtuale, per capire che cosa sia vero e cosa falso è necessario fare riferimento a un’autorità esterna per avere rassicurazioni e sapere come orientare le proprie scelte.

  • Il linguaggio è un altro elemento studiato nella sua analisi. La patologia del politicamente corretto sta intaccando anche il nostro modo di esprimerci?

Il ricorso a sempre nuovi neologismi creati ad arte permette di far sì che non siamo più noi a pensare con le parole, ma siano le parole stesse a pensare per noi. Ciò avviene perché esse sono svuotate di significato, sclerotizzate, così come la mente delle persone è diventata schizofrenica a furia di essere manipolata e di vivere in un eterno presente in cui la storia viene costantemente falsificata e riscritta. Il linguaggio viene ridotto all’osso, le parole diventano gusci vuoti, ideali per veicolare i concetti del bipensiero orwelliano, che in continuazione si possono cambiare, ribaltare, negare, sconfessare. Proprio come si livella la coscienza e si sradica l’identità della persona, “riempiendola” con i precetti del potere, così si svuota il linguaggio. Il pensiero unico, oggi, non richiede più una censura violenta, sebbene la denigrazione e la violenza mediatica in qualche modo la sostituiscano, ma rende ogni individuo censore di se stesso. Da un lato, la repressione e la violenza ci inibiscono dall’esprimere ciò che vorremmo, per paura di una reazione; dall’altro, il politicamente corretto e la neolingua rendono sempre più difficile non solo parlare e scrivere, ma addirittura pensare. La neolingua politicamente corretta è una costruzione artefatta, burocratica; è un linguaggio per i fanatici dell’ideologia, che sta contagiando il mondo intero, imponendosi attraverso gli slogan e l’assuefazione mediatica. Oggi possiamo osservare numerosi esempi di neolingua, ma il più lampante è il processo di riscrizione della lingua, che è stato imposto dal gender friendly per assoggettare mentalmente le coscienze e impedire loro di “pensare”, e soprattutto di pensare in modo “eretico”.

  • Soffermandoci ancora sulla forma del linguaggio, quando il potere si “rivolge al pubblico come ai bambini”?

Sfruttare l’emozione è una tecnica classica, una regola aurea, per provocare un corto circuito in un’analisi razionale. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette di aprire la porta di accesso all’inconscio, per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori. Già Walter Lippmann spiegava l’importanza dell’empatia: una persona finisce per identificarsi con un’idea o con un’immagine quando la sente propria, cioè quando prova una sensazione di partecipazione emotiva e quindi di vicinanza.

  • In che modo si concretizza la strategia della distrazione?

Si tratta dell’elemento principale del controllo sociale e consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élite politiche ed economiche attraverso la tecnica del diluvio o inondazione di continue “distrazioni” e informazioni insignificanti. Si intende cioè tenere il pubblico occupato senza dargli il tempo di pensare, rendendolo pertanto “passivo”. Già Aldous Huxley notava, in Ritorno al mondo nuovo, come i potenti avessero capito che per controllare le masse era necessario agire sull’«appetito pressoché insaziabile di distrazioni» che ha l’uomo. In questo senso, spiegava il romanziere inglese, l’industria dei media si delinea come uno dei bracci armati dei governanti, tesa com’è non tanto a comunicare il vero o il falso, quanto semmai a offrire l’irreale, ossia una fuga dalla realtà che obblighi l’uomo a distrarsi dalla contingenza sociale, economica e politica. A questa regola possono essere ricondotti anche quegli scandali, fatti di cronaca o gossip, che servono a distrarre l’opinione pubblica da problemi ben più urgenti. Vi rientrano anche tutti gli eventi sportivi o di spettacolo che riescano a ritagliarsi un’attenzione considerevole da parte dei media e pertanto del pubblico.

  • L’emergenza Covid19 è stata un banco di prova per la comunicazione destinata al grande pubblico. Quali sono stati gli effetti sulla popolazione?

A partire dalle versioni diverse sulla diffusione del contagio, durante i mesi della pandemia da Covid-19 l’informazione ufficiale è stata virtuale, contrastante e a tratti schizofrenica, alimentando una narrazione catastrofistica e generando terrore e psicosi di massa. Nei primi mesi credo che l’indeterminatezza dell’informazione fosse dovuta in parte alla mancata trasparenza della gestione iniziale della pandemia da parte della Cina e in parte alla diffusione di dati contrastanti e poco chiari da parte degli organi istituzionali e dagli “esperti”. Per settimane neppure i giornalisti sono stati in grado di capire la gravità della situazione, essendo troppo diverse e contraddittorie le dichiarazioni – a volte espresse in modo superficiale e a titolo personale – degli “esperti”. Da qui lo spaesamento e la percezione, a livello pubblico, di un’informazione “virtuale”. Nei mesi successivi, invece, si è notato chiaramente come i media abbiano scelto deliberatamente di continuare ad avallare il catastrofismo e accrescere ansia e psicosi, proseguendo con una criminologia sanitaria volta a mantenere alto il clima di paura e giustificando misure repressive volte evidentemente a tenere alta la guardia fino all’arrivo del vaccino. Il fatto che l’opinione pubblica sia spaccata anche su una tematica così delicata come la pandemia da Covid-19 dimostra chiaramente che l’informazione, sempre più spettacolarizzata, fatica a volte a essere credibile, proprio perché sembra avere abbandonato l’obiettività e la ricerca della verità per sottostare a specifiche linee editoriali o semplicemente per fare ascolti, acchiappare qualche click o vendere qualche copia in più di un quotidiano. In questo caso, anche i giornalisti si sono trovati a dover rincorrere notizie confuse e contradditorie emanate dagli organi ufficiali: essendo divenuti tutti “esperti” ma essendo tutti in contraddizione tra loro, si è faticato a ricostruire e a diffondere una corretta informazione.