Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il collasso di Israele

Il collasso di Israele

di Lucio Caracciolo - 12/10/2025

Il collasso di Israele

Fonte: La Repubblica

La vera battaglia per la vita o la morte di Israele non è tra lo Stato ebraico e Hamas, ma tra sionisti laici, pragmatici, e supersionisti ultrareligiosi, messianici. Anticipata dal leader laburista Shimon Peres nel 1996, quando sconfitto alle urne da Netanyahu commenta con gli intimi: “Gli israeliani hanno perso, gli ebrei hanno vinto”. Tesi confermata sul fronte opposto da Arthur J. Finkelstein, consulente americano di Bibi: “In Israele destra contro sinistra significa ebrei contro israeliani”. E il pacifista Uri Avnery: “Noi abbiamo non solo due blocchi politici, ma due culture, in realtà due nazioni separate”. Erano passati sette anni dalla pittoresca fondazione dello “Stato di Giudea” per iniziativa del rabbino Mehir Kahane, riferimento non solo spirituale della destra estremista, in una sala dello Sheraton Plaza di Gerusalemme. Evento allora trascurato dai media. Invece premonitore.
Lo storico antisionista Ilan Pappé ha appena pubblicato La fine di Israele, diagnosi del collasso del sionismo in tutte le sue varianti e prefigurazione di una Palestina senza Israele, nascita annunciata per il 2040. Pappé profetizza che la parabola dello Stato ebraico si chiuderà per scissione tra Israele e Giudea, tra sionismo delle origini (Theodor Herzl) più o meno seguito dai padri fondatori (David Ben-Gurion) e suo stravolgimento in chiave teocratica. Oggi incarnato da ministri quali Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. E cavalcato da Netanyahu, per fede o calcolo poco importa.
La faglia interna forse fatale per Israele è la scissione fra le maggiori tribù, due delle quali refrattarie al sionismo – arabi e ultraortodossi (haredim), infatti esentati dal servizio militare – mentre sul fronte opposto sionisti della Bibbia, spesso violenti, e laici moderati quasi non si parlano più. Ne soffre lo Stato, nei cui apparati la storica prevalenza dei non- o meno religiosi è sfidata dalle nuove leve kahaniste. Per le quali il grande sogno è la costruzione del Terzo Tempio sulle rovine della moschea di al-Aqsa.
Israele contro Giudea è la crepa decisiva che infragilisce il muro portante della creatura di Ben-Gurion. Tecnica edilizia insegna che le crepe si formano nel corpo murario quando le pressioni esterne originano una rottura che si propaga nella struttura. Metafora qui aggravata dall’origine prevalentemente domestica delle pressioni, tipica di un popolo uso vivere col fucile al piede per timore dei molti nemici. Spesso sopravvalutati per tenere il pubblico in allarme, comunque percepiti in modi differenti dalle fazioni in questione. Nessuno può vivere sempre in stato di guerra latente o effettiva. Anche per questo dal 7 ottobre decine di migliaia di israeliani sono emigrati, talvolta tornando dove i loro ascendenti si erano imbarcati per la terra promessa.
Cuore geografico e motore politico-militare dello Stato di Giudea è la Cisgiordania, biblicamente intesa Giudea e Samaria. I coloni, autorevolmente rappresentati nel governo da Smotrich, vi stanno conquistando con la violenza nuovi avamposti anche grazie all’appoggio delle forze di sicurezza che in teoria dovrebbero controllarli. Obiettivo l’annessione di tutti i territori formalmente affidati alla gestione palestinese. E a tappe forzate. Recente segnale lo sviluppo dell’area di Ma’ale Amunim via E1 per spezzare l’esile spina dorsale della Cisgiordania palestinese. Questa colonizzazione in stile Giudea differisce per l’esclusivismo religioso da quella di Israele, motivata dai laburisti in termini di sicurezza. La prassi di Smotrich riprende in veste religiosa la paradossale teoria dei primi coloni sionisti, parecchi dei quali non volevano nemmeno un proprio Stato: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Gli estremisti l’applicano con l’intransigenza di chi è in missione per Dio e sente approssimarsi lo scopo di una vita.
Ma il problema del Grande Israele non è tanto la terra quanto la popolazione. Nella traduzione dalla propaganda alla pratica, i territori abitati da arabi vanno svuotati per poterli annettere. Via gli autoctoni, dentro i colonizzatori. Con la violenza, anche quando non fosse necessario. Fuorviante l’analogia con l’apartheid alla sudafricana, pertinente quella con i cowboy a caccia di sempre nuove frontiere. Quasi sempre non spopolate, ma spopolabili per la legge del più forte.
Alle fessurazioni interne si sommano le esterne. La reputazione dello Stato ebraico crolla dappertutto. Il dato più allarmante viene dall’America. Per la prima volta nella storia, una maggioranza di elettori statunitensi simpatizza con i palestinesi: 35% contro il 34% di filoisraeliani. Crepe si osservano persino tra gli evangelicali, strenui sostenitori di Israele. Cristiani sionisti, in grande maggioranza bianchi antisemiti flottanti nella galassia trumpista, che si rifanno alle profezie bibliche per cui gli ebrei devono tornare in Israele, dove nell’ora estrema si convertiranno o saranno massacrati: “Il filosemita è un antisemita che ama Gesù”, nell’acida battuta di uno storico tedesco.
La somma delle lacerazioni domestiche e delle pressioni internazionali avvicina l’ipotesi del collasso di Israele. Della sua lacerazione in staterelli tribali, visibile nelle vite parallele che scolari e studenti universitari conducono in ossequio al principio di omogeneità culturale e/o religiosa con la propria tribù.