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In morte di Alasdair MacIntyre

di Roberto Pecchioli - 01/06/2025

In morte di Alasdair MacIntyre

Fonte: EreticaMente

Se pensiamo alla frase che più ha inciso sulla nostra personale formazione, citiamo José Ortega y Gasset e il suo formidabile: “io sono io e la mia circostanza”, la presa d’atto che ogni individualità è improntata dal luogo, dal tempo, dall’ambiente, dalla cultura in cui si è formata. Se dovessimo indicare il testo contemporaneo da cui siamo stati maggiormente influenzati in una vita bulimica di letture, varie, irregolari, contraddittorie, tra narrativa, poesia, storia, arte, sociologia e filosofia, non avremmo dubbi: è Dopo la virtù di Alasdair MacIntyre, scozzese trapiantato negli Usa, marxista in gioventù, poi filosofo aristotelico-tomista approdato in maturità alla fede cattolica. Da pochi giorni il vecchio Alasdair – era del 1929 – è morto, raggiungendo l’approdo riassunto nella frase posta in esergo alla sua opera capitale: Gus am bris an la, un’‘espressione che si trova su molte tombe celtiche: “in attesa che sorga il sole e si diradino le ombre della notte”. In lingua gaelica, a sottolineare le origini e il tenace radicamento del pensatore nato a Glasgow.
MacIntyre ha riportato al centro del dibattito la filosofia morale, ha ridato forza al dibattito sui fini, sulla vita “buona”, sui principi primi – e quindi ultimi – alla base dell’avventura della vita , sul concetto di virtù, abbandonato dall’occidente in disfacimento a favore dei diritti, del relativismo, del nichilismo, esito inevitabile della morte di Dio. Il filosofo scozzese è stato frettolosamente catalogato ( la smania postmoderna della tassonomia, l’ attribuzione di etichette) tra i pensatori “comunitaristi”, un modo sbrigativo e limitativo di giudicarne l’opera. Lui, filosofo morale, respinse sempre l’accostamento alla scuola comunitarista – più politico-sociologica che metafisica – apparsa negli anni Ottanta negli Usa. Non che MacIntyre non sia anche un comunitarista – ossia un critico dell’individualismo liberale e dell’omologazione culturale che respinge le identità e le radici- ma è stato molto di più: un filosofo che ha riportato al centro la metafisica, l’idea di bene comune, l’indagine sui fini dell’esistenza (il telos) e i modi per conseguirli.
Ricordiamo con gratitudine questo gigante del pensiero contemporaneo la cui colpa fu di non aderire all’ortodossia marxista, liberale, progressista, alla ricerca della filosofia perenne. Siamo convinti che l’abbandono della grande lezione di Tommaso ( e di Aristotele, suo padre e maestro) sia alla base delle sconfitte culturali della tradizione nella contemporaneità . Dopo la virtù non è un testo accademico, un libro per filosofi che parlano tra loro in una fiera dell’ oscurità linguistica che nasconde la povertà dei contenuti. La filosofia morale e politica, recuperando la tradizione delle virtù messa all’angolo dall’esaltazione dei diritti, per merito di MacIntyre rimette al centro l’uomo concreto e la sua esistenza, oltre le astrazioni. Costituisce una pista, un segnavia per un progetto alternativo alla modernità razionalistico- empirista di derivazione illuminista e al nichilismo libertario della postmodernità ansimante. MacIntyre lavora “a nuove forme di comunità entro cui la vita morale possa essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale abbiano la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità”.
Una posizione tanto netta, l’opposizione al liberalismo trionfante e la critica ai professorini della filosofia parolaia, lo hanno condotto all’isolamento culturale, nell’ambiente delle università intossicate dal woke, dai cascami francofortesi e dal nichilismo dei “decostruttori” che in Usa chiamano “teoria francese”. Un contributo specifico di MacIntyre è il disvelamento dell’emotivismo contemporaneo, la tendenza a vivere di sensazioni immediate che non diventano sentimenti condivisi, la convinzione che il giudizio morale sia solo una scelta personale, una preferenza individuale che non perviene mai a giudizi di valore generali. Un elemento del relativismo che tutto omologa e tutto piega alla sovranità soggettiva. Senza un giudizio complessivo, tuttavia, senza ancoraggi a principi condivisi e forti, senza distinguere tra bene e male, giusto e sbagliato, virtù e vizio, non esiste comunità né società.
Convinzioni raggiunte con la frequentazione quotidiana dei testi e delle idee di Tommaso e Aristotele, ma anche di Edith Stein, potente mente filosofica dal tragico destino. Una armatura ideale che consente a MacIntyre di respingere tanto l’individualismo liberale che l’economicismo e il determinismo marxista. Entrambi mancano di un principio di valutazione razionale, “alto”, rendendo impossibile costruire un progetto esistenziale comunitario. Non esiste una morale astratta e universale, ma costumi specifici e pratiche iscritte in un preciso orizzonte culturale . Per parafrasare Ortega, “noi e la nostra circostanza”. I costumi, le specificità, i valori di una comunità non nascono dal nulla; sorgono, si costruiscono e vivono per rispondere alle sfide e alle domande di senso dell’umanità concreta.
Tutte le morali del passato , a differenza dell’inconsistente emotivismo, possiedono una concezione condivisa della virtù, ossia del bene e della vita buona, morale. L’ io emotivista, secondo MacIntyre , “manca di qualsiasi criterio di valutazione razionale”. Ciò rende impossibile fondare una comunità, un sistema condiviso, un metro di giudizio che risolva le angosce degli uomini, “animali razionali dipendenti” (il titolo di una sua opera) alla ricerca di un’” etica nei conflitti della modernità “, l’ultima sua fatica. Un passaggio del testo estremo di MacIntyre è illuminante: “ noi tendiamo a sbagliare (…) perché troppo inclini a essere sedotti dal piacere, dall’ambizione e dall’amore del denaro. La vita buona può essere descritta come capacità di fare buone scelte fra i beni e le virtù richieste sia per superare e andare oltre le avversità, sia per dare il dovuto spazio (e non più di questo) al piacere, all’esercizio del potere e al guadagno di denaro. “ Parole indigeste tanto all’uomo contemporaneo in competizione sul mercato , gladiatore del nulla, quanto all’uomo-massa che si attiene alle parole d’ordine del potere, nella quali la virtù non è che il conformismo del consumo e delle dipendenze, sganciato da ogni giudizio morale, da ogni domanda etica.
Il tema di Dopo la virtù è come condurre una vita “buona”, a quali principi attenersi, che cosa può essere chiamato virtù nel tempo che ha detronizzato la virtù. MacIntyre è anche comunitarista, il movimento filosofico-politico che rimprovera al liberalismo di aver creato una società individualista, composta da individui atomizzati e sradicati, privi di legami e tradizioni sociali; una società condannata all’amoralità, poiché la moralità è un insieme di criteri socio-culturali non individuali sulla vita buona . MacIntyre, a differenza dei liberali e dei progressisti, è molto critico nei confronti della modernità. La sua visione si basa sui contributi dell’aristotelismo e del tomismo e incorpora alcuni punti della critica marxiana dell’individualismo e del liberalismo. Avverte che, per quanto il marxismo possa aiutare a identificare alcune carenze della modernità, la sua critica non è adeguata, poiché figlia del medesimo contesto, basata sui medesimi presupposti.
Per MacIntyre Aristotele e Tommaso d’Aquino rappresentano l’ alternativa più adeguata per la critica dell’ordine sociale e culturale della modernità. La tradizione aristotelico-tomista implica una concezione della natura umana che richiede precetti inerenti all’etica razionale, cioè alle virtù; è una visione della natura umana che implica un telos, un fine, la vita buona. Il filosofo scozzese conclude che gli illuministi fallirono nel tentativo di fondare una moralità razionale per assenza di fondamenti spirituali e di una concezione finalistica dell’esistenza umana. Nietzsche segnò il culmine del progetto della Modernità: la moralità non era più questione di ragione, ma di volontà. La cultura morale della modernità è una sequenza di disaccordi, di scontri di volontà, il cui esito è l’ emotivismo. I giudizi morali non sono che l’espressione di sentimenti personali e soggettivi che rifiutano ogni pretesa di oggettività, il cui fondamento è un “sé democratizzato” privo di identità sociale.
L’ etica moderna – se esiste – è laica, irreligiosa, universale, indipendente dai contesti sociali e culturali: astratta. La società moderna si basa su due aspetti apparentemente contraddittori, in realtà complementari: la burocrazia e l’individualismo. Entrambe garantiscono che il soggetto si comporti secondo parametri “emotivistici”. I personaggi caratteristici della Modernità sono il ricco esteta, il cui obiettivo è il trionfo dei suoi interessi materiali; il manager focalizzato sull’efficienza; il terapeuta che deve trasformare i sintomi nevrotici in energia eterodiretta; il moralista conservatore, un cauto liberale che nasconde i propri interessi dietro una retorica ampollosa. A tutto questo si aggiungono, nel quadro morale moderno, i “diritti umani” privi di fondamento, prodotti dell’assenza di un modello razionale tra le diverse modalità dell’etica moderna.
Sulla base di questa diagnosi, MacIntyre è molto critico nei confronti della realtà sociale e politica occidentale. La democrazia liberale è il regno delle forze economiche, un sistema nel quale il potere è distribuito in modo terribilmente ineguale. Sebbene si affermi un principio di uguaglianza (un individuo, un voto) le alternative non sono determinate dalla maggioranza. L’ influenza dei gruppi di pressione, degli esperti, dei media e del denaro è decisiva. In alternativa, MacIntyre propone la tradizione neo-aristotelico-tomista, basata su tre premesse fondamentali: bene comune, ragionamento pratico e felicità. Il bene comune esclude la competizione estrema per il successo personale. Implica un’etica comunitaria in cui la morale è parte della politica: l’uomo è anzitutto un “animale politico”, (Aristotele) non un individuo. In questo senso, il “ragionamento pratico” presuppone che non sia il giudizio soggettivo ad avere l’ultima parola, bensì l’educazione alle virtù che correggono le tendenze negative della natura umana.
La felicità non è legata agli interessi individuali quanto a uno stile di vita in cui le capacità fisiche, morali, estetiche e intellettuali della persona si sviluppano in modo da raggiungere il suo fine, la vita buona, virtuosa. In questa concezione filosofico-politica, l’etica è radicata nei distinti contesti sociali e culturali. Per MacIntyre, il patriottismo è una virtù perché gli uomini hanno bisogno di appartenere a comunità storiche, tanto nella formazione delle identità personali e culturali che nello sviluppo morale. A sinistra, l’approccio di MacIntyre appare reazionario. A destra, è in gran parte sconosciuto, poiché dominano l’individualismo liberale e l’affarismo amorale. La sua opera resta essenziale per costruire un’alternativa morale – prima ancora che sociale, economica o politica – alle contraddizioni di una società atomizzata, senza centro e spina dorsale.
Di un autore si cita spesso una frase simbolo, il compendio di un’intera opera. Per Alasdair MacIntyre, resta insuperato il capoverso finale di Dopo la virtù. “Se la tradizione della virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando, non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso“.