Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I Quaderni della Kolyma

I Quaderni della Kolyma

di Andrea Pozzoli - 31/01/2022

I Quaderni della Kolyma

Fonte: Andrea Pozzoli

I Quaderni della Kolyma [1] di Varlam Šalamov

 

Le stesse nevi del secolo di Avvakum,

la stessa crudele scismatica tajga,

dove di giorno anche col fuoco non trovi nessuno,

non dico un amico ma neanche un nemico.

                                                                            (p. 19)

 

Una poesia di quattro versi è sufficiente a tracciare le coordinate essenziali di un’esperienza che, però, travalica drammaticamente i confini della comprensione umana ed assume i tratti della inesauribilità. Il freddo artico nella taiga della Russia nordorientale, il confino di un uomo che rivive su di sé la tragica fine dello scismatico ortodosso Avvakum del XVII secolo, la solitudine insopportabile e disumana che ne deriva rappresentano, infatti, quanto tragicamente sperimentato dal poeta Varlam Tichonovič Šalamov a partire dal 1936 e fino al 1951, anni nei quali le purghe staliniane lo destinarono ai lavori forzati presso le miniere d’oro del gulag della Kolyma.

 

Se dello stesso autore ben più noti sono I racconti della Kolyma pubblicati integralmente in occidente per la prima volta nel 1973 e che Šalamov dovette misconoscere in patria alla stregua di una produzione di fantasia, la sua opera poetica non è certo di minor importanza, se Pasternak e Solženicyn ne riconobbero, oltre al peso come testimonianza storica e personale, l’intrinseco e irrefutabile valore letterario.

 

Scrivere di quel mondo ai confini del mondo rappresenta per Šalamov una sfida altissima, non soltanto perché “il gulag è un tema tale per cui financo un centinaio di scrittori come Lev Tolstoj potranno stare uno accanto all’altro, senza stare stretti” (p. 5), ma poiché lo strumento che il poeta stesso si trova tra le mani rischia di risultare insufficiente di fronte al cimento che si prefigge, tanto che egli arriva ad affermare che “il piccone e la lama dell’ascia / sono più affidabili della fragile penna” (Il cammeo, p.27). Eppure tale strumento così “semplice” e “primitivo” può fare molto, al di là di ogni aspettativa:

 

Com’è primitivo

il nostro semplice strumento:

dieci quinterni di carta da dieci soldi,

una matita frettolosa:

 

è tutto ciò che occorre agli uomini

per innalzare qualunque castello

veramente sospeso per aria,

sul destino quotidiano.

 

Tutto ciò che a Dante era bastato

per erigere quelle porte

che s’aprono sull’imbuto conficcato

nel ghiaccio dell’inferno.

                                                              (Lo strumento, p. 79)

 

Lungi dal costituire un compiaciuto vezzo intellettuale, il richiamo dantesco si pone altresì come il lessico ideale più efficace che l’immaginario poetico abbia da offrire per descrivere la Siberia dei gulag: il fondo dell’Inferno non può che essere, infatti, inesorabilmente ghiacciato. Il poeta russo, inoltre, condivide con l’Alighieri l’esperienza dell’esilio e la conseguente necessità di mandare a memoria, per quanto possibile, i testi da lui composti, in quanto “le condizioni del Settentrione precludono qualsiasi possibilità di scrivere o conservare racconti o poesie: anche qualora si sia riusciti a «scriverli»” (p.6). Infine, è proprio la magnificenza dell’opera dantesca, nel suo proposito di trattare una materia tanto al di sopra dell’umano, a costituire una conferma a Šalamov della legittimità del suo tentativo di descrivere l’Inferno in terra: la matita è poca cosa, ma basta ad “innalzare qualunque castello / veramente sospeso per aria, / sul destino quotidiano”, quindi non a dare forma ad un’inutile astrazione, ma a creare uno spazio di verità per una testimonianza tanto potente da imporsi al mondo, che quotidianamente è complice, voltato dall’altra parte o ignaro di tutto.

 

Potrebbe sembrare improbabile che una vocazione poetica possa prendere le mosse dall’orrore inconcepibile del gulag e dall’isolamento procurato dalla taiga siberiana, detta per questo “scismatica” (p.79), come si è letto in apertura, dove il termine russo per scisma (raskòl) indica l’atto violento dello strappar via. Eppure la poesia trova il modo di farsi largo nell’animo del poeta in virtù, prima di tutto, di una condizione esteriore: quella natura che pare tanto avversa diviene, invece, interlocutrice fidata, grazie alla quale Šalamov può avviare il proprio discorso interiore.

 

Mi sono lamentato con l’albero,

con la parete di tronchi,

e la fiducia dell’albero

mi era nota.

 

Abbiamo pianto molto insieme,

parlato di tutto,

ci è dato spiegarci

a segni.

 

In una casa di mattoni, di pietra

non avrei detto nemmeno una parola,

per anni, per secoli

avrei sopportato e taciuto.

                                                                         (p. 17)

 

Una condizione esteriore che è, dunque, necessaria, se “in una casa di mattoni, di pietra” il poeta non avrebbe detto “nemmeno una parola”; alla quale, però, se ne aggiunge una interiore: una particolare capacità di sguardo.

 

La luna pende come un greve

enorme frutto dorato

dai rami dei miei alberi spogli

– i larici di cristallo – ed ecco

 

mi pare che, allungata la mano,

affidandoti all’infanzia una volta di più,

potrai cogliere la luna e recidere la sofferenza

con cui la vita ci spaventa.

                                                                                      (p. 61)

 

Se la prima quartina si limita ad una piacevole descrizione per mezzo di un paragone tra la luna ed un frutto che pende dal ramo di un albero, nella seconda ha luogo l’azione trasfigurante della poesia che sovrappone e fonde i piani, spalancando una prospettiva esistenziale e non più solo estetica. Così, diviene chiaro come fare poesia non consista solo nel dire in modo poetico, come nella prima strofa, ma nel rivolgere alle cose uno sguardo di innocente fanciullesca genuinità che sappia cogliere la bellezza come un frutto inaspettatamente maturo in un’esistenza tanto acerba da spaventare per la sofferenza che provoca. La bellezza è concepita, pertanto, come una possibilità di salvezza almeno interiore.

 

Va, però, rilevato come in questi versi non siano contrapposti gelo e bellezza, ovvero bellezza e dolore, poiché essa non è colta nonostante la sofferenza. Anzi, quell’“ed ecco” in enjambement al termine della prima quartina fa sì che la bellezza coesista per natura con il gelo della notte, con il dolore: essa non è un’eccezione alla sofferenza, ma è in questa paradossalmente presente perché sia colta. Così, Šalamov può affermare che “Tutto ciò che è accaduto: tutto inutile. / Qui è unico, indivisibile / il canto degli uccelli e l’aurora” (Al falò, p. 89); dunque, nella molteplicità delle cose, la bellezza è un unicum indivisibile a compensazione di “tutto ciò che è accaduto”, consapevolezza dalla quale il poeta può ricavare una conseguenza: “Tutte le gioie, tutte le perdite / hanno pari valore e sono lievi” (p. 89). Ma come può la bellezza compensare la vita della sua sofferenza?

 

            Per affrettarsi a morire

            vi sono motivi a sufficienza,

ma non voglio diventare oggetto

di medicina legale.

 

Amo ancora l’alba

del più limpido acquarello,

amo la luce d’ottone della luna

e i trilli delle allodole...

                                                             (p. 53)

 

In effetti, l’apertura ammette come quanto vissuto dal poeta sia già sufficiente obiezione al desiderio di vivere (“Per affrettarsi a morire / vi sono motivi a sufficienza”), tanto che altrove egli confessa che “nella neve fonda, nel segreto obliato / non è il cambio che attendo, ma la morte” (p.35) e ancora mediterà tra sé e sé: “Dov’è l’anima? Come pelle di zigrino / si riduce, perisce, marcisce. / Il canto? Il canto, come Anna Karenina, / attende il treno che s’avvicina” (p. 95). Tuttavia, non in una prospettiva religiosa che trascenda, ma entro una visione immanentista che riduce l’essere ai minimi termini, Šalamov constata cosa significhi morire (“diventare oggetto / di medicina legale”) ed è entro questo immanentismo all’apparenza cinico che egli riesce a trovare un insperato attaccamento all’esistenza: se l’alternativa è il nulla, c’è molto per cui vivere (“Amo ancora l’alba...”). Così, sebbene sub specie temporis e non sub specie aeternitatis, anzi proprio per questo, Šalamov si sottrae al rischio di una deriva nichilista, poiché gli è chiaro come l’essere non sia nulla, ma sia piuttosto spazio di manifestazione della bellezza e si dimostri, per questa ragione, amabile, poiché ciò per cui vale la pena vivere non può che essere oggetto d’amore. Questo, tuttavia, ancora non basta.

 

Nelle ore notturne, ghiacciate,

abbrutito dalla fatica,

scaglierò al cielo i segnali di chiamata

della settantesima latitudine.

 

Che un geologo barbuto,

sgelato alla fiamma il compasso,

intersechi pure le mie coordinate

sulla montagna incantata.

 

Là, come Tannhäuser da Venere,

irretito dalla nudità nevosa,

da vent’anni vivo in una caverna

ardendo di un’unica speranza:

 

riconquistata la libertà,

e come Sansone scrollate le spalle,

far crollare le volte di pietra

su questo sogno pluriennale.

                                                             (p. 63)

 

La sola bellezza colta in sé stessa non basta nemmeno al trovatore Tannhäuser, tenuto prigioniero sulla Venusberg, la montagna di Venere, dove la dea stessa cerca di trattenerlo dando fondo alle proprie arti seduttive, senza successo: egli, infatti, intona sì un canto appassionato rivolto alla dea, ma conclude implorandola di concedergli la libertà. Anche Varlam Šalamov – “irretito dalla nudità nevosa” – canta la foresta, la neve, il gelo, ma quella bellezza è insufficiente se non è accompagnata dal conseguimento della libertà; infatti, il poeta aspira ad una fuga di vaga reminiscenza platonica dalla caverna in cui è rinchiuso “da vent’anni”. La sola bellezza colta nella sofferenza non è in grado di rispondere al bisogno del poeta, alla sua domanda. Del resto, se essa costituisse la soluzione proposta da Varlam Šalamov, la bellezza correrebbe il rischio di ridursi a fortunoso rifugio, a evasione estemporanea o a pretenzioso intellettualismo stoico. Si potrebbe asserire, invece, che la bellezza, lungi dall’essere compensazione definitiva alla prigionia e alla sofferenza, sia, però, in grado di ridestare le passioni e i ricordi e mantenere viva la fiamma del desiderio di libertà, preservando l’uomo dal progressivo e in molti casi ineluttabile imbestiamento.

 

Scambierà, senza uomini, senza libri,
confidando nella natura soltanto,
il proprio linguaggio umano
con interiezioni da bestia.

 

Scaverà con le mani il covo per la notte

nelle scricchianti foglie forsennate,
quell’uomo inselvatichito,
quell’intellettuale navigato.

 

E con la costola sporgente,
tendendo la pelle,
non sarà in grado di stabilire
la differenza tra il bene e il male.

 

D’improvviso, lavatosi all’alba
con acqua sorgiva,
leverà lo sguardo alla montagna
e ululerà come un lupo…

                                                             (p. 69)

 

Al contrario, l’esperienza della bellezza ridesta la poesia come atto caparbio da parte di un’umanità che non intende rinunciare a sé stessa e cedere all’imbestiamento. Ecco, pertanto, motivato il precedente richiamo alla figura di Sansone (p. 63), poiché, come il giudice biblico dalla forza sovrumana, Varlam Šalamov intende usare la propria libertà per far crollare la volta sulla propria prigionia altrettanto filistea.

 

Questo è decisivo, giacché per Šalamov il fare poesia non è, dunque, più riducibile ad una mera questione personale, un tentativo individuale di sopravvivenza o di ribellione, ma rappresenta altresì un atto di responsabilità civile e storica di fronte a tutti gli uomini, un compito di cui il poeta deve farsi carico perché è ciò di cui la società ha vitale bisogno, come dell’aria che respira.

 

Dalle finestre del proprio appartamento,

con la medesima forza dei fiori

inspira l’aria stantia del mondo,

in un attacco d’asfissia per biossido di carbonio.

 

L’asfissia da sangue, lacrime e sudore,

che trangugia tutti i santi giorni,

in un misterioso lavorio notturno

si tramuta in ozono.

[...]                                                                    (p. 59)

 

Davvero, dunque, il compito assunto dal poeta è importante quanto l’aria che gli uomini respirano, se, per spiegarne la natura, Šalamov si trova a ricorrere ad una metafora arborea: il male del mondo, paragonato al biossido di carbonio – mortale e fatalmente inodore – è assimilato dal poeta, che lo restituisce per fotosintesi in forma di ozono, gas proverbialmente odoroso (dal greco ozein, emanare odore), già al tempo usato per la disinfezione dell’acqua potabile, delle sale operatorie, degli strumenti chirurgici e delle ferite riportate in combattimento. Il poeta ha, pertanto, certamente la funzione di testimoniare il dolore, la sopraffazione, la violenza, ma trasfigurandone la sostanza in qualcosa d’altro, qualcosa che abbia potere curativo, che da veleno sia divenuto antidoto, che da minaccia mortale sia assurto a riscatto della vita.

 

[...]

E come una sorgente di ossigeno

– l’arbusto, la fitta boscaglia e l’erba –

crescono di notte fra il popolo

le sue parole officinali.

 

Non ce ne importa nulla – che siano fogli

o foglie – del nome dell’oggetto – non solo quello

dei linguisti – che il poeta ha osato

inspirare.

 

Non ci hanno irretito, nel folto di quei boschi,

le contese grammaticali,

ma il respiro profondo della fitta foresta di pini

della terra che risana come un farmaco taumaturgico.

(p. 59)

 

È ribadita, così, la vocazione popolare e non elitaria della poesia, la quale, infatti, cresce “fra il popolo” ed è costretta a farlo “di notte”, proprio perché atto sovversivo che non può consumarsi alla luce del giorno (“Nuoto nella notte come un pesce [...] Durante il giorno tetro e loquace / non oso nemmeno spostarmi sul fondo”, p. 43). Sebbene nascosta nell’ombra, però, la poesia trova, comunque, la propria strada per emergere (“Quando da sotto il ghiaccio, riesumata, / deformando il rilievo delle sponde / l’acqua raggiunge, come per miracolo, / le nevi fuse dal sole”, p. 131) e per beneficiare gli uomini del proprio potere curativo. Pertanto, Šalamov può davvero definire le parole poetiche come “officinali”; così facendo, infatti, riconferma la metafora arborea da lui proposta, nonché la vocazione popolare del lavoro poetico. Se, però, la poesia è officinale (dal latino officinalis < officina < opificina) e, dunque, il poeta è opifex (operaio, artigiano), Šalamov riattualizza, con questo, in modo inaspettato, l’antica concezione della poesia come poiesis, creazione, a cui egli non può sottrarsi perché “irretito” dal “respiro profondo della fitta foresta di pini” e “della terra”, che “risana come un farmaco taumaturgico” e che nel suo cuore desta una “voce imperiosa” (p. 71) a cui deve obbedire.

 

La voce imperiosa del cuore malato

mi ripete per la centesima volta

che non vivo invano

quando tento di vivere per voi.

 

Sono come l’ape di Maeterlinck,

l’ape laboriosa,

per la quale non sono nulla di nuovo

le meste vicende umane.

 

Raccolgo fino all’alba,

goccia a goccia il miele lacrimoso,

e non conosco la fine di tale tortura

e non riesco a liberarmi da tale incombenza.

 

E più le parole inquiete sono concordi

nell’esigere di essere posate sulla carta,

più io vivo in modo incauto

e la testa mi riarde sempre più.

                                                                         (p.71)

 

Quella “voce imperiosa del cuore” – oltre a costituire una vaga reminiscenza dantesca (cfr. Purg. XXIV, 52-54) – riformula quello che per le api di Maurice Maeterlinck (poeta belga premio Nobel nel 1911) era lo spirito dell’alveare, quel potere mascherato e sovranamente saggio che le spinge a sacrificargli ogni attimo della propria esistenza e addirittura sé stesse. Allo stesso modo, la poesia a cui quella voce chiama ha un costo, perché trae la propria origine dal dolore a cui il tentativo di dare forma poetica è causa di ulteriore sofferenza: “Prenderò una chiave di ferro / per aprire il mio cuore. / L’aprirò con grande fracasso, / fuoco e lamenti, / cadrò a terra in ginocchio, / piangerò” (p. 85). Si tratta, pertanto, di una materia prima difficile da raffinare, ma che il poeta accetta di maneggiare, ancorché incandescente, perché è l’unico modo “per far sì che dal fuoco in denso getto / la vita fluisca in forma di parola”:

 

Che con tutto il calore dell’esposizione

fluisca nella lingottiera il metallo:

delle poesie i movimenti silenti,

incandescenti, a mille gradi.

 

Che in contrasto con sé stessa

si sprechi tanta fatica:

il minerale in cui è mescolato il dolore

non è un minerale che si fonda bene.

 

Ma io ne colmerò i versi

per renderli incandescenti,

per far sì che dal fuoco in denso getto

la vita fluisca in forma di parola.

[...]

                                                             (Fusione e colata, p. 107)

 

In questo modo, diviene chiaro perché, sebbene costi un oneroso sacrificio, il poeta sia disposto ad ascoltare quella “voce imperiosa”: la poesia gli si impone come atto di devozione all’umano, nel quale il bisogno che Šalamov sente della compagnia dei propri simili (“Sono stanco di amare gli animali, / è di mani umane che ho bisogno, / di contatti ardenti, sudati, / di strette di mano a tu per tu”, p. 99) si sublima nel desiderio di rispondere al bisogno non più proprio, ma di tutti gli uomini del suo e di ogni tempo. La responsabilità che ne deriva di fronte alla storia fa sì che la poesia non possa tacere o farsi incomunicabile inviluppo ermetico (“non voglio cucirmi la bocca come Ermete”, p. 129), ma si coniughi in un atto del dare, del lasciare di sé, con gratuità e speranza. Così – quasi rispondendo alla hölderliniana domanda fatta propria da Heidegger (“Wozu Dichter in dürftiger Zeit?”, “Perché i poeti nel tempo della povertà?”), la poesia di Varlam Šalamov, nata nel gelo mortale del nord, riesce a spalancare una dimensione primaverile fatta di api, fiori e miele dolcissimo. È una poesia che sa di rinascita e compimento salvifico, sbocciata affinché sia raccolta da quel “solitario viandante” che è l’uomo, al quale essa consentirà di superare l’inverno, di non cadere nell’imbestiamento e vedere ridestata la propria umanità “in spasmi di gioia”.

 

Cadrà il mio verso

come bacca matura di rosa canina

dall’esile ramoscello della poesia

appena gelata.

 

Sul rigido cristallo della neve

schizzano gocce di succo:

sorride un uomo,

solitario viandante.

 

Mescolando lo sporco sudore

con la purezza della lacrima

raccoglierà con cautela

i ghiaccioli colorati.

 

Succhia il miele color lilla

di questi dolci dal sapore aspro

e torce la bocca disseccata

in spasmi di gioia.

(Miele color lilla, p. 77)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] V. T. Šalamov, Quaderni della Kolyma. Poesie (1937-1956), Giometti & Antonello, 2021, Macerata.