Guerra alla Russia: ultimo appiglio di una Europa senza identità
di Alessio Mannino - 28/11/2025

Fonte: Inside Over
“Nessun territorio temporaneamente ucraino sarà legalmente riconosciuto dall’Ue come russo”. Così la risoluzione del 27 novembre votata dall’Europarlamento, eccezion fatta per le sue ali posizionate più a destra e più a sinistra. Il gioco al rialzo sull’Ucraina da parte dell’Unione Europea si spiega con una ragione ideologica che va al di là della difesa contingente dell’indirizzo assunto fin qui, sconfessato dall’amministrazione Usa e sbeffeggiato da Vladimir Putin. Una copertura, senza dubbio, rispetto alle esigenze di una Germania in crisi che punta a convertire in senso militare la sua economia, o di una Francia indebitata fino al collo che ancora si aggrappa a un’anacronistica “grandeur” (o di un’Italia che, pur filo-trumpiana, per bocca del ministro Guido Crosetto insegue entrambe, nella prospettiva di tornare alla leva, per ora solo volontaria, perché le armi si possono fabbricare, ma poi devono esserci i soldati che sparino).
All’artificioso condominio a 27 citofoni che è l’edificio di Bruxelles, lo spauracchio putiniano, l’orso russo alle porte, serve come auto-giustificazione per puntellare un’unità fondata esclusivamente sulla moneta unica (eurozona) o, per i non aderenti all’euro come i Paesi dell’Est e la Danimarca, sul mercato unico. Da che mondo è mondo, tracciare un solco e fare di chi sta dall’altra parte una minaccia, vera o presunta, costituisce da sempre il fattore mobilitante per definire la propria identità. Si tratta di un meccanismo ben noto in psicologia: è l’Altro, meglio se mostrificato in sembianze da orco, a definire chi siamo, il “noi” che si erge distinto da “loro”, i diversi, i cattivi.
E quando un soggetto come l’Ue perde la faccia e butta fior di miliardi in un conflitto telecomandato da Washington e vinto sul campo dall’avversario Putin, palesa tutta la fragilità delle sue fondamenta, basate su interessi, al suo interno, diseguali e in rotta di collisione (Germania egemone, Francia buona seconda, Olanda e Stati nordici ultrarigoristi, Italia e Sud considerati “piigs” e, vedasi Grecia, spolpati sull’altare del “sogno” europeista). E infatti, è l’europeismo come ideologia a mostrare evidenti crepe da usura. Di qui il bisogno vitale di inventarsi un “nemico esistenziale”. Perché è la legittimazione stessa dell’Ue che rischia di venir meno di suo, a causa di una decomposizione endogena sempre più scoperta.
Un finto Stato, un finto armamento, un finto Governo
La guerra per procura scoppiata con l’aggressione russa del 2022, ma iniziata nel 2014 con il putsch filo-occidentale a Kiev e l’allargamento della Nato in direzione Mosca, ha rappresentato per l’Unione Europea l’occasione d’oro per ridare fiato alle trombe sul suo leit motiv identitario: la pace. È per la pace, come alla nausea ripetuto dai pulpiti della retorica targata Ue, che è sorto un sovra-Stato la cui natura, in realtà, è di essere un finto Stato, con un Parlamento eletto ma privo di poteri legiferanti e una Commissione spacciata per pseudo-governo quando, come si sa, a prendere le vere decisioni è il Consiglio Europeo, cioè i singoli governi riuniti con voto a maggioranza – e con relativa gerarchia di influenza e peso specifico dei rispettivi Stati. Sottomessa militarmente all’Alleanza Atlantica, che finché manterrà operativa la Nato con centinaia di basi renderà stucchevole blaterare di un esercito europeo, l’Unione si è prima appecoronata, come da copione, all’interventismo americano a sostegno degli oligarchi sponsor di Zelensky, e poi, con il Trump 1, e soprattutto con il Trump 2, si è avvinghiata al ruolo di “defensor pacis”, usando il più trito e vieto luogo comune della propaganda classica: se vuoi la pace, devi fare la guerra. “La guerra è pace”: puro linguaggio orwelliano.
Ma mentre sull’altro lato della barricata la narrazione putinista (anch’essa propagandistica, come del resto vale per i regimi di qualunque tipo) quanto meno circoscriveva le mire all’innocuizzazione dell’Ucraina, e oggi punta al “vedo” scavalcando Zelensky con l’accusa (per altro vera) di aver bypassato regolari elezionil’anno scorso, qui da noi abbiamo assistito a un festival mistificatorio da record. La Russia è alla canna del gas e non ha mezzi né uomini. Putin, novello Hitler, è stato moribondo un giorno sì e l’altro pure. La sua dittatura mantiene il consenso sulla canna del fucile. Gli altri partiti (a cominciare da quello comunista, vivo e vegeto, per non parlare di ciò che sta a destra della destra) è come non esistessero.
La strategia del Cremlino prevede di invadere l’intero continente… E così via disinformando o mentendo, e in ogni caso andando dalla rimozione della realtà alla negazione dell’evidenza. Risultato: l’incontro Trump-Putin in Alaska dello scorso agosto e i negoziati di questi giorni a Ginevra, con uno Zelensky che parla alla nazione per cominciare ad abituare gli ucraini, stanchi, sfiduciati e sempre più, comprensibilmente, disertori, a un esito che vedrà quella che, ammannita come “battaglia di civiltà”, pare avviarsi alla presa d’atto di una sostanziale sconfitta.
Il tempismo della magistratura ucraina
Il tempismo dell’inchiesta della magistratura ucraina sulla corruzione dilagante ai vertici politici è stato, in questo senso, perfetto. Ha dato infatti quella pezza giustificatoria utile a delegittimare una causa che, almeno secondo la fazione non “neocon” della Casa Bianca, è oramai perduta (“fucking war”, l’ha definita il vice di Trump, J. D. Vance). Gli europei sono invece rappresentati in doppia veste da un lato dalla bavarese Ursula von der Leyen, degna lobbista di un riarmo che nei fatti è tedesco (e che includerà atomiche, uranio impoverito, fosforo bianco, robot da combattimento), e dall’altro dalla “coalizione dei volonterosi”, in cui sfacciatamente si sono intruppati gli inglesi della Brexit. Proclamano di volerla, la pace, a condizione che la Russia vi sia “costretta”, come detto da Kaja Kallas, Alto Rappresentante degli Affari Esteri dell’Unione, genialmente prescelta per l’incarico in quanto estone (e quindi anti-russa a prescindere). Una pace che, secondo il segretario Nato, l’olandese Mark Rutte, dovrà partire dal presupposto che la Russia “continuerà a essere una minaccia ancora a lungo”. Cioè anche dopo aver firmato l’eventuale pace, che a quel punto non sarebbe una pace. Sarebbe una nuova guerra fredda.
L’ipotesi di un’intesa possibile, che tenga conto dell’equilibrio di forze sul terreno e della mappa multipolare del mondo, non viene nemmeno considerata, dai nostri Clausewitz in do minore. Anzi, fanno di tutto per sabotarla. Esempio: nel taglia e cuci fra i 28 e i 19 punti dei due piani sul tavolo, Bruxelles è arrivata a espungere perfino quello dell’amnistia tombale per la cricca di corrotti intorno a Zelensky. Pur di proseguire all’infinito le ostilità e proiettare all’infinito l’ombra incombente del nucleare russo sull’Europa, siamo al muoia Sansone con tutti i filistei. Se terminasse la “fucking war”, non si potrebbe più agitare il vessillo della “pace giusta e duratura”. Ma senza il mito della Pace, alla disunita Unione Europea non resterebbe neppure quello, messo in soffitta da un pezzo, delle Radici.
Si ricorderà che agli inizi di questo secolo venne fomentato un certo dibattito in merito alle “radici culturali”, da inserire in una Costituzione europea che non ha mai visto la luce poiché affondata dai referendum del 2005 in Francia e Paesi Bassi. In particolare, l’oggetto del contendere verteva sull’interrogativo filosofico se queste radici dovessero definirsi cristiane oppure no. Ne nacque un organo apposito denominato, con reminiscenza da Rivoluzione Francese, “Convenzione”, guidata difatti da un ex inquilino dell’Eliseo, Valéry Giscard d’Estaing.
Anche i più convinti assertori dell’europeismo militante capivano che non di solo euro poteva vivere un’impalcatura di trattati fra nazioni (perché questo è, l’Ue) eretta, in sostanza, sul verboten assoluto d’inflazione e sul controllo della spesa pubblica, di modo da agevolare in primis l’espansivo mercantilismo germanico. La visione ideologica di supporto, il cosiddetto ordoliberismo (sempre di matrice teutonica), doveva agganciarsi a una qualche mitologia, in grado di infondere un’anima agli odiosi parametri di Maastricht.
La questione delle radici
Rispetto ai numeri, alle norme e ai concetti, i miti agiscono nella psiche collettiva a un livello più profondo, subconscio. Il mito della Pace funziona sempre, perché rimanda con rassicurante immediatezza a una sensazione di confortevole quiete. Ma in quella fase, dopo il bombardamento del 1999 a Belgrado e con gli inni alla “guerra infinita” di Bush jr, il richiamo alla pacificazione suonava come minimo traballante, se non straniante. Parlare di radici comuni, tuttavia, non risultò granché efficace. Non tanto per la difficoltà di delinearle con esattezza storico-antropologica (solo cristiane? e quelle musulmane, specie proprio nei Balcani, no? e perché non anche pre-cristiane, ovvero pagane?, tutti quesiti che potevano appassionare l’élite colta, gli studiosi di tradizioni e i crociati della democrazia da esportazione, non certo le masse). Ma perché era una manifesta operazione strumentale, volta a creare un mito d’origine diciamo religiosa che, in quel frangente, era funzionale ad alzare un muro di cartapesta contro l’islamismo fondamentalista e terrorista. Affievolitasi quell’emergenza, la logomachia sul radicamento spirituale è, come per magia, sparita.
Oggi nessuno si occupa più della questione dell’identità europea. Sembra più persuasivo l’appello alle coscienze contro un pericolo apparentemente vicino e reale: la Grande Matrigna Russia. Sembra. Perché perfino la Von der Leyen, dal chiuso del suo palazzo, è consapevole che mettere sul piatto i 200 miliardi indispensabili a tenere in piedi per altri due anni un’Ucraina alla bancarotta totale (militare, politica,finanziaria, etica) significa provocare il risentimento dei cittadini europei, alle prese con il caro-energia dovuto in buona misura alle forsennate scelte russofobe benedette da Bruxelles. Tanto che si preme sul Belgio perché autorizzi il ladrocinio dei beni russi, stipati in gran parte in una sua società-forziere (Euroclear), sui quali aprire un prestito-ponte. Come se li avessero già in mano. Insomma, in quella scatola idealmente vuota che è l’Ue, si vive all’insegna del motto “finché c’è guerra c’è speranza”. Albert Camus scriveva che si potrebbe anche vivere dentro un albero cavo, se si vuole. Ma alla lunga, con tutta la venerazione per Camus, ci si potrebbe anche stufare. L’europeismo, di fonte liberista e per necessità guerrafondaio, è l’albero cavo. E purtroppo, a noi è toccato viverci dentro.

