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Il coronavirus e il senso critico

di Alain de Benoist - 13/03/2020

Il coronavirus e il senso critico

Fonte: Diorama letterario

Di primo acchito, quali considerazioni Le ispira questo coronavirus che ha colpito in primo luogo la Cina, prima di essere scoperto in altri paesi, e soprattutto in Europa?

 Innanzitutto, una sensazione di déjà-vu. Città completamente deserte, viali in cui non circola più nessuna macchina, popolazioni confinate nei loro appartamenti, intere regioni messe in quarantena: tutto questo lo avevamo già visto. Ma era in film catastrofistici o di fantascienza. Qui non è cinema. Si poteva fare una riflessione dello stesso tipo vedendo crollare le torri del World Trade Center. Questa volta siamo nella realtà. Il reale ha acciuffato la finzione. Sensazione curiosa. A colpire è anche il modo in cui risorge immediatamente la logica del capro espiatorio. Nel Medioevo, quando c’era un’epidemia, si accusavano gli ebrei di aver avvelenato i pozzi. Oggi dei cretini se la prendono con i ristoranti giapponesi o con i pullman di turisti cinesi. Permanenza dell’irrazionalità delle folle.

 Per il momento i poteri pubblici rifiutano ogni chiusura delle frontiere. È sostenibile? Non è, in definitiva, una logica oltranzista, per non dare ragione ai difensori della frontiera su altre tematiche come quelle dell’immigrazione (in sostanza: non è che questo dimostrerebbe che chiudere le frontiere è possibile)?

 Sono un po’ scettico su questo concetto di “chiusura delle frontiere” che molti impiegano come una sorta di formula magica. Le frontiere non hanno fermato la nube di Cernobyl, dubito che possano fermare il coronavirus. Non si ferma la propagazione di un virus così come si controlla la circolazione delle persone. D’altronde, cosa si vuol dire esattamente quando si propone di chiudere le frontiere? Che più nessuno potrà entrare o uscire da un paese? Ma è sostenibile? Per quanto tempo? Con quali conseguenze ? Che si rafforzeranno i controlli e si metteranno in quarantena tutti i viaggiatori «a rischio»? Ma se l’epidemia si sviluppa, non ci saranno più viaggiatori di questo genere. Se domani si dichiara un focolaio infettivo a Parigi, cosa si fa? Chiudere una frontiera non la rende a tenuta stagna. Il problema è che, al momento, ignoriamo completamente a che punto siamo con la propagazione dell’epidemia. All’inizio o alla fine? Si tende a sopravvalutarla o, al contrario, a sottovalutarla? Tutto ciò che si sa, è che il covid-19 si propaga molto rapidamente, ma uccide relativamente poco: fra il 3 e il 5% delle persone infette (più nelle persone anziane o già indebolite da altre malattie). In altri termini, è troppo presto per dare un giudizio definitivo.

 La metropolizzazione delle nostre società moderne, e in particolare della Francia, non è propizia a uno sviluppo molto più massiccio di questo tipo di virus e alla sua propagazione più rapida? In definitiva, il corona virus non è un rivelatore, nelle sue conseguenze, del fallimento del mondialismo, come ha di recente sostenuto Lionel Rondouin?

 È sin troppo evidente, ma non bisogna abusare di questo argomento. La peste nera che ha devastato l’Europa medievale nel XIV secolo, comportando la morte del 30-50% degli europei nell’arco di cinque anni, non si è propagata in un contesto di mondializzazione paragonabile a quello che conosciamo oggi. Più vicino a noi, non credo neanche che la chiusura delle frontiere avrebbe impedito il propagarsi dell’epidemia di febbre spagnola del 1918, che ha fatto tra i 50 e i 100 milioni di morti, cioè molti di più della prima guerra mondiale (cosa che tutti sembrano aver dimenticato). Dove in compenso la mondializzazione aggrava le cose è sul piano economico. Il blocco della maggior parte dell’economia cinese avrà, soprattutto se si prolunga, effetti devastanti sull’economia mondiale, e persino sul sistema finanziario, dei quali è ancora impossibile misurare l’ampiezza ma che, si sa bene, andranno ben al di là del settore del turismo! La Cina rappresenta da sola il 20% del Pil mondiale, e tutta una serie di settori produttivi ne dipendono per funzionare normalmente. Cosa che Lionel Rondouin ha perfettamente spiegato nell’intervista a cui Lei allude. L’unico vantaggio, se così si può dire, è che tutta questa vicenda avrà illustrato i rischi della dipendenza. Se ciò potesse spingere certi industriali a tornare a una maggiore autosufficienza e a più rilocalizzazioni, sarebbe già una buona cosa.

 Si leggono un’enorme quantità di “fake news” sul web, o di dicerie che evocano progetti machiavellici per avvelenare la popolazione, test effettuati da certe potenze per vedere la reazione di altre nazioni ad un’epidemia su vasta scala. A cosa si deve credere ea cosa no? Ci sono motivi per porsi delle domande?

 Un virus è un pericolo invisibile, e fra tutti i pericoli, sono quelli che non si vedono a far più paura. Sono anche quelli che più suscitano le fantasticherie che alimentano il panico e costituiscono un terreno ideale per i complottisti d’ogni sorta. Il Web rigurgita già di deliri d’ogni genere e le reti sociali fanno da cassa di risonanza. Purtroppo, gli stessi che denunciano con grande strepito le “bufale” della grande stampa spesso sono pronti ad ingurgitare altre “bufale” non appena vengono messe online su media “non ufficiali”. È normale porsi delle domande, ma conservando un minimo di senso critico. Invece di ripetere asserzioni inverificabili, è meglio tenersi ai fatti stabiliti. Facciamo un esempio. È incontestabile che in Cina esiste un solo laboratorio di alta sicurezza di tipo P4, specializzato nella ricerca sulle fonti virali e su eventuali armi batteriologiche, e che custodisce dunque germi estremamente patogeni. Si dà il fatto che quel laboratorio, creato con l’aiuto della Francia (da ciò la presenza di Bernard Cazeneuve alla sua inaugurazione, il 23 febbraio 2017), diretto dal professor Shi Zhengli, si trovi a Wuhan, ovvero nel luogo esatto dove è esplosa l’epidemia di covid-19. Se si tratta di una coincidenza, diciamo che è sfortunata.

(a cura di Yann Vallerie)

www.breizh-info.com”, 27.2.2020