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Il liberismo liberticida

di Fabrizio Pezzani - 19/09/2023

Il liberismo liberticida

Fonte: Fabrizio Pezzani

L’attuale pensiero unico liberista o neoliberista dichiara di trovare le sue prime radici e legittimazione negli scritti di Adam Smith, in particolare nel suo lavoro “La ricchezza delle nazioni “scritto nel 1767 e sul senso del libero arbitrio regolato dalla mano invisibile del mercato. Ma il vero pensiero di Smith è totalmente asimmetrico a quest’interpretazione. Il liberismo in questa accezione diventa fine, non mezzo come Smith lo pensava e contribuisce alla formazione di un modello di analisi economica votata in modo esclusivo ad un tecnicismo esasperato e ad una finanza egemone che ha tagliato i ponti con le radici morali e sociali di questa scienza.
Per capire il vero pensiero di Smith è necessario collocarlo nella storia del suo tempo e nella visione integrale dei suoi lavori a partire da” La teoria dei sentimenti morali “scritto nel 1759 prima de “La ricchezza delle nazioni “la cui lettura è fondamentale per capirne il pensiero. Il Settecento, in cui vive Adam Smith, fu un secolo rivoluzionario dal punto di vista culturale e viene preparato dal secolo precedente in cui il processo a Galileo e la rivoluzione di Newton determinano l’indipendenza della scienza a fronte di quell’unità di vita e di pensiero che era stata determinata dalla religione. Il Settecento è il secolo dell’illuminismo – il tempo dei lumi - in cui il pensiero speculativo affermerà la libertà dell’uomo nella sua autorealizzazione, il ruolo della ragione ed il principio di razionalità non assoluto ma sottomesso ad un ordine morale superiore. Kant scriverà la critica della ragion pura e preparerà la strada all’idealismo tedesco ed al materialismo storico. Le rivoluzioni americane e francese chiuderanno il secolo con le dichiarazioni dei diritti universali dell’uomo – la libertà, l’uguaglianza e la fraternità come fini assoluti ben lontani dall’esclusivo ed egoistico interesse personale. Smith, illuminista scozzese, condivide con David Hume il ruolo del “principio di simpatia “come regolatore delle relazioni umane e capacità di immedesimarsi nell’altro. Si afferma il libero arbitrio ma le scelte individuali pur perseguendo l’interesse personale devono sottostare all’interesse collettivo. Infatti, scrive, il panettiere vende il pane per seguire l’interesse personale ma deve immedesimarsi nei bisogni di chi lo compra, una forma di “competizione collaborativa “potremmo dire oggi.  Era ben chiaro per lui come per i suoi contemporanei che i limiti morali erano insuperabili e che l’equilibrio sociale dovesse essere realizzato intermediando l’egoismo e l’altruismo che definiscono la coscienza morale; temi che aveva affrontato all’inizio del suo percorso da studioso nell’ambito della filosofia morale che insegnava.
Progressivamente nel secolo successivo – l’Ottocento - la cultura razionale e delle scienze esatte ha preso il sopravvento e per dirla con Pascal “l’esprit de geometrie “ha prevalso su “l’esprit de finesse “e le ragioni del cuore sono sempre state meno ascoltate dalla ragione. Così il principio di simpatia collettivo sarà sostituito dal principio di utilità personale.
La verità, allora, diventa solo ciò che si vede, si tocca e si misura e le scienze positive che interpretano la verità diventano esse stesse verità incontrovertibile e da sapere strumentale assumono lo statuto di un sapere morale e finalistico. Si afferma il “miraggio della razionalità “, un’illusione della scienza più pericolosa dell’ignoranza.
Anche l’economia subisce quella mutazione genetica e da scienza sociale e morale acquisisce la natura di scienza positiva ed esatta e detta le regole della vita: non si guadagna per vivere ma si vive per guadagnare e scambiamo i fini con i mezzi come Aristotele aveva indicato con il termine di crematistica; una ricchezza che affama diceva ricordando il mito di re Mida. Quando il fine diventa la massimizzazione dell’interesse individuale, il liberismo assunto come fine, esattamente l’opposto di Smith, afferma la legge del più forte ed anche la normalizzazione di comportamenti illeciti che contribuiscono a definire una società perennemente conflittuale ed individualista. I danni collaterali alla realizzazione del fine diventano la disuguaglianza, la disoccupazione, la povertà, il degrado morale. Nelle società umane, però, diventa difficile capire i limiti – i punti di non ritorno - oltre i quali i danni collaterali diventano primari e prima o poi si affermano le calamità fatali della guerra e della classe.
Siamo, oggi, di fronte ad un liberismo che assunto come fine uccide la libertà - un ossimoro – e diventa “liberticidio”.  Siamo ancora di fronte ad un assolutismo culturale che sembrava uscito sconfitto dalle esperienze dolorose del secolo scorso ma che ci appare ora in modo ingannevole.
L’economia deve riconciliarsi con la sua natura di scienza morale e sociale, “serve un nuovo paradigma perché in palio c’è ben più della credibilità della professione o dei policy maker che ne usano le idee ma la stabilità e la prosperità delle nostre economie “(Stiglitz, Il Sole24Ore, 2010) e delle nostre società.