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Innaturalità dell'economia di mercato

di Luca Mancini - 17/04/2017

Fonte: Appelloalpopolo

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Il mercato esige, sposta, afferma, disloca, teme, fugge, apre, chiude, scommette, esercita, occupa, parte, arriva, crea, distrugge. Il mercato: l’essere deificato dalla contemporaneità, del quale si temono i presunti castighi e al quale si chiedono improbabili favori. Come già scritto in un precedente articolo, la nostra forma di convivenza è basata sul culto di qualcosa di trascendente: il libero mercato. Questo viene perseguito come una sorta di credenza religiosa da alcuni, che formano i governi in totale conformità con essa: una sorta di governo teocratico. In pratica, il mercato è stato deificato ed è divenuto il nostro sovrano. Questa sovranità gli giunge da un presunto diritto divino, che deriva dal falso mito della sua capacità di autoregolarsi. Un’idea trascendente regola così l’economia e conseguentemente la vita di miliardi di persone su questo pianeta, accomunate da una cieca fiducia nei confronti del loro sovrano o chine dinanzi ad esso per paura dei suoi improbabili castighi, dando vita a quella che tutti comunemente chiamano “economia di mercato”.

 

Eppure, se si guarda all’etimologia della parola “economia”, ci si accorge che qualcosa è andato storto nella sua evoluzione, poiché a qualcosa di prettamente umano e immanente è stato affiancato un concetto di mercato deificato e trascendente. Come sempre accade, la filologia aiuta a comprendere meglio i reali significati delle parole e perciò è necessario sapere che il termine “economia” proviene dal greco ed è una parola composta da: “oikos” e “nomos”, ossia rispettivamente “casa” e “legge”, il che ci porta a comprendere che per gli antichi greci l’economia era qualcosa che aveva a che fare con le leggi o le regole della casa. Associarla al concetto di casa la riporta immediatamente ad una sfera fortemente intima, umana e soprattutto immanente, quindi nettamente in contrasto con la visione odierna del mercato che ne costituisce il carattere predominante. Ma, soprattutto, l’aspetto più interessante è che le leggi all’interno di una casa le fanno ovviamente gli uomini che la abitano; perciò questo ci porta inevitabilmente ad una netta conclusione: l’economia è una immanente creazione umana e, pertanto, essa deve ovviamente essere regolata dagli uomini, attraverso leggi.  Se solo si prova ad immaginare una casa senza leggi e nella quale abitano più persone, corrono immediatamente alla mente scene di apocalittica anarchia. Nessun padre di famiglia o coinquilino si sognerebbe mai di dire: “da oggi le leggi di questa casa si autoregolano, è sufficiente perseguire ognuno il proprio interesse, la mano invisibile farà il resto.” Chiunque lo prenderebbe per pazzo e gli consiglierebbe un bravo dottore. Tuttavia, non si comprende come sia possibile che quando si parla della casa di tutti, ossia uno Stato, improvvisamente questa idea dell’autoregolazione debba acquisire credibilità.

 

Il termine “legge” è senza dubbio ambivalente, poiché viene utilizzato sia per le leggi create dall’uomo sia per quelle della natura. Tuttavia, la sentenza della filologia al riguardo è inappellabile, poiché è evidente che le leggi della casa vengono stabilite, regolate ed eventualmente cambiate da chi la abita e non sono leggi indipendenti dall’attività umana come quelle della natura, altrimenti i greci avrebbero richiamato, senza dubbio, il concetto di “physis”, ossia di “natura”, ad essi molto caro. A questo punto viene alla mente la serrata critica svolta, nel secolo scorso, dall’antropologo ungherese Karl Polanyi, il quale si rifiutava nettamente di riconoscere un carattere di “naturalità” all’economia di mercato, ritenendola piuttosto un’anomalia nella storia della società umana, come ampiamente spiegato nel suo capolavoro La Grande Trasformazione. Egli ritiene che l’economia di mercato sia contraddistinta da un’innaturale mercificazione di tutta la società e in particolar modo di: terra, lavoro e denaro, ossia tre aspetti fondamentali della società che invece non sono merci. Ad esempio, se il lavoro fosse una merce, allora l’uomo che lo presta dovrebbe cercare di venderlo al prezzo più alto possibile, il che significa che il compito principale del lavoro, inteso come merce, dovrebbe essere quello di scioperare continuamente al fine di alzare il suo prezzo. Pertanto, semplificando, Polanyi giunge alla conclusione che essendo la mercificazione totale della società umana un processo innaturale, l’economia di mercato che la genera deve essere altrettanto innaturale. L’economia, perciò, non deve essere assolutamente considerata come avulsa dalla società, bensì come qualcosa di integrato e radicato all’interno di essa. Non può essere caratterizzata da aspetti trascendenti, poiché essa è esclusivamente immanente e soprattutto essa non è definitivamente in grado di autoregolarsi, ma va regolata attraverso leggi dal suo creatore: l’uomo.