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L’Occidente tramonta davvero

di Sergio Romano - 15/04/2019

L’Occidente tramonta davvero

Fonte: Corriere della Sera

La causa maggiore di questo stato di cose è il declino dell’Americasulla scena internazionale. Ma anche quasi tutti i membri dell’Unione Europea stanno attraversando crisi esistenziali

Quando scoppiarono le rivolte arabe credemmo che il fenomeno fosse limitato alla costa meridionale del Mediterraneo e fosse provocato dall’arrivo di nuove generazioni in Paesi dove i vecchi dirigenti (Ben Ali in Tunisia, Gheddafi in Libia, Mubarak in Egitto, Bashar Al Assad in Siria) non avevano saputo offrire ai loro concittadini un futuro migliore. Sbagliavamo per difetto. Poco meno di dieci anni dopo, il Grande Medio Oriente (dall’Algeria di Bouteflika al Pakistan passando per la Libia di Sarraj e Haftar, il Sudan di Omar Al Bashir, la Nigeria di Boko Haram e la Somalia delle milizie Al-Shabaab) è ancora sconvolto da un diffuso malumore popolare, colpi di Stato e, in parecchi casi, attacchi terroristici. Ognuna di queste crisi ha le sue particolari motivazioni, ma la loro concomitanza è sorprendente. Mi chiedo se molti di questi fenomeni non siano dovuti, almeno in parte, all’esistenza di tecnologie che ci permettono di vedere contemporaneamente tutto ciò che accade nell’intero pianeta. Ogni Paese cova i suoi malumori e le sue rabbie, ma i ribelli, dovunque siano, apprendono ogni giorno, accendendo la televisione o aprendo un computer, come si riempie una piazza, si mette una bomba, si rovescia un regime. Vi sono altre ragioni naturalmente. Nei 74 anni passati dalla fine della Seconda guerra mondiale siamo stati spettatori di lunghi momenti durante i quali abbiamo creduto che fosse possibile creare un ordine internazionale.
Durante la Guerra fredda i due grandi nemici erano consapevoli degli effetti che un conflitto nucleare avrebbe avuto per le sorti dell’umanità e hanno imposto a se stessi, con molta saggezza, le regole di un lungo armistizio. Ciascuno dei due gruppi cercava di estendere la propria area d’influenza, ma sapeva fermarsi e riflettere quando era giunto il momento di moderare le proprie ambizioni e di concludere trattati che avrebbero allontanato il pericolo di una guerra. Oggi molti Paesi si comportano sfacciatamente come se il rischio nucleare avesse cessato di esistere. Dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti, anziché concorrere alla formazione di un nuovo ordine mondiale, si sono comportati da vincitori e hanno creato le condizioni per nuovi dissidi; mentre la Russia di Putin ha raccolto le provocazioni americane con altrettanta spensieratezza. Le Nazioni Unite sono, dal primo giorno della loro esistenza, un’organizzazione imperfetta, ma alcuni interventi dei «caschi blu» hanno separato i contendenti e congelato le crisi. Oggi l’Onu non ha perso interamente la sua utilità, ma è difficile sperare che possa diventare la grande istituzione in cui avevamo riposto molte speranze.
La causa maggiore di questo stato di cose è, probabilmente, il declino dell’America sulla scena internazionale. Come potenza militare il Paese sta pagando il prezzo delle guerre perdute o vinte solo apparentemente (Iraq, Afghanistan) e delle sue avventate operazioni militari come quella contro Gheddafi in Libia nel 2011. Di questo declino avevamo già visto alcuni segnali durante il secondo mandato di Barack Obama, quando il presidente, nell’agosto del 2012, tracciò una «linea rossa» sul terreno della guerra siriana e minacciò di intervenire militarmente se Bashar Al Assad avesse usato le sue armi chimiche; ma finì per accontentarsi di una soluzione meno bellicosa e meno efficace.

Dopo l’elezione del suo successore, il declino degli Stati Uniti è ancora più evidente. Il Paese che Madeleine Albright aveva definito «indispensabile» è diventato imprevedibile. Donald Trump oscilla continuamente fra scatti di isolazionismo e umorali minacce di intervento. Vuole costruire un muro contro l’immigrazione lungo la frontiera con il Messico, annuncia ulteriori dazi contro le merci provenienti dalla Cina, cambia opinione da un giorno all’altro sul carattere del leader nord-coreano, apre un fronte contro l’Unione Europea accusando la Commissione di dare ad Airbus aiuti di Stato, esalta l’utilità della Nato ma tratta i suoi membri europei come soci morosi, denuncia trattati utili al mondo come quelli sul clima e sulla installazione di missili intermedi, crea il caos nella vita quotidiana del suo Paese con pretese finanziarie che hanno provocato la serrata del bilancio nazionale.
Il quadro non sarebbe completo, tuttavia, se non riconoscessimo che il caos mondiale ha altri padri. Dopo essere stati per molti anni altrettanti modelli di democrazia liberale per gli Stati emergenti, quasi tutti i membri dell’Unione Europea stanno attraversando crisi esistenziali. La democrazia rappresentativa soffre di una generale sfiducia. Le unità nazionali sono minacciate nel Regno Unito come in Spagna. I regimi sovranisti fanno politiche strettamente locali. Possono collaborare per conquistare seggi al Parlamento di Strasburgo, ma non possono accordarsi per una coerente politica internazionale. Gli organismi dell’Unione Europea sono assorbiti dalla cura dei loro malanni. Anche dopo la fine del suo Impero, la Gran Bretagna aveva conservato una notevole influenza nelle sue vecchie colonie dell’Africa e dell’Asia. Ma oggi sembra condannata ad affogare nelle sabbie mobili della Brexit. L’Africa è a portata di mano e sarebbe una preziosa risorsa per tutti i Paesi europei che vi hanno lasciato tracce del loro passaggio. Ma è stata abbandonata alla Cina. Dopo la vittoria elettorale di Netanyahu e la benedizione di Trump, Israele sembra prepararsi ad annettere alcuni territori occupati e a rendere praticamente impossibile la prospettiva di uno Stato arabo in Palestina. L’America Latina, come in altri momenti della sua storia, è un fertile terreno per nuovi caudillos. Mentre il Giappone (sinora il più occidentale degli Stati asiatici) è vittima di una minacciosa crisi demografica che lo priverà ogni anno, secondo una indagine del Financial Times, della popolazione corrispondente a una città di media grandezza. Forse Oswald Spengler potrebbe aggiungere un capitolo al suo «Tramonto dell’Occidente».