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Iryna, Charlie Kirk e i fiumi di sangue

di Roberto Pecchioli - 14/09/2025

Iryna, Charlie Kirk e i fiumi di sangue

Fonte: Ereticamente

Nel 1968, data simbolo del tramonto della nostra civiltà, il deputato inglese Enoch Powell pronunciò un discorso che gli costò la carriera politica. È noto come il discorso dei fiumi di sangue, poiché profetizzava che l’immigrazione massiccia avrebbe portato a scontri violenti. Ci siamo: i fiumi sono ancora ruscelli ma il solco è tracciato e non sarà facile fermarlo. Nel Regno Unito la polarizzazione etnica è drammatica e le norme di legge   colpiscono i britannici e favoriscono immigrati e “nuovi inglesi”. Perfino il sindaco di Londra e il ministro dell’interno sono di origine pakistana. Analoga situazione nella polveriera francese, aggravata dalla crisi politica, economica e sociale.
In America è peggio: due omicidi scuotono la coscienza di chi ancora ne possiede una. Il primo riguarda una ragazza ucraina, Iryna Zarutska, uccisa nella metropolitana di una città di provincia da un afroamericano (si deve dire così, per correttezza politica) per odio razziale. L’assassino aveva quattordici precedenti penali ed era stato rilasciato dopo un processo da una giudice, afroamericana come lui. La razzializzazione dilaga negli Usa, imponendo la legge del sangue sul diritto. La vittima aveva tutte le caratteristiche per diventare un simbolo di cordoglio: donna, giovane, rifugiata, uccisa da un maschio predatore. Invece no: ha il torto di essere bianca e di essere stata uccisa da un nero. Iryna non merita l’attenzione degli antirazzisti di professione né delle femministe.
Nessun femminicidio, nessuna indignazione a comando delle rancorose neo-suffragette. Nessuna stella dello sport o dello spettacolo si inginocchia come divenne obbligatorio per George Floyd, il pregiudicato nero ucciso da un poliziotto bianco. Black Lives Matter, le vite dei neri importano, quella della povera Iryna no. La vittima, in questo caso, è il carnefice, rappresentante di un’etnia maltrattata. Non pochi lo dicono apertamente. Nessuno denuncia il cortocircuito di una società iperindividualista che odia il passato ma rende eterne le colpe – vere o presunte – delle precedenti generazioni, imponendo pene e risarcimenti ai discendenti. Ancora la legge del sangue, alla faccia di tutti i principi della democrazia (ah, ah) liberale.
Il 10 settembre scorso, in un’università dove teneva una conferenza, è stato assassinato Charlie Kirk, giovane attivista conservatore. Il bersaglio perfetto dell’odio della canea radicale progressista (gran bel progresso). Trentenne, cristiano, padre di famiglia, bianco, sessualmente normale, non immigrazionista, colto, sostenitore della famiglia e della patria. Per di più capace di mobilitare le coscienze con il suo movimento Turning point (Punto di svolta) e di sfidare gli avversari sul terreno concreto delle idee: prove me wrong, provatemi che ho torto, era la sua frase simbolo.  Impossibile: gli empi, i malvagi, i nemici assoluti – la Teoria del partigiano di Carl Schmitt comprese tutto nel 1963- devono essere distrutti, annientati. Nessuna discussione: meritano la morte.
Nel caso di Charlie, la gioia per l’accaduto – l’approvazione dell’omicidio – traspare dai commenti di gran parte dei sinistrati. Sinistrati, sì: l’unica definizione corretta del mondo un po’ liberal, molto radical, woke, assai progressista, post-marxista e ormai post-umano investito da un disastroso terremoto mentale e morale che dura da mezzo secolo. Charlie, nel più sobrio dei commenti, “se l’è cercata”, come ha fatto intendere Piergiorgio Odifreddi. Ce la cerchiamo tutti noi che osiamo credere in Dio, patria e famiglia, che siamo attratti dall’altro sesso, che amiamo la vita e la sua trasmissione, che riconosciamo il debito con il passato, che siamo ciò che siamo in quanto figli di una civiltà, di una lingua, di un’identità, di un popolo e di una tradizione. Provateci che abbiamo torto, ma confrontarsi con noi è vietato. Ed anche pericoloso per voi, poiché metterebbe in dubbio granitici teoremi indimostrati, le tavole della neo-legge delle magnifiche sorti e progressive.
È morto un ragazzo intelligente e coraggioso. L’assassino sembra assicurato alla giustizia, così dice la formula del più vieto conformismo. Ragazzo anch’egli, di ventidue anni, prigioniero di idee mal masticate, nutrito, pare, di retorica LGBT, animato da un odio senza requie. Tiratore brillante con fucile di precisione e pallottole su cui, insieme ad altre frasi sconclusionate, è inciso, in italiano, Bella Ciao. Tombola. Nessuna colpa all’ANPI o all’ultimo partigiano centenario, ovviamente, ma il clima, il sentimento è quello. Al nemico si spara e lo sia elimina, tra gli applausi scroscianti della curva ultrà e la non celata soddisfazione delle anime belle, per le quali l’odio è sempre altrui. Ben gli sta, uno di meno, sono le vomitevoli frasi ricorrenti.
L’assassino sarebbe un lupo solitario come l’aguzzino di Irina, troppo bianca per vivere. Possibile, ma sono davvero troppi gli isolati squilibrati con armi, preparazione militare e mira infallibile. Trump se la cavò per un movimento imprevedibile; il giovane candidato colombiano Miguel Uribe avverso alla sinistra (e ai narcos) non ha avuto altrettanta fortuna, come il politico giapponese Shinzo Abe. L’assassinio ridiventa arma di lotta politica. Lo slovacco Fico è sopravvissuto a un attentato, l’avversaria della pasionaria filoccidentale moldava Maia Sandu è in carcere con accuse pretestuose. I candidati di Alternative fuer Deutschland muoiono inspiegabilmente nell’imminenza del voto, l’ex presidente brasiliano Bolsonaro è condannato a decenni di galera per reati politici.
Sì, è proprio un “turning point”, un punto di svolta. Il Male non si nasconde più, la belva è ferita e risponde solo alla logica dell’odio, della distruzione, della morte. Il progresso del mondo al contrario.  Nel caso di Kirk, il bersaglio è stato scelto con cura, non certo dal solito pazzoide sempre presente negli omicidi politici americani: giovane, capace di mobilitare, dotato di capacità dialettiche, fortemente dedito alla sua causa. Provami che ho torto, diceva, mostrando di credere nelle sue idee e nel metodo del dialogo, una parola abusata e screditata dall’uso che ne fanno i sinistrati. Chi sollecita il dibattito non è un fanatico, per quanto nette possano essere le sue posizioni. Crede nel vero pluralismo che il radicalismo progre vede come il fumo negli occhi; rispetta, riconoscendolo, l’avversario. È davvero troppo per lo sciame sinistrato, i cui esponenti mediatici definiscono controverso o divisivo Charlie Kirk. Ipocrisia disgustosa per non condannarlo direttamente. Ebbene sì, la controversia è l’anima del pensiero in quanto divide mettendo a confronto le posizioni.  Altra cosa è la polarizzazione estrema delle società ex liberali e democratiche, arrivata a istituire il reato di odio, naturalmente a carico di chi non condivide le meraviglie della società aperta.
Il giudizio si fa scivoloso, aspro, va oltre la decadenza degli Stati Uniti, la guerra civile strisciante che vi si combatte e il declino delle società europee. La frattura è ormai insanabile, tanto sul versante etnico che su quello dei principi e dei valori. La storia, con buona pace del suprematismo liberale, non è finita con il crollo del comunismo novecentesco. I detriti del secolo passato hanno partorito la follia woke, l’onda LGBT, la decostruzione di ogni principio comune, mantenendo intatto il potenziale di violenza e odio delle vecchie ideologie. Tutto ciò è diventato ossessivo, disumanizzante, con l’attribuzione dello stigma di fascismo e nazismo a tutto ciò che non è conforme al criterio ideologico dominante.
La generazione di chi scrive lo ha sperimentato sulla propria pelle. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo breve e sterminato di cui siamo figli, l’Italia visse un’ondata di odio e violenza alimentata dalle università, dai giornali, da un pensiero malato per il quale uccidere il nemico diventava un atto rivoluzionario, un gesto di giustizia e liberazione. Uccidere un fascista non è reato, si cantava a squarciagola nelle piazze e nelle scuole. Non pochi lo fecero per davvero. Oggi fascista è chiunque non appartenga al fronte progressista; omofobo, xenofobo, razzista, maschilista, antiabortista, cristiano, non sono più insulti, ma etichette, lettere scarlatte che identificano altrettanti bersagli. Chi ha fatto l’esperienza dell’odio in quegli anni maledetti lo sa bene.
Chi scrive ne è stato testimone e vittima: nel mirino ci sono io, proprio io, anche se non mi conoscono e nulla sanno dei miei pensieri. È qualcosa che cambia la vita e lascia due sole alternative: diventare come loro, rispondendo all’odio con altro odio, alla violenza con altra violenza, o scoprire l’orgoglio di essere diversi. Non pensare, dire, agire come chi ci chiama nemici. Marcare la distanza in termini morali, culturali, comportamentali. Purtroppo, alle parole violente, al rancore diffuso a piene mani, all’acredine e al pregiudizio segue inevitabilmente la violenza fisica, il desiderio, la voluttà di farla finita con l’altro, il nemico disumanizzato. La disumanizzazione però è il destino di chi odia, di chi usa, istiga, innalza la violenza, di chi sragiona in termini di livore, di contrapposizioni la cui unica soluzione è il sangue.
Così sta morendo l’occidente, travolto da mille terremoti, sfigurato da innumerevoli cambiamenti, malato di troppe follie. Non ci può essere mediazione tra “noi “e “loro”, se non accettando di mettere tutto in discussione. Con forza e umiltà, nel reciproco riconoscimento: provami che ho torto, la sfida di Charlie Kirk. In caso contrario, scorreranno davvero, accanto a noi e su di noi, fiumi di sangue. Che il cielo vi sia lieve, al contrario della terra, Iryna, Charlie, e a tutti i caduti per le loro idee o per ciò che erano.