Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La bellezza è diventata la bruttezza alla moda

La bellezza è diventata la bruttezza alla moda

di Roberto Pecchioli - 28/09/2025

La bellezza è diventata la bruttezza alla moda

Fonte: EreticaMente

Viviamo nella bruttezza e nella bruttura. La bellezza è diventata la bruttezza alla moda. La frase è di Jean Cau , scritta mezzo secolo fa agli albori del degrado in un brillantissimo saggio misconosciuto nonostante ( o a causa) del suo valore, Le scuderie dell’Occidente.  Cau, autore de Il cavaliere, la morte e il diavolo, allegoria sull’esistenza attraverso l’ omonima incisione di Albrecht Duerer, fu in gioventù segretario del peggiore tra i cattivi maestri francesi, Jean Paul Sartre, per allontanarsene radicalmente e finire proscritto dalle mafie culturali.
Viviamo circondati, inseguiti dalla bruttezza: delle città, dei paesaggi sfigurati che circondano perfino icone mercificate dell’arte come Firenze e Siena, dell’etica , dell’estetica personale. E’ brutto il modo di comportarsi, di parlare, la postura stessa dei contemporanei dal petto incavato, curvi sugli apparati artificiali, abbigliati con stracci orrendi, felpe con cappuccio munite di frasi vuote rigorosamente in inglese e di iconografie dai riferimenti inferi, calzoni sdruciti, strappati a bella posta ( costano di più e gli sciocchi abboccano) ,  capigliature scarmigliate con tinte innaturali – dominano il viola, il verde e l’azzurro- e naturalmente i tatuaggi d’ordinanza, generalmente brutti, informi o ripetitivi ( dov’ è l’individualizzazione ambita ?) ghirigori simboli del nulla, della forza travolgente della moda o dell’ansiogena volontà di fare del corpo un’”opera d’arte”unica.
Pochi sembrano far caso o dolersi della bruttezza: fa parte della normalità e, se è di moda, viene definita bellezza. Un vaso da notte come copricapo diventerebbe bello se il riflesso pavloviano della tendenza lo imponesse al gregge umano. La bruttezza è democratica, nel senso di materiale, immediata, alla portata di tutti. La bellezza è aristocratica in quanto eleva, fa riflettere, porta gioia interiore, stimola la riflessione e proietta nel territorio  dell’anima. Eppure il bello – nell’arte, nel canto, nella danza, nei gesti, nell’atteggiamento, nella natura, in tutto ciò che ci circonda- è stato sempre percepito dagli esseri umani come superiore che conferisce senso alla vita. Dinanzi allo spettacolo della bellezza si prova un sommovimento interiore, un’ emozione e una commozione spesso inspiegabile, si sperimenta un lampo di eternità .
Ma viviamo nel tempo più gretto e materiale della storia, quindi la domanda è : a che serve la bellezza? Non conosciamo la risposta; ricorriamo ai giganti sulle cui spalle scrutiamo il mondo. Per Aristotele la bellezza è un dono di Dio. Poiché siamo diventati atei, ecco un forte argomento a favore del brutto. Shakespeare fa dire a un suo personaggio “ la bellezza da sola basta a persuadere gli occhi degli uomini, senza bisogno di oratori”. Ma siamo ciechi condotti da pazzi, un’altra perla del bardo inglese.  Nulla di ciò che è bello è indispensabile alla vita. Di veramente bello c’è soltanto ciò che non può servire a nulla. Tutto ciò che è utile è brutto. Parola di Theophile Gautier in Mademoiselle de Maupin. Non serve a nulla una rosa sbocciata, né è utile ad alcuno l’incanto di  un tramonto o il canto di un uccellino. Meglio le previsioni meteorologiche o il suono del registratore di cassa. Utile è solo ciò che serve e brutti sono i volti del potere, facce da cortigiani o capi reparto, amabili quanto il venditore ansioso di rifilarci un paio di scarpe.
Non sapremmo dire in che maniera la bellezza salverà il mondo- la potente esclamazione del Principe Myshkin di Dostoevskij- ma siamo certi che la bruttezza lo distrugge. E’ chiaro agli occhi di chi ancora guarda, oltreché vedere. Invece predominano il kitsch– ciò che è eccessivo, imitazione sguaiata del bello- la sciatteria dilagante, a cominciare  dal linguaggio piatto ridotto a pochi vocaboli, a formule stereotipate, onomatopee, al turpiloquio trasformato in intercalare. Prevalgono il disordinato e l’informe, spacciati per immediatezza. L’animo nobile, disse Goethe, aspira a un ordine e a una legge, di cui intuisce la relazione con la bellezza. Ancora più netti erano i greci, per i quali il buono e il bello tendono a coincidere ( kalòs kài agathòs) sulla via della virtù. Bellezza è verità e verità e bellezza, è il grido che prorompe dalla bocca di John Keats, poeta romantico, dinanzi a un’urna greca. Dunque bruttezza è menzogna: infatti viviamo immersi nelle bugie, credute per la potenza di chi le racconta e l’inettitudine di chi le ascolta, non più ammaestrato dalla e alla bellezza della verità.
E’ definita arte ogni espressione creativa ( che è altra cosa) per quanto bizzarra, strumentale , oscena o ridicola. Hanno trovato il sinonimo: installazione. Spacciano per arte una banana appesa al muro con il nastro adesivo. Più onesta la pubblicità seriale della zuppa di pomodoro Campbell di Andy Warhol, esposta come al supermercato, che eleva ad arte la forma merce, la missione del pop. Oppure ad abbassare l’arte a prodotto di consumo in un mondo dominato dai falsi messaggi della propaganda e della pubblicità, le  neoscienze a misura di consumatore. Le arti figurative hanno smesso di rappresentare l’uomo, volgendosi non alla natura ma all’informe, all’astratto, non di rado all’insensato. La forma ideale della non-arte è il rizoma, l’escrescenza che tracima  senza direzione.
Decide una casta di sedicenti esperti su ciò che dobbiamo considerare arte e ne fissa il prezzo in numerario. Se tutto ha un prezzo, nulla ha valore. La bellezza è il tempio dello spirito della creatura che alza lo sguardo. Come il tempio religioso, è sacra perché non in vendita. Impensabile dove tutto è valutato in denaro. Ho un cappotto da mille euro, ho comprato un’auto da cinquantamila, un quadro di Van Gogh vale cento milioni di dollari. Il suo dipinto Un paio di scarpe, amatissimo da Picasso, costa tanto anche perché fu oggetto di un’intensa riflessione di Martin Heidegger sulla genesi dell’opera d’arte. Povero Vincent, ecco a che serve la filosofia, tipica domanda degli sciocchi.
Quanto alla musica, è forse arte il baccano cadenzato , amplificato da meccanismi artificiali, di gran parte del rap e del trap, accompagnato da testi demenziali, volgari o violenti? O le sonorità che assordano e sballano nei rave party, il cui fine è togliere i freni sino agli eccessi di droga, alcool, sesso, o l’happening confuso , il monotono girotondo di dervisci isterici senz’anima che chiamano libertà. L’arte ha espulso l’uomo dal proprio orizzonte, fatto oggi da prodotti di serie, come Walter Bejamin presentì ne L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica, ovvero da una pseudo arte che “ ridacchia, sbeffeggia, corrode e distrugge ogni cosa. “ ( J. Cau).
Bruttezza e bruttura sono segni dei tempi, cioè frutti della volontà dominante, distruttiva, disanimata, fonte di un disperante nichilismo. Avanza anche il brutto politico, la gestione senz’anima di gelidi tecnocrati privi di un progetto diverso dal successo personale. E il brutto economico-sociale che chiama libero mercato il dominio di pochi giganti che scacciano uno dopo l’altro i concorrenti. Ed è brutto etico la competizione continua, la guerra di tutti contro tutti del liberismo. Quanto al  brutto estetico, come giudicare le macchie e i ghirigori spacciate per arte di strada che imbratta muri, palazzi e mezzi di trasporto, in cui non c’entra nulla Bansky, pseudonimo del writer sconosciuto, icona della street art. Bruttezza sono i nonluoghi- aeroporti, stazioni, svincoli, accessi e piazzali dei centri commerciali- in cui è obbligato a deambulare il viandante ridotto a criceto nella ruota. Bruttura è la ricerca ossessiva del piacere per se stesso, senza volto né scopo. E la crisi di civiltà divenuta “pauroso rifiuto di ogni altezza” ( Il Cavaliere, la morte, il diavolo) della folla postmoderna la cui cifra estetica è il kitsch. Del resto, la borghesia non ha mai posseduto gusto, se non mimetico, imitazione di ciò che stava più in alto. 
Orrenda è la bruttezza unita alla bruttura dell’iconografia arcobaleno da gay pride, il travestimento che allude al male e sprofonda nell’ osceno. Nulla a che vedere con la composta dignità del Quarto Stato, gli operai e i contadini, semplici , belli ed eleganti al loro irrompere nella storia, del quadro di Pellizza da Volpedo. Oggi si aggirano corpi deturpati dall’odio, viola di rabbia, privi del decoro delle folle proletarie in lotta di ieri.  Da quarto stato siamo passati a massa, poi gente, per finire in moltitudine di uno sciame senza direzione. Si vive in un presente privo di autocoscienza, la cui caratteristica è il rigetto ossessivo di “prima” unito all’indifferenza per “dopo”. Nulla di simile all’ invocazione di Goethe “fermati, attimo, sei così bello!”. La bellezza del momento irripetibile sta spesso nella visione folgorante della bellezza, nella sua contemplazione e ineffabilità, nella sorpresa che sgorga dal cuore. Però un cuore – distinto dal muscolo pulsante- bisogna averlo, per attingere alla meraviglia della bellezza , inaccessibile agli “ultimi uomini” che sogghignano e ridacchiano, che non sanno disprezzarsi, incapaci di partorire stelle perché insensibili alla bellezza.
Così ci hanno voluto, così ci stanno plasmando con un successo che induce al pessimismo. Non resta che pensare l’opposto dell’opinione prevalente, lanciare un urlo tra le rovine. La bruttezza diventa normalità alla moda per chi non sa più vedere le rovine che lo circondano. Tantomeno, come il Pilota di guerra di Saint Exupéry, indovinare che tra le pietre sbriciolate nel regno della quantità si possono scorgere- per ricostruirle – le fondamenta di nuove cattedrali. Che non furono edificate dall’ente del turismo. Per innalzarle ci volle ben altro che un’opinione, servì una fede, un obiettivo elevato. E un’idea di bellezza che leva lo sguardo al cielo e trascura gli schiamazzi giù in basso. Non si può essere contro i lupi e far parte del branco.