Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I tortuosi sentieri della “canoscenza”. Parte II: orientarsi nel vasto mondo

I tortuosi sentieri della “canoscenza”. Parte II: orientarsi nel vasto mondo

di Pier Paolo Dal Monte - 06/09/2017

I tortuosi sentieri della “canoscenza”. Parte II: orientarsi nel vasto mondo

Fonte: ilvelodimaya

 

 

Nella prima parte abbiamo voluto svagarci un poco, prendendoci giuoco dei bamboleggiamenti che caratterizzano lo scientismo meschinello dei nostri tempi. Tuttavia, il nostro intervento (per quanto introduttivo) non voleva essere soltanto uno sterile gigioneggiare ma era volto, innanzitutto, ad evidenziare come ciò che viene chiamato “conoscenza” sia sempre contaminato da fallacie sistematiche sotto forma di distorsioni (bias), pregiudizi e conflitti di ogni genere (cognitivi, culturali, economici, sociali, ecc.) che ne fanno uno strumento assai imperfetto (ma perfettibile).

Comprendere questo è importante perché reca con sé un’attitudine al dubbio, che non è il dubbio ontologico cartesiano, bensì il dubbio contingente nei confronti del principium auctoritas e dell’ipse dixit, ma anche della rappresentazione collettiva creata dai mezzi che costruiscono lo Zeitgeist (i vari cleri descritti da Costanzo Preve: il clero secolare dei mezzi di informazione, il clero regolare dell’accademia).

In realtà, ciò che viene chiamato “conoscenza, è qualcosa di assai complicato da definire e da comprendere. Di fatto, non possiamo neppure essere certi se questo mondo che ci si dispiega attorno a noi – e ciascuno degli innumerevoli fenomeni che percepiamo- si realtà o illusione, un dubbio presente fin dall’antichità, come attesta questo passo dei Purāṇa

«E’ questo un sogno? O sono sotto il giogo dell’illusione? Sicuramente questa realtà in cui mi trovo deve essere il prodotto della mia immaginazione. Che tipo di universo è questo in cui mi scopro esistere?»[1]

Per cercare di definire meglio il problema al quale ci troviamo di fronte, è bene, pertanto, fare alcuni passi a ritroso, procedere molto più “a monte” rispetto alla metafora rappresentata dalla moderna scienza (alla quale abbiamo accennato nella parte precedente) e addentrarci in quel caliginoso reame che è rappresentato dalla “conoscenza” in senso assai più generale, ovvero dalle diverse facoltà e dei variegati strumenti che permettono di apprendere, di elaborare e di ordinare i diversi fenomeni che ci circondano, e di “organizzare” ciò che dentro di noi: impressioni, immagini o pensiero astratto che sia.

Gli esseri umani, così come tutti gli esseri senzienti, possono sopravvivere solo se riescono ad orientarsi attraverso gli innumerevoli fenomeni del vasto mondo tramite i diversi strumenti cognitivi. La conoscenza è la costruzione, nella mente dell’immagine a del cosmo, delle “cose visibili e invisibili”; il rispecchiamento (o, in altre parole: l’introiezione) di questo macrocosmo nel microcosmo individuale o collettivo (conoscenza trasmessa o tramandata).

“Cosmo” deriva da κοσμέω, “ordinare, “adornare” (da cui κόσμησις, “cosmetica), è pertanto una nozione che scaturisce dall’osservatore e non dalle caratteristiche intrinseche del creato. È la mente che orna e adorna una “natura” che, di per sé, non è qualificata da un ordine fino al momento in cui questo viene compreso, o attribuito .

L’ontogenesi microcosmica rispecchia la filogenesi macrocosmica[2]: in entrambi i casi si va dalle tenebre dell’indifferenziato alla luce della differenziazione. Alla nascita l’essere apre gli occhi alla vita da un buio senza tempo e senza dimensioni, dalle tenebre della non-esistenza alla luce dell’essere. La nascita è la subitanea emersione del tutto.

In quei momenti ontogeneticamente primigeni, il cosmo viene immediatamente percepito secondo le sue caratteristiche “primarie”: luce e suono che, nel microcosmo della mente danno origine allo spazio e al tempo. Luce e suono furono anche le manifestazioni cosmogoniche primordiali. Il fiat lux illuminò l’indifferenziato Caos e lo fece diventare Cosmo. La luce, dal momento del nostro personale fiat lux, illumina lo spazio che viene abbracciato dalla visione. Per i greci era, thea, da cui origina theoria: la contemplazione che consente di “guardare dentro” (in-tuizione, da in-tueri) l’apparenza del mondo fenomenico.

Il suono, che cominciò a scandire il nostro tempo coi respiri e le pulsazioni del cuore -un battito dopo l’altro, un soffio dopo l’altro- diede inizio al tempo dall’eternità indistnta, Nella mitologia vedica, Vac, il suono cosmogonico[3] generò la successione temporale, il movimento dall’eternità immobile[4], il Verbo/Logos come essenza ultima della realtà. E così il logos, il discorso, scandisce anche il nostro personale tempo: le parole pronunciate e udite non sono che una successione di suoni, i fonemi. Un tempo, la preghiera, le litanie, le orazioni, i mantra scandivano il tempo interiore in modo che si accordasse al ritmo del creato. Scriveva Platone:

«L’armonia è stata data dalle muse a chi abbia l’intelletto per potersene giovare, non perchè serva, come si crede oggi, allo stolto piacere, ma per rendere consono il moto dell’anima che fosse divenuto discordante»[5]

La conoscenza presuppone la coscienza, e la coscienza appare con l’apparire del mondo. L’apparire al mondo è, dunque, al contempo, l’apparire del mondo, la subitanea origine del tutto. Siamo esseri circondati da apparenza che non sanno donde queste apparenza scaturisca. È pertanto insito nell’uomo interrogarsi sul mistero delle forme, del pensiero e della coscienza dall’oscurità del nulla.

Hannah Arendt ed Elemire Zolla, pensatori quanto mai diversi, hanno scritto quasi le stesse parole, a questo proposito

Così Hannah Arendt:

«Possiamo presumere che questa idea di «fondo» risponda all’interrogazione più antica della scienza non meno che della filosofia: come può mai accadere che qualcosa o qualcuno, compreso’ me stesso, appaia, e che cosa lo fa apparire proprio in questa forma e non in un’altra?»[6]

E così Elemire Zolla:

«Si contempla quando si miri ai significati della realtà in uno stato di quiete. Allora le cose non si osservano soltanto, ma ci si interroga:

perché esse esistono nel cosmo, perché si offrono alla nostra attenzione?»[7]

Queste frasi ci portano direttamente al grande tema di fondo del pensiero umano, della filosofia, così come espresso da Platone:

“«Perché la meraviglia è ciò che sostiene di più la filosofia, non c’è altro principio della filosofia che questo»[8]

Se procediamo nella filogenesi del pensiero, che, anche in questo caso è rispecchiata dall’ontogenesi[9], possiamo constatare che la storia dell’uomo è stata forgiata da una sorta di “dualismo primigenio”: quello tra “natura” e “cultura” ovvero, tra ciò “che è coltivato” e “ciò che è generato spontaneamente”, tra la creazione umana e quella demiurgica: il Cosmo. A differenza degli altri esseri animati, l’uomo riesce a costruire un proprio mondo che è diverso e altro rispetto a quello dato per natura; la cultura la conoscenza comune crea la mente collettiva, e viene tramandata, la tradizione.

Come asserì, con parole assai più alate delle nostre, Pico della Mirandola[10], l’uomo, a differenza degli altri esseri senzienti, riesce a costruire il proprio destino e il proprio mondo che è “altro” rispetto a quello dato per natura (non necessariamente “contrapposto” ma, senza dubbio diverso). Un mondo costruito dalla poiesis e organizzato dalla praxis; un mondo di opere fatte per durare, e di azioni fatte per essere tramandate. La natura è entropia, ineluttabile caducità e decadimento ad opera del tempo; la cultura è “neghentropia” (ampliando un po’ il significato del termine coniato da Erwin Schroedinger)[11]: opere stabili e pensieri reificati in forme tramandabili che restano oltre il piccolo lasso “neghentropico” delle singole esistenze (in senso termodinamico, propriamente Schroedingeriano, questa volta)

Questo dualismo primigenio fu metaforeggiato nella cacciata dal Paradiso, l’abbandono della condizione edenica non-duale, fu il frutto dell’albero della conoscenza a separare l’uomo dalla condizione edenica primordiale. La conoscenza diede origine alla τέχνη (tekne) che, «come il fuoco di prometeo, separa la cultura dalla natura»[12]

A questo punto, però, non vorremmo indugiare troppo a lungo sul dualismo natura-cultura, perché ci tocca addentrarci più propriamente nell’ontogenesi della conoscenza (anche se, nel nostro procedere, non ci scrolleremo di dosso completamente la filogenesi)

Da questo punto di vista possiamo dire che, in primo luogo, l’essere umano apprende dall’esperienza, la sua relazione col mondo esterno è mediata dalle percezioni sensorie che interagiscono con gli oggetti sensibili, li “assaporano”. Questa metafora gustativa è l’origine del verbo “sapère”,  dal latino sapio che è “assaporare”, ma anche “avere sapore”. Il gusto è il più intimo dei sensi, quello col quale vengono “sviscerate” le caratteristiche più importanti per la sopravvivenza, una sorta di “analisi in nuce” delle proprietà nutrizionali degli alimenti, della loro edibilità o tossicità.

Tuttavia gli organi di senso, non sono certo ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri senzienti, e neppure lo è l’elaborazione degli impulsi come paradigma di stimolo-risposta, nel quale la percezione viene trasformata da quell’entità chiamata “sistema nervoso centrale” per diventare qualcosa che noi definiamo: “oggetto della percezione”, ossia il mondo come ci appare. Come scrisse ancora Elemire Zolla:

«Il lume è della mente, fuor d’essa esistono soltanto rate vibrato­rie, che gli animali notturni, come i pipistrelli con il loro radar, sostituiscono benissimo con altre d’altre lunghezze d’onda, crean­dosi ugualmente la loro visione dello spazio, le loro equivalenti immagini. Fuor della mente esistono soltanto vibrazioni, eventual­mente visibili, ma non c’è visione. La luce della visione è opera della mente; alla forma luminosa creata dalla mente, gli stimoli oculari offrono soltanto la materia occasionale[13]

I suoni sono soltanto vibrazioni dell’aria: non vi è un’intrinseca differenza tra il brontolio di un tuono in lontananza e un concerto barocco: è la mente che trasforma le percezioni in armonie o cacofonie. Gli stessi oggetti che appaiono solidi e consistenti (da cum-sistere) non sono che la metafora sensibile di legami atomici e molecolari, impalcature che racchiudono uno spazio vuoto. Oppure, viceversa, è quest’impalcatura molecolare la metafora “scientifica” degli oggetti, ma sta all’”osservatore” il compito di decidere quale sia la metafora e quale il reale. E ciò che giunge alla nostra retina non è altro che un assieme di fotoni che il sistema nervoso centrale trasforma in oggetti e colori, ed è la mente che dà un significato a questi oggetti e colori e li dispone nella nostra immagine del mondo.

In breve, il sistema nervoso centrale (ovvero ciò che ai nostri tempi viene gabellato per “mente” o “psiche”) elabora gli impulsi sensori e seleziona le risposte adeguate a questi stimoli. Ma, per rispondere agli stimoli del mondo esterno, bisogna che questo mondo esterno vi sia, ovvero, come abbiamo evidenziato sopra, è necessario che venga compiuta la differenziazione primaria, quella tra sé e il non sé.

Il fisico Henry Stapp[14], ha elaborato una classificazione tripartita di quelli che potrebbero essere definiti: “schemi primari” della conoscenza. Secondo questa classificazione il ruolo di differenziazione fondamentale è ricoperto da quello che egli denomina “schema corporeo”, che è la rappresentazione mentale del corpo fisico, come è ben spiegato da questo passo del filosofo Merleau-Ponty:

«Ora, dunque, che ho nella percezione la cosa stessa, e non una rappresentazione, aggiungerò soltanto che la cosa è in fondo al mio sguardo e, in generale, alla mia esplorazione; senza presupporre nulla di ciò che la scienza del corpo altrui può insegnarmi, io devo constatare che il tavolo di fronte a me mantiene un rapporto singolare con i miei occhi e il mio corpo: io lo vedo solo se è nel loro raggio d’azione; sopra di esso c’è la massa scura della mia fronte, sotto c’è il contorno più indeciso delle mie guance: entrambe visibili al limite, e capaci di nasconderlo, come se la mia visione del mondo stesso si facesse da un certo punto del mondo. […] Già il mio corpo, in quanto regista della mia percezione, ha dissolto l’illusione di una coincidenza della mia percezione con le cose stesse.»[15]

Lo “schema corporeo” è in stretta relazione col secondo schema descritto da Stapp: lo “schema del mondo esterno”, che è l’immagine di ciò che è attorno a noi (intendendo questo “attorno” non strettamente in senso di “prossimità”, ma come tutto ciò che è “altro da noi”). Inoltre egli descrive un terzo schema, lo “schema delle credenze”, che è ciò che, in altri termini, si potrebbe anche definire come “visione del mondo” (Weltanshauung), che costituisce una sorta di filtro con il quale interpretiamo i fenomeni e i dati.[16]

Willard Van Orman Quine, filosofo statunitense, ha descritto, in maniera piuttosto brillante, il complesso delle nostre convinzioni, come una ragnatela, mediante la metafora del Web of belief (“Ragnatela delle convinzione”)[17]. Secondo questo modello, le opinioni che derivano dall’osservazione sono situate alla periferia della ragnatela, mentre, più all’interno sono situate le asserzioni che sono ritenute avere un maggior “fondamento”.[18]

Ad esempio, l’opinione che è meglio non mettersi in auto all’”ora di punta”, per evitare il traffico, può essere ritenuta un’ osservazione alla periferia del “web of belief” (perché non sempre è vero,). Mentre l’asserzione che la “terra è rotonda” che, non solo è “scientificamente” attestata, ma è anche condivisa dalla grande maggioranza delle persone, si colloca in posizione centrale. Le opinioni più “periferiche” sono più facili da modificare, perché si basano su un assieme di impressioni ed esperienze transeunte; al contrario, quelle più interne che, avendo un ruolo molto più importante sulla nostra visione del mondo, sono le più stabili e più difficili da correggere, perché ciò implicherebbe una revisione profonda di quest’ultima.

Per usare le parole dello stesso Quine: «Le nostre convinzioni sul mondo affrontano il tribunale dell’esperienza non individualmente, ma come un complesso inscindibile[19], pertanto le nostre teorie devono essere esaminate nel loro assieme, e non nei singoli assunti che le compongono[20]. La nostra Weltanschauung o, in altre parole, il complesso dei nostri pregiudizi, è il soggetto reale che si confronta col “mondo esterno”: coi singoli fenomeni, oggetti o assunti teoretici che si presentano alla nostra attenzione o al nostro giudizio.

Potremmo, pertanto, definire il complesso delle convinzioni come la maggior fonte di errori sistematici per ciò che riguarda il processo di apprensione di tutto ciò che è non è conosciuto o, in termini più semplici, un ostacolo all’apprendimento. Questo è un punto piuttosto critico, perché questo complesso è il risultato dell’apprendimento pregresso, sia quello dovuto all’esperienza, sia quello originato dalle forme di apprendimento teoretico (studio, lettura, ecc.). “Imparare significa sovente mettere in discussione ciò che si è imparato precedentemente e, nei casi estremi, l’intera impalcatura delle convinzioni, cioè a dire: il mondo come ci appare (ciò che Funtowicz e Ravetz hanno definito “Tragedia del cambiamento”[21]).

Ma, di questo, parleremo più avanti. Per ora ci limiteremo a procedere per passi nell’ontogenesi della conoscenza del mondo che ci circonda (prossimo o remoto che sia), che è data da un assieme di “strumenti epistemici” attraverso i quali costruiamo una visione delle cose. Questi, come abbiamo visto, possono essere “immediati”, come le percezioni sensoriali, altri sono più mediati, come l’immaginazione, il linguaggio, l’elaborazione mentale.

Possiamo riconoscere al tatto la differenza tra una pesca e una mela perché gli altri quattro sensi hanno esperito le caratteristiche della “peschità” e della “melità”: l’apparenza visiva, il gusto, l’odore. Il singolo senso che percepisce, si porta dietro una complessa elaborazione che, dall’esperienza, ha costruito nella nostra mente un’immagine prototipica delle innumerevoli pesche realmente esistenti, che viene “richiamata” all’atto di percepirne una con un singolo senso.

«La realtà di ciò che percepisco è garantita da un lato dal suo contesto mondano, che comprende altri uomini che percepiscono come me e, dall’altro, dall’azione combinata dei cinque sensi. Ciò che dopo Tommaso d’Aquino chiamiamo senso comune, sensus communis, è una sorta di sesto senso necessario per tenere insieme gli altri cinque e per garantire che quello che vedo, tocco, gusto, odoro e odo è un unico e medesimo oggetto: il senso comune è la «facoltà unica [che] si estende a tutti gli oggetti dei cinque sensi»[22]

Come ha sottolineato Michael Polanyi «tutta la conoscenza umana ha una dimensione pratica che è radicata nella sedimentazione dell’esperienza e della memoria»[23]. Egli descrive questo tipo di conoscenza, come “conoscenza implicita” (tacit knowledge), ovvero «quella conoscenza non codificata, collocata alla perferia del campo di attenzione»[24] che consente alle persone di comprendere i fenomeni e “raccogliere” (leghein, da cui “logos”) un significato coerente per l’osservatore. Accanto a questa “conoscenza implicita”, abbiamo le numerose componenti della conoscenza esplicita che è quella che proviene dallo studio, dai dati della ricerca, ecc. In pratica da tutto ciò che costituisce lo scibile codificato. Per esemplificare quest’ultima potremmo prendere il caso del medico, la cui conoscenza esplicita è data dallo studio di quelle che potremmo definire “discipline di base”, quali la fisica, la chimica, la biochimica o la genetica. E poi da componenti più specifiche dell’ambito medico come l’anatomia, la fisiopatologia, l’epidemiologia, i risultati della letteratura scientifica

Nell’esempio del medico, la conoscenza implicita è fondamentale nell’interazione tra il medico e il paziente.

Scrive Michael Polanyi:”

«L’abilità diagnostica del medico, è tanto un’arte di fare che un’arte di conoscere […] La perizia dell’intenditore, così come l’abilità, può essere trasmessa soltanto mediante l’esempio, non tramite precetti. Per diventare esperto di vini, per acquisire la conoscenza di innumerevoli miscele di tè, o per imparare l’arte della diagnosi, è necessario un lungo periodo di apprendistato pratico sotto la guida di un maestro. Se un medico non è in grado di riconoscere ceri sintomi, è inutile leggere la descrizione delle sindromi alle quali questo sintomo appartiene. Egli deve riconoscere “personalmente”[25] quel sintomo, e può imparare a farlo solo mediante ripetute auscultazioni di casi nei quali, qualcuno più autorevole di lui, ne riconosce la presenza, e tramite il confronto con altri casi nei quali questo sintomo è assente; fino a quando egli non sappia riconoscere adeguatamente la differenza.[…] La grande quantità di tempo impiegata dagli studenti di chimica, biologia e medicina, nel frequentare corsi pratici, mostra quanto queste scienze poggino sulla trasmissione dei saperi e della perizia dal maestro all’allievo. Il che è una dimostrazione piuttosto evidente di quanto l’arte del conoscere rimanga ancora poco precisabile»[26]

La nostra conoscenza del mondo è determinata, pertanto, da queste due modalità “primarie”, delle quali quella implicita è, senza dubbio, predominante

Quest’aspetto che potremmo, con una certa approssimazione, deiinire come “soggettivo” fu ben descritto da uno dei più importanti esponenti delle “scienze dure” del secolo scorso, Niels Bohr:

«Nella nostra descrizione della natura, lo scopo non è quello di disvelare la reale essenza dei fenomeni, ma solo quello di tracciare le relazioni possibili tra gli aspetti multiformi della nostra esperienza»[27]

 

Questa frase ci da lo spunto per accennare, prima di concludere questa parte, ad uno degli aspetti più problematici nell’ambito dell’epistemologia, intesa in senso moderno, ovvero quella dell’attendibilità o della “veridicità” della nostra conoscenza (tema che affronteremo più diffusamente in seguito). Come abbiamo accennato, quest’”attendibilità” si fa assai traballante quando l’approccio nei confronti di ciò che è poco conosciuto o non lo è affatto (fenomeni, oggetti o assunti teoretici) si scontra con convinzioni o credenze molto radicate (ovvero, per usare la metafora quiniana, che sono situate nella zona centrale del “web of belief”). In questo caso è probabile che si abbia a che fare con quelli che vengono definiti “pre-giudizi”, ovvero giudizi dati a priori.

Per fornire un esempio di questo fenomeno, riportiamo un fatterello di vita vissuta che ci riguarda direttamente. Fino all’età di sette anni eravamo convinti che il prosciutto crudo non fosse un cibo di nostro gradimento. Quando qualcuno provava a metterne a offrircene una fetta, la nostra immancabile risposta era: «Il prosciutto crudo non lo mangio perché non mi piace». Poi, qualcuno riuscì a convincerci ad assaggiarlo e cambiammo immediatamente idea. In questo caso, nello scontro tra “fatto” e pregiudizio, il fatto è risultato vincente. L’idea archetipica di prosciutto che era radicata nella nostra mente era assai diversa dal prosciutto realmente-esistente che ci capitò di assaggiare per la prima volta.

Possiamo dire che, nel’esempio riportato, l’ideologia, ovvero la convinzione che il fenomeno corrispondesse al suo archetipo preesistente nella mente, si era rivelata fallace se confrontata con “la testa dura dei fatti” (Lenin). Tuttavia, questo processo si verifica soltanto se si riesce a considerare l’ideologia/pre-giudizio come mera “ipotesi”, da sottoporre al confronto diretto col fenomeno sensibile. Si potrebbe dire che questa è l’essenza del metodo sperimentale, almeno in nuce.

Qualsiasi modalità di conoscenza, può essere pesantemente compromessa dalla diade “ideologia/pregiudizio” (che, in questo caso sono sinonimi) che ha la capacità di trasformare l’“ipotesi” in “ipostasi”, ovvero in affermazione apodittica e, come tale, scarsamente modificabile.

Purtroppo, in genere avviene che, coloro che sono maggiormente affetti da questo tipo di pregiudizi (e nessuno ne è totalmente immune), tendono ad appellarsi ad una personale concezione di “metodo scientifico”, gabellandola come “conferma” dei loro pregiudizi (in genere all’ego dixi che abbiamo citato nella parte precedente, che è costituito da un’accurata selezione personale dei vari ipse dixit presenti sul “mercato” della conoscenza).

[A tal proposito è stato recentemente coniato un vocabolo piuttosto calzante, per descrivere quest’attitudine: “permeismo”, ottenuto dal chiasma del sintagma “per me” (ovvero: “secondo la mia opinione”), che porta ad una vera e propria “dittatura dell’e opinioni” o, per meglio dire dell’”opinionismo”, refrattaria a qualsivoglia confutazione secondo metodo. Vedremo più avanti come questa “dittatura” agisca nella pratica quotidiana]

Inoltre, accade sovente che questi pregiudizi, dato il loro carattere apodittico, assurgano con grande frequenza al ruolo di “imperativo morale”. E, il moralismo, inteso come codice di comportamento basato su presupposti arbitrari ma inconfutabili (e quindi ideologici, perché basati su idee o archetipi soggettivi), è un grosso ostacolo sulla strada della conoscenza (inficiandone la perfettibilità) che, dovrebbe fondarsi non solo, come abbiamo detto, sulla coppia metodologica “ipotesi – dimostrazione sperimentale” ma, ancora prima, sul rispetto delle categorie logiche. Epistème ed ethos sono categorie diverse, non comparabili e , tanto meno, sovrapponibili, ovvero “domini descrittivi non equivalenti”[28]. La logica, assai sovente, è lo strumento più utile per orientarsi nella confusione epistemica dei nostri tempi. Ma di questo, parleremo più avanti.

Per adesso, vista la caligine nella quale è immerso l’argomento che abbiamo deciso di trattare, procederemo nella disamina i dei nostri “strumenti cognitivi primari” e tratteremo di immaginazione, linguaggio e fede. Qualcuno potrà obiettare che questi non siano strumenti epistemici, specialmente il primo e l’ultimo, ma cercheremo di spiegare perché vadano considerati tali.

(Continua)

 

[1] Matsya Purana CLXVII: 13-25

[2] Oppure è viceversa, chissà? Essendo noi, al contempo, l’ossrvatore e l’osservato, non sapremo mai se siamo fatti ad immagine della teofania, o se questa è, in realtà, antropofania

[3] Vedi: Andrè Padoux. Vāc, the concept of the word in selected Hindu Tantras, State University of New York Press, Albany 1990

[4] Vedi: Barbara A. Holdrege, Veda and Torah : Transcending the Textuality of Scripture, State University of New York Press, Albany 1996

[5] Timeo, 47 d-e

[6] Hannah arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna1987

[7] Elemire Zolla, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990

Per completezza, riportiamo anche le parole di Heidegger a questo propostio:: «Perché, in generale, vi è l’essere e non il nulla?». Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, Ugo Mursia Editore, Milano 1990, p. 13

[8] Platone, Teeteto, 155 d

[9] Oppure, ancora una volta, è viceversa: non sapremo mai se è nato prima l’uovo o la gallina.

[10] Così, dall’Oratio de hominis dignitate:

«Perciò Dio accolse l’uomo come opera di natura indefinita e, postolo nel cuore del mondo, così gli parlò: -non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perchétutto secondo il tuo desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi.

La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte.

Tu te la determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto.

Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine.»

[11] Cfr. Erwin Schroedinger, What is Life?, Cambridge University Press, Cambridge 1944

[12] Adrian Snodgrass. Architettura, tempo, eternità, Giorgio Mondadori, Milano 2005, introduzione (a cura di Guglielomo Bilancioni) p. xii

[13] Op.cit., p.71

[14] Cfr.: Henry Stapp , Matter And Quantum Mechanics. Springer-Verlag, Berlin 2009

[15] Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2003, pp. 36,39

[16] Henry Stapp ,Op.cit., p.43

[17] W.V.O Quine, From a logical point of view, Harper & Row, New York 1963

[18] Scott R Sehon, Donald E Stanley, A philosophical analysis of the evidence-based medicine debate, BMC Health Services Research 2003, 3:14

[19] W.V.O Quine, Op cit., p.41

[20] Scott R Sehon, Donald E Stanley, Op.cit.

[21] S.O. Funtowicz, J.R. Ravetz,. Emergent complex systems. Futures, 26, 1994,568–582.

[22] Hannah Arendt, Op. cit., p. 120

[23] Henry S.G, Zaner R.M., Dittus R.S.,Viewpoint: Moving Beyond Evidence-Based Medicine. Academic Medicine, Vol. 82, No. 3, 2007

[24] Ibid.

[25] Virgolette nostre

[26] Michael Polanyi, Personal Knowledge: Towards a Post-Critical Philosophy,: Routledge and Kegan Paul, London, UK 2005, pp.57-58

[27] Niels Bohr, Atomic Theory and the Description of Nature, Cambridge University Press, Cambridge 1934

.

 

[28] Cfr. Mario Giampietro, Multi-scale integrated analysis of agroecosystems. CRC Press, Boca Raton 2004