Il gatto non c’entra niente
di Lorenzo Merlo - 05/06/2025
Fonte: Lorenzo Merlo
Considerazione sul potere assoluto del pensiero logico.
Erwin Schrödinger (Vienna 1887-1961), critico nei confronti della realtà prospettata dalla fisica quantistica, formula il noto esempio detto del gatto nella scatola. Secondo il ricercatore austriaco, la configurazione che propone della fisica quantistica porterebbe alla conclusione che il gatto dovrebbe essere contemporaneamente vivo e morto, salvo nel momento in cui si apre la scatola, in cui, necessariamente, è uno o l’altro.
Con tale osservazione logica il fisico viennese porta a termine il proprio pensiero critico, la cui morale, a suo parere – e a quello di chi lo condivide, tra cui Einstein – è che tutto l’impianto della fisica quantistica nella versione di Copenaghen – il cui punto di insorgenza si trova proprio nella contemporaneità in nuce di due stati, materia e energia, e nell’avvento della realtà in funzione dell’osservatore, ancora oggi chiamata probabilistica – non può essere sostenuto.
La contemporaneità – temine inadeguato – della duplice natura dello stato corpuscolare e ondulatorio si presta anche a riempire di significato l’idea di un universo composto da una sola energia che si declina nelle forme della storia in funzione dell’osservatore, in funzione dell’ottica, delle fede, del credito di chi ne descrive la realtà. In questi termini mente e materia non solo non sono due enti-stati disgiunti e indipendenti, ma una monade, cangiante al nostro servizio.
Mi sono permesso, con “ancora oggi chiamata probabilistica”, un lieve sarcasmo, strumentale per avviare la prospettiva in cui appare chiaro che il gatto non c’entra niente e che il punto nodale riguarda la logica.
Più precisamente, chi segue il discorso di Schrödinger, e ne condivide l’impossibile conclusione – cioè che, affinché la fisica dei quanti possa sostenere se stessa, si deve condividere l’idea che il gatto sia contemporaneamente vivo e morto – trae il proprio pensiero dal grande ma limitato bacino che raccoglie l’oceano della logica e le sue verità, dettate dai tre principi aristotelici: Principio di identità, Principio di non contraddizione, Principio del terzo escluso. Un invaso enorme, ma che non può contenere altro che il pensiero strutturato, una riduzione maldestra, una compressione improba, non certo la realtà nella sua infinitezza. Un invaso ideale per amministrare, demoniaco per conoscere.
Ne è un esempio l’accredito che diamo alla probabilità, mero computo dei dati raccolti, che l’uomo utilizza pazzamente per comporre il disegno della realtà. Ma esso, invece – l’accredito alla probabilità – è una cortina di ferro nei confronti dell’evento (Heidegger, 2007/1989) dell’avvento della realtà. Impedisce di riconoscere che non è mai – come crede il meccanicista – probabilistico. È invece sempre serendipico, creativo, quantistico. Ovvero, come un magnete che orienta la limatura di ferro, la realtà avviene secondo chi la pensa.
Le probabilità riguardano il mondo oggettivo – prodotto della creazione di una concezione materialista della vita – meccanicistico, non quello energetico, quantistico, sottile, metafisico o spirituale.
Per Schrödinger e congrega scettica, dare credito a Werner Heisenberg, Niels Bohr, e compagnia di Copenahagen, significava sottoscrivere la demolizione delle certezze della fisica classica, quelle su cui era appoggiato il mondo, e l’intero impianto cognitivo a mezzo del quale l’Occidente procedeva a velocità di crociera sulla via della verità ultima. Un’eventualità ributtante, che non potevano accogliere, perché sarebbe stato togliersi la terra sotto i piedi, smarrire se stessi. In termini ancora scientifici, nientemeno di un vero suicidio cognitivo.
Come non essere con il fisico del gatto? La logica conclama l’inverosimilità di quanto affermato dalla fisica quantistica. Che altro pretendere oltre all’indimostrabilità razionalistica? Cosa volere di più, per riconoscere il vero dal falso, del verdetto supremo dettato dal dio della verità, ovvero dal Metodo scientifico, che, con i suoi principi di dimostrazione e di ripetibilità, è indiscutibilmente insuperabile nel suo criterio di discernimento del vero?
Come non stare dalla parte assennata, quella del banale buon senso? Come, quindi, non irritarsi davanti a tanta stupida magia? Domande retoriche la cui risposta ci sarebbe, ma non per l’inconsapevole scientista, il quale non è in grado di avvedersi della filosofia che scaturisce dalla teoria quantistica. Neppure leggendo Fisica e filosofia (Heisenberg, 1963/1958), tanto la loro supponenza soverchia la loro stessa sensibilità.
Ma il grande bacino che contiene l’oceano della logica, nonostante le apparenze e pretese di linearità impeccabile e purezza, che l’acido scientista vuole cristallina, presenta opportunistiche affabulazioni e tappeti sotto i quali nascondere la sua stessa polluzione. I pesci che lo abitano, ovvero tutti noi, ne sono assuefatti, e per questo non se ne avvedono. Andiamo così, determinati come salmoni al tempo della riproduzione, a concentrarci nei punti trigger da cui riteniamo sgorghi la scienza.
Poi, torniamo a casa a propagare le verità apprese: i virus provocano le malattie, l’omeopatia non è stata scientificamente dimostrata, quindi è fandonia, emozioni e sentimenti non hanno a che vedere con le malattie e con la guarigione. Il terreno – Paracelso – non è studiato dagli scienziati, e come potrebbero visto che non ne hanno consapevolezza, e Paracelso non lo trattano neppure, ne possono tranquillamente fare a meno. Ci facciamo vaccinare come devoti in coda alla confessione, convinti di eludere il rischio di ammalarsi come di finire all’inferno. L’elenco andrebbe avanti. Meglio tornare al gatto.
Tentando di prendere in esame la monade della logica nella sua interezza, la sua natura e l’esigenza umana che la richiede, abbracciando cioè l’intero bacino che la contiene, si può venire a capo del problema posto da Schrödinger, che tanto soddisfa le menti ancorata alla meccanica classica, quanto concorre a far passare la fisica quantistica come qualcosa di incomprensibile, quindi insostenibile.
Possiamo, cioè, riconoscere che la contraddizione tutta duale, logico-cartesiana che culmina nell’impossibilità che il gatto possa essere vivo e morto contemporaneamente, con la quale vorrebbe stroncare la verità della fisica quantistica, non è che una specie di ologramma, che appare solo ai pesci residenti nell’oceano della logica.
Come detto, ne siamo talmente assuefatti da non poter pensare diversamente da quanto la dipendenza ci impone. Come rinchiusi entro un cerchio di polvere di gesso, vissuto come limite del pensabile. Una scimmia sulla schiena che restringe il nostro immaginario ad una sola sostanza inibitrice della possibilità di uno sguardo critico, di una presa di coscienza del grande bacino della logica che ci contiene e contiene la verità.
Non che non ci siano ragioni di tale stato delle cose. Tra le molte, a mio parere, due di queste sono da tenere presenti prima delle altre. La prima è che, in un mondo concepito come separato da noi, composto da oggetti a loro volta separabili dalla complessità della realtà, cioè in un mondo considerato un ammasso di oggetti, peraltro ordinabili, la logica vince a mani basse la partita di come fare, come muoversi, come procedere. Tutto ciò fa capo al cosiddetto mondo duale, il cui referente filosofico sta nel meccanicismo, nel principio di causa-effetto. Il suo potere predittivo ha tenuto a bocca aperta di soddisfazione gran parte del mondo, a partire da Newton e culminando in Descartes. Il primo ha dimostrato il comportamento dei pianeti, il secondo ha separato la materia dal pensiero.
La seconda prescinde dai massimi pensatori e riguarda la dimensione amministrativa e replicativa della vita. Non rispettare il criterio di avanzamento in questa specifica dimensione esistenziale è una specie di suicidio, o di inammissibile mancanza. Senza rispettare i principi della logica, non si può più entrare in nessuna dinamica codificata, fosse anche un gioco come il calcio, gli scacchi e la scala quaranta.
Oltre a ciò, va fatto un accenno al linguaggio. Tanto più questo è prosaico, tanto più è idoneo a gestire la dimensione amministrativa della vita. Dimensione che, purtroppo a sua volta, non è vista e distinta da quella creativa. Una svista grave, che induce la moltitudine dei non vedenti a riversare il criterio amministrativo anche in contesto libero. Grave in quanto implica la concezione di un uomo meccanicizzato e uniformato, senza un universo suo, e punibile se portatore di una cosmogonia estranea alla moltitudine.
Il linguaggio lirico è, invece, un trofeo insignito alla dimensione alogica dell’uomo. Non a caso, tollerato in quanto fonte di svago e, comunque, lasciato ai margini della cultura positivista.
Ma la logica non è la vita, è solo un espediente per muoversi al suo interno, anche molto utile, come detto, se applicata in campi chiusi. Ma che diviene una specie di elefante in cristalleria quando se ne estende – inconsapevolmente, ma scientisticamente – l’applicazione ai campi aperti, tendenzialmente quelli umanistici, relazionali, esistenziali. Quelli che si rifiutano di tenere alla larga emozioni e sentimenti dal processo della cosiddetta conoscenza.
L’egemonia della logica, pur con la standing ovation della pletora filo illuminista, dunque a sua insaputa, è assurda, in quanto tenta, anzi crede e pretende di contenere il mondo, cioè l’infinito.
È qui che torna il gatto, la contemporaneità del suo stato vivo e morto, e la presunta fallacia delle verità quantistiche. È qui che il bacino mostra il suo confine, oltre il quale, però, l’infinito della vita e della realtà, sebbene mortificato, prosegue indisturbato.
Ed è sempre qui che la concezione del mondo e delle sue verità può prendere una piega assai più soddisfacente di quanto lo sia stata finora con la logica e il suo meccanicismo.
Il discorso logico separa il mondo da noi, lo pone come oggetto e lo studia con le probabilità, non si avvede che, in quel modo, non coglie che l’atto creativo che genera la realtà che è in noi riferisce di un’imprescindibile unità.
La realtà data, come un paesaggio che possiamo ammirare o frequentare, non è la realtà. Essa è semplicemente la realtà che appare al nostro cospetto. Essa diviene bella o brutta in funzione della nostra proiezione, esattamente come il gatto, il cui stato è totalmente in funzione di chi apre la scatola.
Come a tennis, solo nel momento in cui il giocatore avversario colpisce la pallina si realizza la direzione che prende, ed è in funzione dell’altro giocatore che questa sarà più o meno facile da ribattere. Logicamente parlando, sembra che la pallina, prima di essere colpita, possa creare o non creare problemi al destinatario, mentre, invece, è alogicamente o magicamente l’esatto contrario, nella misura in cui la natura del colpo è relativa ai sentimenti, alle emozioni, allo stato di chi la sta ricevendo.
La realtà nella relazione, che riqualifica il potere creativo di emozioni e sentimenti, che riduce l’assolutismo positivista a mezzo del quale si pensava, un passo alla volta, di arrivare alla verità definitiva, non solo in contesti chiusi, ma mutuando il sistema a quelli aperti, non è il solo elemento che dovrebbe costringere i padroni del pensiero logico ad abbassare le orecchie.
L’entanglement, ovvero la sincronica risposta a uno stimolo riscontrabile tra due particelle prima unite e poi separate, anche a siderale distanza, comporta considerare che gli elementi del mondo non siano separati ma contigui, che il tutto si tiene degli alchimisti non era una ciarlatanata come dice la bocca scientifica e scientista.
E se non c’è il vuoto meccanicista che li separa, ma un elemento che li unisce, questo è il pensiero, che nel sentimento esplicita più che mai la sua natura connettiva. È in questi termini che la realtà, così come l’universo, è più simile a un pensiero che a un computo di oggetti.
Su questa scia, si può considerare che l’infinitamente piccolo, una verità relativa alla monomania misurativa logico-meccanicista che relega a quella dimensionizzazione la verità, il campo d’azione, della fisica quantistica, riguarda anche il macroscopico. Infatti, liberi da quella mania di discrezione, i suoi principi ben si addicono a descrivere le sottili, immateriali, dinamiche relazionali umane. Così, l’entanglement ha a che fare con l’emozione, in quanto in entrambe il tempo e lo spazio intesi secondo l’accezione della fisica classica vengono meno. Rivivere un’emozione è ritornare al tempo a allo spazio in cui è accaduta la prima volta. Oppure, alludendo alla reversibilità del tempo, prima logicamente costretto a muovere in una sola direzione. Mentre viceversa si possono trovare dei legami con le premonizioni o le preveggenze. Anche nei sentimenti, nei legami, possiamo constatare la sparizione dei concetti ordinari di spazio e di tempo. In essi la forza della sottile catena del legame non varia con la distanza tra le parti né con lo scorrere del tempo, quando il bisogno resta tale.
È anche per questo che si può concludere che dall’infinito ognuno di noi, istante per istante, coglie gli elementi che lo fanno sopravvivere, disponendoli in costellazioni che non può pensare siano valide per tutti, come vorrebbe fare, invece, il pensiero logico.
Bibliografia
Heidegger, M. (2007). Contributi alla filosofia (dall’evento). Adelphi. (Prima edizione 1989)
Heinsenberg W. (1963). Fisica e Filosofia). Il saggiatore. (Prima edizione 1958)