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L'alleato talebano

di Stefano De Rosa - 05/09/2021

L'alleato talebano

Fonte: Italicum

Il precipitoso disimpegno americano e nord-atlantico dall’Afghanistan e lo speculare impetuoso ritorno dei talebani a Kabul (la politica – si sa – non ammette spazi vuoti) rappresentano una straordinaria conferma della compresenza nella Storia di tempi diversi: dall’avvenimento, considerato nella sua unicità, alle congiunture e alle ciclicità, per finire alla lunga durata, il tempo immobile proprio della stabilità strutturale. Ebbene, le convulse vicende afghane del mese di agosto comprendono e riassumono le differenti periodizzazioni del tempo storico.

Soffermeremo la nostra attenzione non sui singoli avvenimenti che hanno segnato la cronaca di questi giorni, bensì su un tempo di media durata, pari ai venti anni intercorrenti dall’intervento alleato di guerra preventiva per esportare la democrazia dopo l’attacco alle Twin Towers fino all’estate del 2021. Un altro “Ventennio”, forse meno vituperato dalla vulgata, ma, a differenza dell’altro, concluso senza onore e senza sparare un colpo.

Il crollo del governo afghano e la presa del potere da parte degli studenti islamici ha riportato, in un beffardo gioco dell’oca, le lancette della Storia indietro di due decenni o, per essere più precisi, ha collocato i precedenti detentori del potere dal 1996 al 2001 ancora una volta al comando di una terra impermeabile a conquiste o dominazioni straniere. Gli Afghani hanno difatti resistito ad Alessandro Magno, alle invasioni mongole e, in epoca contemporanea, ad Inglesi e Zaristi; poi alla strapotenza sovietica dal 1979 al 1989 e, in ultimo, agli Americani e ai loro sudditi atlantici. Una Historia magistra vitae che evidentemente non ha svolto bene le sue lezioni o che, forse, ha incontrato studenti disattenti.

Ma quel che più ha rilievo nello sviluppo dei giorni di metà agosto è la conferma della persistenza che contraddistingue la storia immobile, acronica, silenziosa di quel paese. Anche la sua stabilità nel cambiamento. I vent’anni di presenza occidentale hanno con fatica portato negozi, scuole, accesso al lavoro, tecnologia, crescita demografica, partecipazione politica, livelli di consumo e benessere prima sconosciuti. Ma queste modifiche del vissuto sociale ed individuale sono rimaste in superficie, non hanno intaccato la sottostante roccia del livello mentale.

Gli ultimi venti anni, cioè, non sono stati sufficienti (o adeguati) a produrre cambiamenti in seno alla struttura di una società fortemente innervata da ideologie ancestrali, peraltro coadiuvate da una chiusura religiosa ed una geografica fisica ad esse funzionali. La rottura di continuità, la “rivoluzione” non c’è stata. Questo il fallimento dell’Occidente. Sono bastate 72 ore per affermare l’heri dicebamus in salsa talebana. A proposito di ventennio.

La lotta al terrorismo invocata e perseguita nel 2001 si inscrive a pieno titolo nella Storia événementielle; la costruzione della nazione – il cosiddetto nation building – ipocritamente negata dal Presidente Usa (in politica la sconfitta non ha padri) si può riferire ad un tempo congiunturale. Ma temiamo che il crollo di credibilità internazionale dell’Occidente atlantico attenga, invece, alla sfera del lungo periodo e che quindi finisca per sedimentarsi nei giacimenti della memoria con esiti persistenti.

Riferendoci a quell’affascinante filone della scienza storica che tende a riconciliare avvenimento e lunga durata, ci permettiamo di prevedere che la scadenza dell’11 settembre, il ventennale dell’attentato alle Torri Gemelle, da un lato sarà utilizzata dal ricostituito califfato islamico dell’Afghanistan con intenti celebrativi e, dall’altro, per (ri)affermare l’immobilità di una mentalità ideologica e religiosa che finora nessun tentativo politico, economico o militare ha potuto minimamente scalfire.

Con l’avvio del nuovo corso a Kabul, ad apparire subito critico è stato il destino del numeroso personale locale che ha prestato la sua indispensabile collaborazione presso i comandi militari e le articolazioni funzionali della coalizione. L’evacuazione necessaria e moralmente doverosa di questi operatori e delle relative famiglie dal territorio afghano implica, in forza del ruolo di paese occupante svolto dall’Italia, anche il dovere di accoglienza nei nostri confini – nella veste di rifugiati ed in quota parte – quale risposta immediata ad un’emergenza imposta dal precipitare degli eventi.

Ciò che invece ha egemonizzato la narrazione delle cronache afghane, arrivando persino a marginalizzare le ben più rilevanti connotazioni geopolitiche e strategiche del ritorno talebano al governo, è stata la preoccupazione per le condizioni delle donne sotto il califfato, un elemento da collocare – secondo la citata tripartizione del tempo storico – nel lungo periodo, tra le immobilità strutturali frutto delle sedimentazioni mentali. Chiariamo, a scanso di equivoci, che il rischio di regressioni temporali per le agibilità socio-culturali del genere femminile non è probabile, ma certo.

Siamo, tuttavia, fiduciosi che le reti del femminismo mondiale, soprattutto quello aggressivo ed oltranzista del #metoo, sapranno adeguatamente denunciare e contrastare nelle aule di giustizia internazionale la sottrazione di futuro e di vita alle donne afghane, così come hanno coraggiosamente combattuto le inaudite violenze subite da molte donne in ascensori o in camere di alberghi a cinque stelle in événements di anni o decenni or sono. Quando si dice il differimento temporale e le intermittenze della memoria.

Quel che sconcerta e preoccupa è che anche in Italia l’argomento della condizione femminile in Afghanistan è stato fatto oggetto di amplificazione e sovraesposizione mediatica – col rischio di farlo scivolare sul terreno della retorica – da parte di una sinistra allo sbando che lo intende utilizzare quale grimaldello morale per giustificare una promettente immigrazione di massa.

Un obiettivo che si vorrebbe facilitare attraverso il subdolo procedimento – frutto del felice incontro tra comunismo mentale e femminismo militante – già rodato con il #metoo: chi osa mettersi di traverso o soltanto esprimere perplessità su metodi o conseguenze viene calpestato, travolto ed eliminato. Un processo che marchia di razzismo, sovranismo, fascismo ed ora, soprattutto, di misoginia chi si oppone alle frontiere aperte. Un’accusa che equivale ad essere – in rapida sequenza – giudicato, condannato e giustiziato alla presenza di distratte tricoteuses connesse in rete. Dunque ad essere collocato fuori dall’unica narrazione storica consentita.

Attenzione, quindi, all’uso distorto dei grandi temi internazionali a fini di basso cabotaggio elettorale e ancora maggiore attenzione alla dolosa confusione dei differenti tempi della Storia. Il pericolo è quello di concentrarsi sulle primarie di partito di qualche amministrazione locale e trascurare gli sconvolgimenti economici e politici degli equilibri mondiali dei prossimi decenni.