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Fine partita. Ha vinto la barbarie (I parte)

di Marino Badiale - 19/03/2021

Fine partita. Ha vinto la barbarie (I parte)

Fonte: Badiale & Tringale

1. Introduzione

Socialismo o barbarie” è un notissimo slogan dovuto a Rosa Luxemburg, contenuto in un testo scritto durante la Prima Guerra Mondiale [1]. È stato usato molte volte nel Novecento, a indicare il pericolo di una degenerazione regressiva e barbarica delle società occidentali (regressione la cui analisi specifica si differenziava fra i vari autori), e la necessità di una evoluzione socialista per prevenire tale degenerazione. Un critico potrebbe obbiettare che, nel Novecento, il socialismo non ha vinto ma la barbarie tanto temuta non è in definitiva arrivata: il nazifascismo è senz’altro l’evento storico più simile alla temuta regressione, ma esso è stato sconfitto da forze interne alle stesse società capitalistiche (assieme, ovviamente, all’URSS), che hanno così dimostrato di essere capaci di esprimere efficaci controtendenze rispetto agli elementi di barbarie sorti al proprio interno. Può dunque sembrare arrischiato riproporre oggi lo slogan “socialismo o barbarie”, perché si potrebbe venire smentiti, come è successo per tutto il Novecento. Sono però convinto, e l’ho argomentato in altri interventi [2], che il capitalismo abbia ormai esaurito la sua capacità di rappresentare una potenzialità contraddittoria di progresso, e sia entrato in una fase univocamente regressiva, che porterà in tempi non troppo lunghi ad una sua crisi irreversibile. Purtroppo tale crisi non sarà quella che speravano i movimenti comunisti e socialisti degli ultimi due secoli: non si tratterà di una fase turbolenta, magari drammatica, che porterà a sostituire il capitalismo morente con un socialismo ecologico, pacifico, in grado di conservare le conquiste spirituali della modernità e metterle al servizio del libero sviluppo di ogni individuo. Si tratterà invece di un devastante crollo di civiltà, analogo a quelli che si sono succeduti nella storia (l’esempio più ovvio per noi europei è la fine dell’Impero Romano d’Occidente), che porterà violenze e distruzioni, mentre è impossibile dire quali tipi di società riusciranno a costruire gli esseri umani sopravvissuti.

La nozione di “barbarie”, riferita all’attualità, mi sembra quindi abbastanza chiara. Lo è meno quella di “socialismo”, perché tale termine (come “comunismo”, del resto) ha assunto molti significati diversi. Per questo motivo, come ho spiegato in uno scritto precedente [3], preferisco non utilizzare i termini “comunismo” o “socialismo”. Nonostante questo, nel presente scritto parlo di “socialismo” perché faccio riferimento ad alcuni teorici “ecosocialisti” contemporanei [4], e a ciò che essi intendono con “ecosocialismo”, il che fornisce alla parola un contenuto determinato. Non intendo con questo dire che esso sia il significato “vero” o “autentico” di “socialismo”, ma solo che si tratta del significato a cui si fa riferimento in questo scritto. Alcuni caratteri generali di una organizzazione sociale ecosocialista posso essere delineati, in estrema sintesi, come segue: in primo luogo la produzione è sottoposta al controllo collettivo e indirizzata al soddisfacimento dei bisogni socialmente riconosciuti, e non più al profitto, e a questo scopo è necessaria una qualche forma di pianificazione; in secondo luogo, si riconosce che fra questi bisogni vi è quello di un ambiente naturale salubre; in terzo luogo, una tale società ha un’impronta fortemente egualitaria: le disuguaglianze sociali, per quanto non del tutto eliminabili, sono contenute e controllate, e naturalmente è osteggiata e combattuta ogni forma di discriminazione e di razzismo; in quarto luogo vi è un forte controllo democratico di ogni singola comunità sulle condizioni della propria esistenza, e quindi anche, in particolare, sulle condizioni del proprio ambiente naturale; infine, come principio generale, l’organizzazione sociale è finalizzata al pieno e libero dispiegamento delle potenzialità intellettuali e relazionali di ciascun individuo: per la qual cosa è necessaria una certa libertà dal bisogno (e quindi anche tempo libero dal lavoro) ma non l’accumulazione continua di oggetti alla quale la società dei consumi ci ha abituato.

I caratteri che abbiamo appena enunciato appaiono fondamentali perché una forma di socialismo sia alternativa alla barbarie: con ciò si intende dire che, all’interno della vasta area semantica coperta dalla parola “socialismo”, vi sono modelli di organizzazione sociale che potrebbero portare a forme di barbarie del tutto simili a quelle capitalistiche. Se il “socialismo” è inteso come direzione statale dell’economia diretta a uno sviluppo economico finalizzato a massimizzare la produzione e incurante dell’ambiente, è evidente che esso potrebbe portare a problemi del tutto simili a quelli che oggi ci fronteggiano. Basti pensare ai disastri ecologici nei paesi del “socialismo reale”.

Una volta riassunti in questi termini i due corni dell’alternativa “socialismo o barbarie”, posso enunciare le due tesi fondamentali di questo scritto: in primo luogo, ritengo che l’alternativa sia oggi del tutto valida nel senso che l’attuale organizzazione sociale capitalistica, lasciata alla sua dinamica interna, non può che portarci ad un rovinoso crollo di civiltà e alla barbarie, e, in linea di principio, una prospettiva ecosocialista, del tipo sopra abbozzato, sembra l’unica strada che possa evitare questo esito; in secondo luogo, ritengo che la storia abbia ormai fatto la sua scelta, e che non ci siano possibilità concrete di una tale evoluzione ecosocialista. Detto altrimenti, ha vinto la barbarie, e quello che ci aspetta è il crollo dell’attuale civiltà e un periodo di degradazione e devastazione, oltre il quale risorgerà una qualche forma di civiltà oggi non prevedibile. È quest’ultima la tesi fondamentale di questo intervento, e nelle pagine che seguono cercherò di argomentarla.

Un’ultima osservazione, prima di concludere questa introduzione: la tesi per la quale l’alternativa alla barbarie è il socialismo (o l’ecosocialismo) può ovviamente suscitare dissenso fra molti lettori. Ma, pur essendone personalmente convinto, non è questa la tesi che argomento in questo scritto. La tesi fondamentale è piuttosto quella del prossimo crollo della nostra civiltà. Ritengo quindi che il presente scritto possa risultare interessante anche per chi non condivida una prospettiva (eco)socialista.

 

2. Il collasso prossimo venturo

Lo studio del collasso delle società umane è ormai diventato un tema importante di ricerca scientifica e discussione pubblica, e ha prodotto una bibliografia ragguardevole. Si possono identificare due filoni principali: da una parte il tema del prossimo collasso della società attuale, dall’altra la ricerca sulle dinamiche e le cause del collasso di vari tipi di società premoderne, dall’Impero Romano d’Occidente all’isola di Pasqua. Si può osservare che anche le ricerche di questo secondo tipo, per quanto in genere abbiano un carattere più accademico rispetto alle prime, sono comunque motivate da preoccupazioni relative al futuro della società attuale, come ammette senza problemi lo storico e antropologo Joseph Tainter in uno dei testi fondamentali di questo filone [5]. Cerchiamo in questa introduzione di riprendere alcuni temi da entrambi i filoni così individuati.

Il primo tipo di studi, quelli relativi ai pericoli che sovrastano l’attuale organizzazione sociale, ormai estesa all’intero pianeta, è caratterizzato dal tentativo di mettere assieme una serie di risultati e idee che provengono da varie discipline, e che, considerati nel loro complesso, sembrano indicare l’insostenibilità di tale organizzazione. In Francia questo tipo di analisi ha conosciuto un inaspettato successo mediatico con la pubblicazione, nel 2015, di un testo di Servigne e Stevens [6]. Gli autori citati hanno introdotto, probabilmente con un po’ di ironia, il termine “collapsologie” per indicare le loro analisi. Nonostante tale termine sembri alludere ad una disciplina accademica istituzionalizzata, la “collapsologie” non è ovviamente una scienza di questo tipo, e il libro citato non è un testo scientifico in senso stretto, ma rappresenta piuttosto un’ottima sintesi divulgativa di una serie di risultati raggiunti negli ultimi tempi all’interno di varie discipline scientifiche. Come si diceva sopra, una volta messi assieme questi risultati, sembra possibile formulare un giudizio complessivo sulla direzione verso la quale è avviata la nostra attuale organizzazione economica e sociale. Il successo mediatico del libro citato ha portato alla pubblicazione di molti altri testi, alla creazione di una rivista e di un interessante sito web [7], cosicché probabilmente si può parlare per la Francia di un autentico “movimento collassologico”.

Cerchiamo allora di presentare, in estrema sintesi, alcuni dei dati che spingono molti (studiosi accademici, militanti, cittadini preoccupati) a ritenere che la nostra società abbia ormai imboccato una strada che porterà, in tempi non lunghissimi, ad un rovinoso crollo di civiltà.

In primo luogo vi è il tema della diminuzione progressiva di alcune delle risorse fondamentali sulle quali si basa la nostra civiltà: petrolio in primo luogo, ma anche le altre risorse minerarie fondamentali (i metalli, per esempio), oppure l’acqua. Il problema non è tanto l’indisponibilità a breve termine di tali risorse, quanto il fatto che, avendone sfruttato le fonti più facili ed economiche, ciò che rimane da sfruttare è sempre più difficile e costoso da ottenere. Si tratta della nota problematica dei “ritorni decrescenti” [8]. L’esempio più studiato si riferisce al petrolio. In questo caso è stato elaborato un indice, chiamato EROEI o EROI (Energy Return On Energy Invested) definito come il rapporto fra l’energia ottenuta dal petrolio estratto e l’energia impiegata per l’estrazione [9]. La nostra civiltà attuale è basata sul fatto che il petrolio ha finora goduto di un alto EROI: utilizzando una data quantità di energia, si poteva estrarre petrolio che ne forniva una quantità molto maggiore. La stima dell’EROI è piuttosto complessa e presenta un certo grado di arbitrarietà, ma gli studi sembrano indicare una sua costante diminuzione. È chiaro che, se e quando l’EROI del petrolio scenderà al valore 1, vi potrà essere ancora molto petrolio sottoterra, ma esso non rappresenterà più una fonte effettiva di energia. In realtà, per poter sostenere le nostre società di consumatori, abbiamo probabilmente bisogno di un EROI molto più grande di 1. Si può notare che la tendenza alla diminuzione dell’EROI non sembra essere finora influenzata dagli sviluppi tecnologici: questi ci hanno permesso di accedere a fonti di idrocarburi prima inutilizzate (si pensi allo “shale oil”) ma non hanno inciso sulla tendenza al declino dell’EROI.

Lo stesso discorso si può ripetere per tutte le altre risorse prima citate. Il punto, ribadiamolo, è che la sempre maggiore difficoltà di reperimento delle risorse fondamentali porterà, prevedibilmente, a difficoltà economiche sempre maggiori. Si può osservare che anche il gruppo di ricercatori del MIT che ha prodotto il famoso rapporto del Club di Roma sui “limiti alla crescita” ha sottolineato come, in alcuni degli scenari studiati, sia proprio il crescente costo di risorse sempre più scarse a determinare il collasso [10].

In secondo luogo, ci stiamo avviando verso la rottura, a livello planetario, di alcune dinamiche cicliche essenziali per mantenere il pianeta Terra in una situazione simile a quella nella quale si sono finora evolute le società umane. L’azione umana sta cioè portando il pianeta verso una situazione fondamentalmente nuova, che presenta rischi difficili da prevedere. I cicli in questione coinvolgono assieme aspetti geofisici, chimici, biologici. L’esempio più noto è quello relativo al ciclo del carbonio, la cui alterazione, con l’uso massiccio di combustibili fossili, sta inducendo un cambiamento climatico globale. Ma non si tratta solo di questo. In un articolo del 2009 [11] gli autori, studiosi della Terra intesa come sistema dinamico unitario, hanno identificato nove “limiti planetari” ai quali la società umana deve porre attenzione, perché superarli porta appunto, come si diceva, ad alterazioni profonde dell’intera ecologia planetaria. Si tratta della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, dei flussi geochimici di azoto e fosforo, dell’acidificazione degli oceani, dell’uso di acqua dolce, del cambiamento di uso del suolo (da terreno lasciato alla natura a terreno modificato per gli usi umani), dell’eccesso di aerosol atmosferici, dell’introduzione di nuove sostanze nell’ambiente, della perdita di biodiversità. Per sette di questi “limiti planetari” si sono introdotte, nell’articolo citato, precise definizioni quantitative, sostenendo che per tre di essi (concentrazione di anidride carbonica, perdita di biodiversità, ciclo dell’azoto) la società umana ha già superato i valori di sicurezza. In un articolo del 2015 [12] la discussione viene aggiornata e raffinata, concludendo che i limiti superati sono ormai quattro. Per limitarci ad un accenno al cambiamento climatico, sicuramente il più noto fra questi temi, dovrebbe essere ormai chiaro che esso porterà ad un profondo sconvolgimento dell’intera organizzazione sociale, con conseguenze drammatiche che difficilmente le attuali strutture politiche saranno di grado di gestire. Nonostante il tema sia ormai arrivato nei mezzi di comunicazione di massa, e nonostante la mobilitazione internazionale su di esso, non sembra di scorgere da parte dei ceti dirigenti misure adeguate alla gravità e all’urgenza del problema: da una parte gli studi indicano che, se si vogliono evitare le conseguenze peggiori di un cambiamento climatico ormai avviato, occorre agire con estrema rapidità verso un drastico taglio delle emissioni di CO2; dall’altra, non sembra per il momento possibile scorgere passi decisivi in questa direzione.

Un terzo tema è quello della debolezza dell’economia mondiale. La crisi finanziaria del 2007/08, e il fatto che molte economie sviluppate non riescono a tornare ad un percorso di crescita economica stabile, ha portato alcuni autori a parlare di “stagnazione secolare” [13]. Si teme cioè che le economie avanzate siano entrate in una fase di stagnazione ravvivata solo dal sorgere di bolle speculative, il cui inevitabile crollo porta a ulteriori perdite di ricchezza. Detto altrimenti, la debolezza dell’economia reale implica che i capitali in cerca di alti profitti vengono investiti nella finanza, ma una accentuata finanziarizzazione dell’economia, quando non è sostenuta da una crescita sostenuta dell’economia reale, non può che portare a bolle speculative a cui seguono crisi di vari tipo. D’altra parte, l’attuale economia globalizzata ha bisogno della finanza per poter funzionare, perché la gestione di reti estese e complesse come quelle necessarie a rifornire i diversi paesi delle merci necessarie, implica inevitabilmente una sfera finanziaria attiva e in salute. E infatti abbiamo visto come l’ultima crisi finanziaria si sia poi estesa all’economia reale. Poiché questi fattori di debolezza non sono stati eliminati, non sembra azzardato pensare che nel futuro prossimo sia possibile un’altra crisi finanziaria come quella del 2007/08, che colpirebbe però economie già indebolite.

Un ultimo elemento di questa lista, largamente incompleta [14], è il fatto che l’accumularsi di crisi del tipo descritto nelle righe precedenti metterà sotto stress, in tutto il pianeta, le attuali strutture statali. Sono condizioni nelle quali è assai facile che le tensioni finiscano per scaricarsi come guerre, portando ulteriori distruzioni e favorendo il collasso delle organizzazioni sociali dei vari paesi.

Per concludere queste osservazioni, aggiungo due considerazioni che mi sembrano importanti: in primo luogo, un aspetto decisivo del futuro che ci aspetta è il fatto che tutti i fattori di crisi sopra elencati finiranno per interagire fra di loro, e solo a questo punto si avrà un pericolo concreto di collasso statale e sociale. In secondo luogo, la complessità dell’attuale società globalizzata e le sue innumerevoli interazioni con il mondo non umano rendono in sostanza impossibile prevedere quale forma specifica assumeranno le minacce future. Mi limito a fare un solo esempio, in riferimento alla crisi pandemica ancora in corso. Qualche mese fa si è saputo della soppressione di centinaia di migliaia di visoni in vari allevamenti sparsi per il mondo, motivata dal fatto che il virus si era trasmesso ai visoni e si temeva che potesse ritornare all’uomo in forma mutata. Perché questo passaggio è avvenuto proprio con i visoni e non con qualcuna delle altre specie animali che l’uomo alleva? Si tratta evidentemente di dinamiche imprevedibili a priori, e che siamo costretti ad affrontare volta per volta. La tesi che sostengo è che l’attuale linea di evoluzione della nostra società ci sta portando verso situazioni nelle quali si produrranno sempre nuove crisi, sempre imprevedibili nelle loro forme specifiche, che si accumuleranno fino a superare la capacità della società di farvi fronte, portando quindi al collasso della struttura sociale.

Prendiamo adesso in esame alcune suggestioni che si possono ricavare dal secondo filone di studi, quello dedicato alla ricerca sul collasso di società del passato. Come abbiamo detto sopra, uno dei testi fondamentali in questo campo è quello di J.Tainter citato nella nota [5]. Il testo di Tainter propone una teoria del collasso sociale inteso come perdita netta e percepibile di complessità nell’organizzazione sociale stessa. La spiegazione che propone Tainter si basa sull’idea dei “ritorni decrescenti” della complessità stessa. L’autore intende dire che le società umane elaborano strutture sempre più complesse in risposta a vari tipi di pericoli e sfide provenienti dal loro ambiente (umano e naturale). Questo aumento di complessità può rappresentare un fattore positivo, che rende la società più forte. Ma può succedere, sostiene Tainter, che in certe situazioni questa crescita di complessità comporti costi sempre maggiori rispetto ai vantaggi. Essa può quindi indebolire la società, invece di rafforzarla, e questo indebolimento può portare appunto al collasso. Si tratta di una tesi interessante, che è presa in considerazione da molti degli autori successivi. Nell’ambito di questo filone di studi, in Italia è particolarmente noto il lavoro di J.Diamond [15], che sottolinea le problematiche ecologiche ed ambientali in vari esempi di collasso sociale. Il recente libro di G.D.Middleton [16] riesamina molti dei casi storici finora studiati in relazione a questo tema. Middleton tende a sfumare le tesi di coloro che additano una causa unica o principale per ciascun esempio di collasso sociale. Egli non propone una nuova teoria generale ma suggerisce che in un collasso vi sia sempre una concorrenza di cause diverse, e in particolare che le problematiche ecologiche e ambientali possano forzare fenomeni di collasso solo se assieme ad esse si verifica una crisi sociale e politica che impedisce una risposta adeguata.

Facendo tesoro delle osservazioni di Middleton, e senza proporre una nuova teoria generale del collasso sociale, credo si possa ipotizzare un esito di quel tipo per la società contemporanea nei termini seguenti: da una parte, le problematiche che abbiamo riassunto seguendo il primo filone sembrano indicare l’impossibilità di proseguire con l’attuale forma di organizzazione della società, basata sulla crescita economica senza fine e senza fini o, per dirla in breve, sul capitalismo. Dall’altra, sembra che a questi pericoli incombenti l’umanità non sia capace di rispondere impostando un cambiamento radicale nell’organizzazione sociale ed economica, superando il capitalismo e andando nella direzione di una società capace di un rapporto equilibrato con il proprio ambiente, oltre che di maggiore giustizia sociale e maggiore solidarietà. Sembra cioè che ci troviamo in una situazione in cui la nostra società mostra di aver bisogno, per evitare una crisi a più livelli ormai incipiente, di cambiamenti radicali nella propria organizzazione economica e sociale, e contemporaneamente non sembra possibile scorgere segnali che indichino che il mondo contemporaneo si stia avviando nella direzione dei cambiamenti necessari. Detto in maniera più esplicita, il cambiamento radicale necessario per evitare alla nostra civiltà un crollo rovinoso non avverrà, almeno non in tempo utile per evitare il crollo, e non avverrà perché mancano nella nostra società le forze che potrebbero promuoverlo.

Nel resto del presente intervento cercherò di argomentare quest’ultima tesi. Esaminerò l’atteggiamento dei ceti dominati e quello dei ceti subalterni, spiegando perché ritengo che non ci possiamo aspettare una spinta decisiva al cambiamento da nessuna delle due categorie. Cercherò inoltre di spiegare perché ritengo inadeguato ai problemi attuali il pensiero critico contemporaneo. Infine tenterò di dare un’indicazione rispetto al problema del “che fare?”.

È del tutto ovvio che un’analisi del mondo contemporaneo non può essere svolta in maniera soddisfacente nel breve spazio di questo intervento. Il mio intento non è quello di rendere adeguatamente la complessità della società attuale, ma di indicare quelli che ritengo essere dei nodi problematici fondamentali.

 

3. I tacchini non organizzano il Natale.

È ovvio che, in qualsiasi periodo storico, la classe dominante è quella meno indicata per operare un cambiamento radicale che possa mettere in questione, assieme all’assetto complessivo della società, le stesse basi del suo potere e dei suoi privilegi. Così, per tornare ai problemi attuali, sembra assai fantasioso poter ipotizzare che le attuali classi dominanti possano progettare un superamento della forma capitalistica dell’attuale organizzazione sociale, visto che in essa hanno, come si diceva, le basi del proprio potere e dei propri privilegi, e visto che, inoltre, esse sono ideologicamente imbevute dell’idea che tale forma organizzativa rappresenti il punto più alto della civiltà umana.

È vero che vi sono stati nel corso della storia alcuni esempi che sembrano in contraddizione con quanto appena detto. Cercherò ora di prenderne in esame alcuni, per mostrare come essi siano dovuti a circostanze particolari che non sono presenti nella situazione attuale.

Un esempio impressionante è quello del Giappone dell’epoca Meiji. Come è noto, il Giappone fino a metà dell’Ottocento è chiuso agli stranieri e protegge gelosamente la propria natura sociale feudale. Questo isolamento viene rotto dall’intervento di una flotta militare statunitense che forza l’apertura del paese al commercio con i paesi occidentali. Di fronte a una sfida che poneva in questione la sopravvivenza del paese come entità indipendente, il ceto dirigente giapponese, o almeno una sua parte consistente, mette in atto una strategia, stupefacente per lucidità e decisione, di rapido superamento delle strutture feudali e di ingresso del paese nel mondo capitalistico. In pochi decenni, programmando e attuando una imitazione selettiva e ragionata dei paesi occidentali, il Giappone diventa a tutti gli effetti un paese avanzato, in grado di sconfiggere militarmente una potenza temuta come la Russia.

Questo importante esempio storico ci mostra che un ceto dirigente, quando vede messi in pericolo i fondamenti stessi della propria società, può prendere decisioni coraggiose e lungimiranti. Sembra dunque che non sia assurdo sperare una analoga capacità da parte degli attuali ceti dirigenti. Purtroppo vi sono differenze profonde fra quella situazione e l’attuale, e tali differenze fanno sì che non sia possibile coltivare una simile speranza. Sono due le differenze principali: in primo luogo, i ceti dirigenti del Giappone Meiji avevano chiaro davanti agli occhi quello che dovevano fare: avevano l’esempio delle società occidentali, che funzionavano secondo i principi capitalistici generando ricchezza e potere. Ovviamente i dirigenti giapponesi avevano il problema di trovare il modo migliore di adattare il capitalismo occidentale alla loro società, ma il punto di partenza e il modello di ispirazione, appunto il capitalismo occidentale, era chiaro, definito ed efficace. Oggi al contrario nessuno, all’interno dei ceti dominanti, sa in quale direzione si dovrebbe indirizzare il cambiamento, e nessuno sa per certo quali proposte possano essere efficaci e quali no. In secondo luogo, e questo forse è il punto più importante, i ceti dirigenti giapponesi hanno rivoluzionato la loro società con uno scopo preciso, quello di acquisire maggiore potere, soprattutto nei confronti delle potenze occidentali. Oggi, il superamento dell’organizzazione capitalistica comporterebbe una trasformazione imprevedibile degli assetti di potere, sia interni ai diversi paesi sia nei rapporti fra paesi. Il rischio concreto è quello di una diminuzione del potere dei ceti dirigenti, nei confronti dei propri ceti subalterni oppure (o anche) nei confronti di altri paesi. E il punto decisivo è che nessun ceto dirigente si imbarcherà mai nella difficile impresa di rivoluzionare dalle fondamenta la propria società nella prospettiva di perdere il proprio potere.

Quando un ceto dirigente accetta una limitazione del proprio potere economico, politico o militare, è sempre in ambiti ristretti, rigorosamente delimitati: si pensi alle trattative fra USA e URSS sulla limitazione della corsa agli armamenti, o al bando dei gas che danneggiavano lo strato dell’ozono che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette. In entrambi i casi si è accettata una certa diminuzione, grande o piccola, di potere (militare od economico), ma appunto in maniera controllata, in ambiti ristretti, stando ben attenti a non mettere in questione le gerarchie del potere mondiale. Uno sforzo internazionale per la fuoriuscita dal “capitalismo fossile” sarebbe qualcosa di completamente diverso, perché la dipendenza dai combustibili fossili tocca tutte le dimensioni del potere attuale: tutta l’economia (ovviamente l’industria, ma anche l’agricoltura e i servizi) dipende dal fossile, così come il potere militare. Un’uscita dal fossile sarebbe quindi, dal punto di vista dei ceti dominanti, un salto nel buio: nessuno può dire se le attuali gerarchie del potere mondiale ne uscirebbero confermate o stravolte, e in questo secondo caso nessuno può dire chi sarebbero i vincitori e i perdenti.

In base a questo argomenti, ritengo si possa concludere che gli attuali ceti dirigenti non potranno mai progettare seriamente l’uscita delle nostre società dalla dinamica che sta portando al crollo di civiltà. È difficile pensare che siano i tacchini a organizzare il pranzo di Natale.

 

4. Capitalisti su Marte

Continuiamo la discussione sugli attuali ceti dominanti globalizzati, mostrando qualche esempio per rendere più concreta l’argomentazione teorica sviluppata sopra. Cerchiamo cioè di mostrare con esempi come tali ceti dominanti, al di là di alcune prese di posizione verbali, siano in realtà indirizzati verso la continuazione dell’attuale organizzazione economica e sociale.

Il primo esempio si può trarre dalle vicende della zona artica [17]. È noto infatti che il cambiamento climatico, molto più accentuato in quella zona che nel resto del pianeta, ne sta cambiando in maniera radicale le condizioni, fra le altre cose offrendo opportunità di sfruttamento economico prima inesistenti. Facciamo riferimento in particolare alla disponibilità di giacimenti di petrolio e gas naturale, fino ad ora inattingibili per le condizioni climatiche avverse, e al fatto che la fortissima diminuzione dei ghiacci polari rende praticabile la via artica per le navi commerciali, con notevoli vantaggi economici. È evidente che entrambe queste prospettive vanno nella direzione contraria a quella che sarebbe necessario percorrere: se si volesse evitare la crisi climatica, i combustibili fossili andrebbero lasciati dove sono, e gli scambi commerciali su lunghe distanze diminuiti, non aumentati. Al contrario, non solo i vari paesi del grande Nord si stanno attrezzando per lo sfruttamento di queste risorse, ma sta anzi nascendo una certa competizione fra di essi, che potrebbe portare a momenti di tensione e forse a scontri militari [18].

Un altro esempio di iniziative economiche che vanno nella direzione distruttiva di un sempre maggiore aumento degli scambi mercantili è quello del grande progetto di costruzione di infrastrutture impostato dalla Cina, che va sotto il nome di “Road and Belt Initiative”[19].

L’esempio migliore dell’impossibilità, per gli attuali ceti dominanti, di impostare realmente il radicale cambiamento che sarebbe necessario per impedire un rovinoso crollo di civiltà, è probabilmente rappresentato dall’attuale tendenza a progettare la vita di colonie umane nello spazio, e in particolare sul pianeta Marte. Si tratta di un tema che sembra colpire l’immaginazione collettiva. Ciò è legato naturalmente al fatto che il nostro immaginario è stato a lungo nutrito dalle narrazioni fantascientifiche. Queste suggestioni sembrano seriamente perseguite sia da enti pubblici sia da imprese private. Vale quindi la pena di discutere brevemente la prospettiva della creazione di colonie umane su Marte. La mia personale opinione è che si tratti di una impresa assurda, nelle condizioni attuali. Per esprimermi in maniera netta, mi sembra una follia. Marte presenta un ambiente totalmente inadatto alla vita umana: c’è una atmosfera estremamente rarefatta, con pochissimo ossigeno, le temperature sono gelide (la temperatura media varia fra -120 e -14 gradi centigradi). Eventuali esseri umani ivi presenti dovrebbero vivere costantemente all’interno di strutture protette, e dipenderebbero completamente, almeno all’inizio, dai rifornimenti in arrivo dalla Terra. Il punto fondamentale è la situazione sul nostro pianeta, la Terra. Se è vero che presto l’umanità dovrà fronteggiare crisi gravissime, è chiaro che tutte le risorse, sempre più scarse, dovranno essere utilizzate per fronteggiare queste crisi, e appaiono allora completamente assurdi gli enormi investimenti che sarebbero necessari per concretizzare il progetto di colonie umane su Marte. L’obiezione a questo argomento si basa sul fatto che la ricerca spaziale ha avuto in passato ricadute tecnologiche di vario tipo, utili alla società. Tale argomento ha una base oggettiva, ma non mi sembra sufficiente a rendere ragionevole la prospettiva delle colonie umane nello spazio o su Marte. La base oggettiva dell’argomento sta nel fatto che, come si è detto, nel passato si sono avute simili ricadute tecnologiche. Ma c’è molto di più, non si tratta solo di un dato di fatto empirico: esso deriva da una caratteristica profonda e importante della ricerca scientifica e tecnologica, cioè dalla sua imprevedibilità. La ricerca scientifica è un’attività creativa, e nessuno può sapere, all’inizio di una ricerca, cosa si otterrà alla fine. Da questo però discendono due conseguenze: in primo luogo, l’imprevedibilità dei risultati della ricerca implica che la ricerca spaziale può avere ricadute esterne, ma può anche non averne; in secondo luogo, l’imprevedibilità vale sempre, in particolare vale anche per una ricerca scientifica specificamente indirizzata ad affrontare i problemi ecologici attuali e futuri della Terra. Con questo si vuol dire che è anche possibile che una ricerca del tipo appena indicato abbia ricadute esterne, per esempio per la ricerca spaziale. Quindi la scelta è fra una ricerca scientifica e tecnologica indirizzata allo spazio, che potrebbe avere ricadute utili per la Terra ma potrebbe anche non averne, e una ricerca indirizzata a risolvere i problemi della Terra, che potrebbe avere ricadute utili per la ricerca spaziale, o forse in altre direzioni ancora, o potrebbe non averne. Data la drammaticità della situazione attuale, e le cupe prospettive che attendono l’umanità, in una situazione di emergenze crescenti cui far fronte con risorse calanti, non dovrebbero esserci dubbi su quale sia la scelta più razionale. Quanto fin qui detto può sembrare astratto, ma gli argomenti che sto criticando vengono effettivamente usati per giustificare i progetti “spaziali”. Ad esempio, in una intervista ad una ricercatrice italiana impegnata alla NASA su tali progetti [20], si legge che “le ricerche che sto portando avanti sono tutte applicabili al contesto terrestre e possono fornire soluzioni per arginare il cambiamento climatico: per vivere su Marte, infatti, dobbiamo minimizzare lo spreco di risorse, mentre qui sulla Terra si fa l'opposto”. Riprendendo le osservazioni fatte sopra, si può obbiettare, in primo luogo, che soluzioni tecniche valide su Marte potrebbero non essere valide sulla Terra, data l’enorme diversità delle condizioni ambientali; in secondo luogo, visto che l’umanità ha bisogno delle soluzioni terrestri e non di quelle marziane, non sarebbe più logico investire risorse per cercare le prime invece che le seconde? Il ragionamento della ricercatrice è che le soluzioni marziane saranno valide anche sulla Terra. Ma se questo è vero, vale anche il viceversa: le soluzioni terrestri saranno valide su Marte, e allora è meglio cercare direttamente quelle terrestri, visto che è di queste che abbiamo bisogno.

Dopo aver mostrato la debolezza di queste argomentazioni a favore dei progetti di colonie umane su Marte, possiamo portare alcune argomentazioni contrarie a tale idea. Il punto è semplice e può essere spiegato brevemente: la crisi che la nostra civiltà dovrà fronteggiare a breve ha profonde radici nella natura stessa della nostra organizzazione sociale, nel capitalismo. Se questo è chiaro, appare del tutto assurda l’idea di poter risolvere i nostri problemi trasportando su Marte quegli stessi rapporti sociali che sono alla radice dei problemi sulla Terra. I capitalisti su Marte non potranno che ricreare ivi il capitalismo, riproducendo quindi le stesse dinamiche autodistruttive che stanno portando al collasso la nostra attuale civiltà.

Questo esempio conclusivo ci mostra perché non c’è speranza che siano gli attuali ceti dirigenti globalizzati a dirigere il superamento del capitalismo che appare oggi necessario. Lungi dal voler superare il capitalismo sulla Terra, stanno cercando di portare il capitalismo su Marte.