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Il vuoto americano

di Ernesto Galli della Loggia - 16/09/2025

Il vuoto americano

Fonte: Corriere della Sera

 L’assassinio di Charlie Kirk, l’odio feroce che esso testimonia e il truce scambio di accuse tra trumpiani e antitrumpiani che ne è seguito ripropongono la domanda che da tempo gli europei e non solo si pongono: che cosa è accaduto negli Stati Uniti che ha sconvolto nel modo brutale che è sotto i nostri occhi la loro vita pubblica, il loro ruolo politico, e la loro immagine? Che cosa è successo di così devastante da rendere irriconoscibile quell’America che in tanti abbiamo amato e ammirato?
In realtà è la stessa grande storia di quel Paese che in qualche modo si ritorce contro se stessa. La storia degli Usa è una storia assai diversa da quella dei Paesi europei. A differenza di questi — costituitisi per effetto di una lunga e tormentata vicenda che nei secoli ne ha plasmato l’identità — gli Stati Uniti, invece, sono nati come Stato e come nazione in conseguenza di un’audace operazione rivoluzionaria di natura tutta ideologica. Essi sono nati, potremmo dire, come uno «Stato ideologico» (o se si preferisce uno Stato intimamente legato a un mito politico). L’ideologia era quella racchiusa nella dichiarazione d’Indipendenza e nella Costituzione del 1787 (tuttora in vigore: un caso unico al mondo), costruita intorno a due caposaldi.
Da un lato, un’idea radicale di libertà dell’individuo-cittadino, un’idea della libertà in quanto strumento anche del successo e della felicità personali, e dall’altro una profonda ispirazione religiosa fondata sul retaggio biblico-protestante che affidava alla nuova comunità una missione profetico-salvifica di portata mondiale («A Nation under God», una nazione sotto Dio, come un tempo si proclamava nel giuramento ufficiale di fedeltà agli Stati Uniti). Fino a ieri essere americani ha significato credere in Dio e nella libertà: sostenere i principi fondamentali dell’etica giudaico-cristiana (non importa secondo quale confessione religiosa, magari anche essendo atei…) e insieme i principi del governo rappresentativo e della «rule of law».

Proprio questa fortissima, compatta e onnipresente natura ideologica ha reso possibile la straordinaria capacità degli Usa di crescere assorbendo senza strappi ondate enormi di immigrazione. Non importava dove si fosse nati, quali memorie o quale lingua ci si portasse dietro. Per diventare ed essere americani bastava riconoscersi nella sua ideologia costitutiva, nei suoi principi e nella sua missione. Una bandiera a stelle e strisce piantata davanti casa attestava la fede del nuovo venuto nel destino americano. Una fede condivisa praticamente dalla generalità dei cittadini: ci si poteva dividere tra sostenitori di una sua versione più conservatrice o più progressista, ma l’identità ideologica — e dunque alla fine anche culturale dell’insieme — restava intatta e saldamente comune.
E quando è suonata l’ora fatale — è bene non dimenticarlo — quell’idea e quella saldezza hanno salvato il mondo. Senza gli Stati Uniti, oggi a Pechino siederebbe un proconsole nipponico, le terre da Vladivostok agli Urali costituirebbero una grande riserva di manodopera schiavistica per l’Impero hitleriano esteso dal Dniepr all’Atlantico, e l’islamo-fascismo dominerebbe la Mezzaluna Fertile.
Ma dopo due secoli, a cominciare dalla seconda metà del ‘900, la fede condivisa nell’idea americana di cui dicevo ha cominciato a sgretolarsi. La guerra scatenata dalle minoranze in cerca di riconoscimento (neri, donne, omosessuali, gender) contro il passato nazionale — dipinto da Cristoforo Colombo in poi come un ammasso di nequizie, di razzismo, sessismo ed oppressione — è stata fatta propria, divulgata e amplificata dai settori cruciali dell’intellettualità, dell’istruzione, dei media e dello spettacolo (spesso per pura pavidità conformistica). Tutto ciò che sapeva del passato suddetto è divenuto quasi segno di colpa e di vergogna, senza che si levasse con forza alcuna voce potente e autorevole a porre un freno. Perfino la statua di Lincoln ha fatto le spese di una tale furia iconoclasta: di cui è immaginabile l’effetto devastante sulla parte più conservatrice del Paese ma insieme anche sui più larghi strati dei «semplici» e degli incolti (cioè della maggioranza degli elettori) educati al più tradizionale patriottismo. Una parte di americani si è trovata ad abitare in un Paese irriconoscibile che non era più quello in cui erano nati.
Non basta. Sempre a cominciare dalla seconda metà del ‘900 le grandi trasformazioni culturali della modernità, insieme all’incalzare travolgente delle novità sia tecnologiche che della struttura capitalistica, hanno provveduto a svuotare e distruggere gli antichi valori del legame comunitario, dell’individualismo benevolo e intraprendente, del «self help», fin dall’inizio cuore e sangue della società americana. Al tempo stesso la secolarizzazione minava inesorabilmente quella presenza del «sacro», del suo pathos unificante, che da sempre aveva costituito una gigantesca risorsa simbolica sulla quale il Paese aveva costruito la sua identità e il suo destino. Pezzo per pezzo, insomma, l’idea americana è andata perdendo la propria essenza vivente. L’idea americana è diventata un involucro vuoto.
Ma una volta priva di quell’idea l’Unione — la quale è nata proprio muovendo da essa e facendone la sua ragione d’essere — l’Unione che è nata per l’appunto come «Stato ideologico» e tutto politico, fatica a reggersi in piedi. E infatti sotto i nostri occhi lo Stato e le sue istituzioni minacciano di dissolversi nel caos feroce dei partiti, delle fazioni e delle culture contrapposte che non riescono a riconoscersi più in nulla capace di tenerli realmente insieme. Se è consentito un paragone ardito e da prendere con beneficio d’inventario viene da pensare che così come la progressiva inagibilità storica del comunismo ha voluto dire la fine dello Stato sovietico, cresciuto con esso e grazie ad esso, altrettanto, pur con le ovvie differenze, possa accadere in futuro a quello americano. Ma se così fosse, allora l’augurio migliore che per quel giorno noi, spettatori lontani ma in realtà vicinissimi, potremmo farci sarebbe io credo uno solo: quello di non esserci.