Il bon ton come categoria politica e il pericolo autoritarismo
di Marco Palombi - 19/01/2020
Fonte: Marco Palombi
Era fatale, ora ci siamo arrivati. Quando uno vuole rimuovere il conflitto dalla società e trasformare la buona educazione in una categoria della politica ci si arriva sempre. Ci riferiamo alla proposta (“allo stato embrionale”, bontà loro) da sottoporre al governo avanzata un paio di giorni fa dal portavoce Mattia Santori a nome delle Sardine per arginare “la manipolazione delle informazioni sui social e la violenza digitale”: “Perché non introduciamo un daspo anche sui social network?”. Eh, perché no? All’ingrosso funzionerebbe così: ogni profilo sui social sarebbe associato a “residenza o codice fiscale” – e tanti saluti alla Dichiarazione dei diritti di Internet elaborata da Stefano Rodotà – perché “un controllo c’è già: se non rispetti le regole Facebook può chiudere il tuo profilo, ma è facilmente aggirabile”, quindi serve “la vigilanza di un organo di polizia che garantisca che c’è un livello di sostenibilità democratica all’interno dei social network”. Ora, a parte che quell’incarico di polizia politica preventiva se l’è già attribuito la cosiddetta “commissione Segre”, ci pare di ricordare che nella storia italiana ci sia già stato un periodo in cui era la polizia e non un giudice ad autorizzare e, se del caso, sequestrare i giornali (non c’erano i social): adesso non ricordiamo esattamente gli anni, ma ci pare di ricordare che a quei tempi piazza Venezia a Roma fosse spesso piena di gente, i treni arrivassero in orario e si dormiva con la porta aperta. A pensarci bene hanno ragione le Sardine: un rischio di deriva autoritaria in Italia c’è, eccome.