Gli Usa che abbaiano davanti a Caracas
di Fabio Mini - 09/11/2025

Fonte: Il Fatto Quotidiano
È risaputo che la guerra ha bisogno di pretesti. Soprattutto quando i motivi sono deboli o ingiustificabili, ma anche quando ne esistono di gravi e concreti. Si inventano le cose più strane come quella del Faraone che mosse guerra all’avversario distante migliaia di chilometri perché le rane del suo stagno gli disturbavano il sonno.
O il falso incidente del Golfo del Tonchino che portò all’escalation in Vietnam, o le false prove per la guerra in Iraq. I pretesti sono anche il foraggio destinato ai popoli e ai poveracci che in guerra ci devono andare. Il foraggio dà coraggio. Più sottili e meno strombazzati sono i pretesti indirizzati ai potenti che devono decidere la guerra. La Germania entrò nella Prima guerra mondiale anche se il Kaiser Guglielmo II non era molto d’accordo. I suoi vertici militari lo convinsero sostenendo che la mobilitazione era già stata dichiarata e non si poteva tornare indietro. Non era ancora stato sparato un colpo, salvo quelli che avevano ammazzato l’arciduca Ferdinando e sua moglie, ma di questo al Kaiser non gliene fregava molto come pure alla stessa Austria-Ungheria. Il pretesto della mobilitazione diventò però un cardine della guerra: la mobilitazione generale, ovvero l’invio ai cittadini delle cartoline di richiamo o chiamata alle armi, era già un atto di guerra. E se ancora oggi la Russia, gli Stati Uniti, la Nato e gli europei possono fingere di non essere in guerra è perché non hanno dichiarato la mobilitazione generale. Nello schieramento di guerra che si va formando in Europa contro la Russia i motivi sono labili e per questo ogni cinque minuti c’è un tizio o una tizia che incitano la folla alla guerra, che denunciano un incidente, una violazione altrui mentendo sulle proprie. Fortunatamente, le folle non rispondono più come greggi e ignorano persino i cani dei pastori, ma sfortunatamente sono i leader a essere diventati un gregge e i cani che abbaiano li indirizzano dove vogliono. L’Europa e la Nato sono un esempio concreto e palese di questa frenesia bellica che alberga nella mente e nei portafogli di chi vuole la guerra: tante greggi, tanti cani, tanti pastori non sempre d’accordo, ognuno con il proprio ego da soddisfare, ognuno con un obiettivo diverso. In America la situazione è più semplice. Il gregge è ancora compatto, il pastore è uno e i cani sono tanti, ma non stanno attaccati alle gambe delle pecore, si accontentano di azzannare quelle del pastore. E sono questi cani, i maestri dei pretesti. Gli Stati Uniti si stanno preparando per un’azione militare in Venezuela tendente a un cambio di regime. Niente di nuovo. Ci siamo abituati al metodo ma non tutti si sono rassegnati ad accettarlo. La Direttrice dell’Intelligence statunitense Tulsi Gabbard sta sussurrando che il tempo dei regime change è finito. Viene dalle Hawaii nelle quali non è stata ancora digerita la colonizzazione Usa che ha portato un po’ di prosperità a scapito della dignità. I cani abbaiano forte contro il Venezuela parlando di lotta alla droga, di regime antidemocratico, di rovesciare un governo corrotto che ha impoverito il Paese. Tutte cose da dimostrare, salvo il fatto dell’impoverimento che è vero ma che dipende dalle sanzioni americane che, come è noto, colpiscono sempre i poveracci e mai i corrotti e i corruttori. Abbaiano sostenendo una squadra di corrotti rifugiati e coccolati negli Stati Uniti che tramano contro il Venezuela dai tempi di Chávez e vorrebbero mettere al governo una signora a cui è stato conferito il premio Nobel per la Pace per aver chiesto agli Stati Uniti d’invadere il suo Paese con le armi. Abbaiano per il petrolio che vorrebbero gratis sottraendolo ai venezuelani, abbaiano per le concessioni minerarie del ricco arco minerario, abbaiano per qualsiasi cosa meno per quello che è il reale scopo dell’operazione: la dimostrazione di potenza nei confronti di Cina e Russia. Uno scopo scontato ma certamente non utile da sbandierare in questo momento di altalena dei rapporti internazionali fra Stati Uniti, Cina, Russia, Brics e altri. Un azzardo pericoloso anche per i complicati rapporti interni tra le amministrazioni e tra i membri dello stesso Partito Repubblicano che si oppongono a qualsiasi iniziativa di colloqui con le altre potenze che non siano già parte del gregge. Sono gli stessi che vorrebbero la linea dura in Ucraina entrando apertamente in guerra contro la Russia. Quelli che brindano con il presidente per aver staccato l’Europa dalla Russia e averla incastrata in un vicolo cieco. Che brindano, senza di lui, per i fallimenti dei negoziati per l’Ucraina, ma non brindano affatto per il successo presidenziale a Gaza né per la politica fallimentare in Medio Oriente, in Asia e nel Sudamerica. Sono gli stessi che pensano che una vittoria facile possa rimediare a tutte le difficoltà attuali. Quelli che non pensano al prima e neppure al dopo. Al prima appartengono tutte le facili operazioni coperte e scoperte di cambio di regime che sono fallite lasciando distruzioni, morti, rifugiati e nessuna prospettiva per il futuro. Al dopo appartengono le conseguenze di un intervento armato che comprometterebbe definitivamente i rapporti con il resto del mondo, a partire da quel giardino dietro casa. L’opinione pubblica mondiale è già contraria all’intervento militare in Venezuela non tanto per salvare il presidente Maduro, ma per ribadire il concetto già espresso dalla Gabbard. Fine dei cambi di regime con la forza, degli interventi esterni non richiesti, dei colpi di Stato eterodiretti. Russia e Cina condividono lo stesso approccio. La prima perché sostiene che i suoi interventi militari in Georgia e Ucraina sono stati provocati dagli Stati Uniti e dagli europei con la rivoluzione delle rose del 2003 in Georgia e quella arancione del 2004 in Ucraina, il colpo di mano militare del 2008 in Georgia, il colpo di Stato del 2014 e la seguente guerra di repressione in Ucraina, e poi con la truffa degli accordi di Minsk del 2015. La seconda (la Cina) si oppone perché non ha mai condotto una sola operazione di quel tipo. Entrambe rigettano la mentalità di provocare tragedie per intere popolazioni al solo scopo di mostrare i muscoli. Una potenza che ha bisogno di essere dimostrata con questi metodi è già una potenza fallita. Fra una decina di giorni è prevista una conferenza internazionale per la pace a Caracas. Potrebbe essere troppo tardi per il Venezuela. Il New York Times ha già anticipato le opzioni militari per colpire il Paese: 1. Attacco alle strutture militari e sedi istituzionali e politiche con conseguente collasso governativo. 2. Operazione di forze speciali per rapire Maduro e la leadership politica e portarla negli Stati Uniti (tipo Noriega, Panama 1988); 3. Invasione e occupazione di strutture strategiche ed economiche d’interesse della Russia e della Cina. Trump sembra essere in dubbio su quale opzione scegliere, se adottarle tutte contemporaneamente o in sequenza o non adottarne nessuna. Forse è l’unico ad avere dubbi sulla facilità dell’esecuzione e sulle conseguenze e spera che Maduro si consegni o scappi all’estero. Ma potrebbe essere troppo tardi anche per gli Stati Uniti. Purtroppo, Trump si è talmente sbilanciato negli insulti a Maduro e nelle promesse ai suoi oppositori e ha lasciato che fossero schierate tali e tante forze nei Caraibi che ora ha il pretesto di non potersi tirare indietro senza perdere la faccia. Ebbene, l’invasione o qualsiasi ricorso alla forza sarebbe un ulteriore colpo alla credibilità degli Stati Uniti quando asseriscono di essere una potenza benigna. Inoltre, “perdere la faccia” è il più puerile e mafioso dei motivi per scatenare una guerra e comunque è il peggiore dei pretesti.

